Purtroppo non è mai successo, né ora né in precedenza con la serie di articoli di Una Ahnenerbe casalinga, di riuscire a stare dietro alla quantità di eventi e notizie che riguardano la nostra eredità ancestrale in tempo reale, ma stavolta, complice anche la pausa estiva, il ritardo accumulato è davvero notevole, confido tuttavia che ci rimetteremo presto, se non proprio in pari, perlomeno con un ritardo ragionevole e accettabile, approfittando del fatto che solitamente uno di questi articoli copre un’area temporale più o meno di un mese, mentre la loro comparsa sulle pagine di “Ereticamente”, così come è stato per Una Ahnenerbe casalinga, prevedo che sarà più o meno bisettimanale.
Ricominciamo dunque dall’ultima decade di agosto, e non è possibile non menzionare un articolo pubblicato proprio da “Ereticamente” il 23, con un titolo che è tutto un programma: Cantami o diva, del nero Achille l’ira funesta del nostro Roberto Pecchioli. Il nostro collaboratore, giustamente, punta il dito contro il fatto che sempre più spesso nelle fiction di marca hollywoodiana che ci invadono e mirano a colonizzarci spiritualmente, sempre più spesso personaggi della storia, della letteratura, della mitologia europea sono rappresentati da attori di colore. Si tratta di un modo subdolo per dar a intendere ai nostri contemporanei per cui la fiction cinematografica e televisiva tende sempre più a sostituirsi alla percezione della realtà, che le società multietniche come quella che ci stanno forzatamente imponendo con un’immigrazione/invasione pilotata dall’Africa siano qualcosa di “normale” e “sempre esistito”, invece dell’aberrazione contemporanea finalizzata alla sostituzione etnica, a portare all’estinzione i popoli europei nativi, che in effetti è.
Di più: Pecchioli fa notare che queste fiction sono diventate un veicolo per far passare come “normale” ogni genere di perversione e anomalia secondo i canoni dell’ideologia LGBT, chiaramente finalizzata ad abbassare la fecondità dei popoli europei e favorire la sostituzione etnica.
Il nostro amico ha indiscutibilmente ragione quando afferma che:
“Gilbert Chesterton fu un profeta quando affermò che presto si sarebbe dovuta sguainare la spada per affermare che l’erba è verde in primavera”.
Al suo discorso ci sarebbe da muovere un unico appunto, che poi non è una critica ma un completamento. La fase della persuasione subliminale a favore delle società multietniche, di una immaginaria multietnicità del passato europeo, sembra conclusa, e oggi si è passati alla mistificazione esplicita, come dimostrano il falso dell’attribuzione di caratteristiche subsahariane all’uomo di Cheddar, l’articolo su “Nature” (mica una rivistina qualsiasi) sui Vichinghi multietnici, il filmato della BBC (mica un’emittente qualsiasi) sugli Inglesi multietnici, e anche per quanto riguarda noi in Italia, il post diventato virale di una pidiota di sinistra che reclama la messa al bando dalle scuole italiane dei Promessi sposi perché tutti i personaggi sono bianchi, cattolici, eterosessuali, come abbiamo visto negli articoli precedenti.
A questo proposito, sarà forse il caso di menzionare il fatto che poco prima che cominciasse a circolare il post della suddetta pidiota, un’altra tizia della stessa parrocchia ne aveva pubblicato un altro in cui cercava di persuaderci che i Romani erano stati multietnici e multirazziali. Come? Citando Scipione l’Africano. Evidentemente costei non aveva nessuna idea di come funzionasse il sistema dei soprannomi onorifici romani, e nemmeno il sospetto, con ogni verosimiglianza, che una cosa del genere esistesse, e probabilmente s’immaginava uno Scipione dalla pelle scura e i capelli crespi.
Ridicolo è dire poco: Publio Cornelio Scipione era un membro della gens Cornelia, una delle più nobili famiglie patrizie, ed era del più puro sangue romano. Il soprannome di “Africano” significa “vincitore in Africa” e gli fu attribuito in quanto artefice della vittoria di Zama contro Annibale, nella battaglia combattuta sul suolo cartaginese che pose fine alla seconda guerra punica.
Noi per decenni abbiamo dovuto convivere con lo stereotipo e il complesso di una presunta superiorità culturale della sinistra (e ancora oggi c’è qualcuno che ci crede), dettati dall’egemonia che gli eredi del ’68 sono purtroppo riusciti a ottenere nel mondo della scuola e in quello accademico, nonché attraverso il controllo dell’editoria. Bene, se non altro oggi internet e facebook proprio attraverso i loro post ci mostrano la nuda e impietosa realtà: questi pidioti sono ignoranti come capre.
Tuttavia, limitarsi a sorriderne sarebbe un errore, bisogna non sottovalutare l’impatto che queste visioni distorte possono avere sostituendosi alla conoscenza della realtà. Come ha spiegato George Orwell, non è vero quello che è vero, ma quello che tutti credono che sia, e non è proprio il caso di abbassare la guardia.
Sempre il 23 agosto, “Balarm.it” ha pubblicato un articolo del geologo Andrea Di Piazza sul parco siciliano dell’Argimusco, la poco conosciuta Stonehenge siciliana che si trova sui Nebrodi nei pressi di Montalbano Elicona, ignota ai più ma non al sottoscritto che ne ha parlato nel corso della conferenza tenuta lo scorso giugno al festival celtico triestino Triskell, dedicata al fenomeno megalitico in Italia, e di cui conto di presentarvi quanto prima il testo su “Ereticamente”.
Sempre il 23 agosto (giornata stranamente intensa per le nostre tematiche, “Ancient Origins” ha pubblicato un articolo a firma di Roberto Volterri dove si spiega che il viaggio di Ulisse e le vicende narrate nell’Odissea si sarebbero potuti svolgere non nel Mediterraneo ma nel Baltico. Vi ricorda qualcosa? Ma certo, è la tesi esposta da Felice Vinci nel suo libro che s’intitola appunto Omero nel Baltico. Vinci, Volterri non si degna nemmeno di nominarlo, e in compenso l’articolo è una pubblicità mica tanto occulta al suo libro Archeologia dell’introvabile. Io ho segnalato la cosa a Felice Vinci, col quale ero da tempo in contatto epistolare, e che recentemente ho avuto il piacere di conoscere di persona, e vedrà lui come regolarsi, se considerare Volterri un plagiario o meno.
Il 25 agosto RAINews ha pubblicato un articolo piuttosto singolare sulle ricerche che sono state recentemente compiute nella necropoli della città maya di Comalcalco nello stato messicano di Tabasco, città fiorita tra il 250 e il 980 d. C., ma la necropoli potrebbe essersi sviluppata attorno a un’area che includeva sepolture notevolmente più antiche. Già studiando la città, gli archeologi avevano notato caratteristiche costruttive estranee alla cultura maya e tipiche del mondo mediterraneo: l’uso di mattoni cotti nella costruzione delle piramidi, e condutture per l’acqua sempre in argilla cotta.
Ora gli scavi nella necropoli hanno portato alla luce inumazioni di corpi dentro giare, una modalità di sepoltura sconosciuta presso i Maya e invece diffusa nel Mediterraneo. Tutto ciò porta a pensare ad antichi contatti tra il Mediterraneo e il Centroamerica. Forse la città maya sarebbe sorta attorno a un antico insediamento di navigatori mediterranei o ai suoi resti. Per ora, possiamo soltanto dire che questa è una riprova in più di quanto, in effetti, conosciamo poco del nostro passato.
In ritardo rispetto ad altre fonti di informazione, ma la notizia del ritrovamento, o meglio del riconoscimento come sapiens del teschio ritrovato nella grotta greca di Apidima e risalente a 230.000 anni fa, è arrivato anche nella rubrica scientifica sulle pagine di “Repubblica”. A mio parere, in questo caso non è tanto l’articolo in sé a essere importante, quanto la sede in cui compare. Annotiamocelo, teniamolo a mente. La scoperta di Apidima, del fossile di Homo sapiens più antico al mondo finora conosciuto su suolo europeo, taglia impietosamente le gambe all’ipotesi dell’origine africana e, ricordando sempre che la questione scientifica è a tutti gli effetti il pretesto per una battaglia ideologica, possiamo nutrire pochi dubbi sul fatto che i sostenitori dell’Out of Africa cercheranno di demonizzare la scoperta di Apidima come “fascista”, come è già stato fatto per il ritrovamento di El Greco. Bene, allora potremo ricordare che fra questi “fascisti” c’è anche “La Repubblica”.
Io mi sono occupato varie volte del fatto che, come evidenziato da numerose ricerche, attorno a quelle che sono le coste attuali della Gran Bretagna, si trovano importanti testimonianze sommerse del passato europeo, un intero capitolo strappato della storia più antica dell’Europa perduto o quanto meno occultato dal progressivo innalzamento dell’oceano avvenuto a partire dalla fine dell’età glaciale. Questo, l’abbiamo visto, vale soprattutto per quella che oggi è una vasta area di bassi fondali tra Inghilterra e Danimarca nota come Dogger Bank, ma che migliaia di anni fa era una terra emersa e abitata che gli archeologi hanno chiamato Doggerland, tuttavia non si tratta solo di essa.
E’ del 24 agosto la notizia, riportata nel sito “everyeye.it” dell’individuazione nei pressi dell’isola di Wight, dei resti di quello che sembra essere il cantiere navale più antico al mondo, risalente a 8000 anni fa, e in particolare di una piattaforma lignea che si trova a undici metri sott’acqua. Ovvie le preoccupazioni degli archeologi per lo studio e soprattutto per la conservazione del reperto che potrebbe fornire indicazioni preziose sulle tecniche navali e sulla vita di allora.
Un articolo comparso su “Phys.org” in data 16 agosto ci da una notizia davvero sorprendente. Gli autori, Katleen Holder e U. C. Davies danno notizia dei risultati delle ricerche condotte da un team di archeologi della Nuova Università della California guidato da Nicholas Zwyns in Mongolia, nella valle del fiume Tolbor in Mogolia tra il 2011 e il 2016, in particolare nel sito denominato Tolbor-16.
Ebbene, sebbene non siano stati trovati resti umani, sono stati ritrovati migliaia di attrezzi litici tipici di Homo sapiens risalenti a 45.000 anni fa. E’ dunque chiaro che l’interno del continente asiatico era già allora abitato da esseri umani anatomicamente moderni.
Naturalmente, prevedibilmente, gli autori “se la cavano” a conciliare questa scoperta con il dogma imperante dell’origine africana, affermando che occorre semplicemente retrodatare l’uscita di Homo sapiens dall’Africa, ma ciò non toglie che quanto più antica scopriamo essere la presenza umana in Eurasia, tanto meno l’Out of Africa diventa credibile.
Si può poi segnalare un recente articolo di Christine Dell’Amore su “National Geographic” che riferisce di una ricerca genetica condotta da alcuni ricercatori fra cui Theodore Schurr della University of Pennsylvania e Ludmila Ossipova dell’Istituto russo di citologia e genetica, che ha evidenziato la somiglianza genetica tra le popolazioni della Siberia meridionale e dell’Altaj da un lato, i nativi americani dall’altro. I risultati di questa ricerca confermerebbero l’ipotesi “classica” del popolamento delle Americhe secondo la quale esso sarebbe avvenuto a opera degli antenati degli amerindi provenienti dall’Asia settentrionale tra 12 e 15.000 anni fa attraverso il ponte di terra della Beringia allora esistente dove oggi si trova lo stretto di Bering.
Tutto bene allora? Direi di no, ci sono diverse cose che non tornano. Prima di tutto la presenza umana nelle Americhe sembra essere molto più antica, come abbiamo visto più di una volta, risalire a 40-50.000 anni fa, poi c’è il mistero irrisolto degli “amerindi bianchi”, di cui non abbiamo solo descrizioni frutto di fugaci incontri con esploratori, ma uno scheletro ben conservato, quello dell’uomo di Kennewick, infine, come faceva notare non molto tempo addietro un membro su MANvantara, c’è il problema dei gruppi sanguigni. Il gruppo prevalente tra le popolazioni siberiane è AB, mentre tra i nativi americani è diffuso prevalentemente il gruppo 0. La migrazione attraverso la Beringia di 12-15.000 anni fa sarà senz’altro avvenuta, ma nella storia remota delle Americhe ci deve essere dell’altro, e la D’Amore fa molto bene a osservare che la conclusione cui sono giunti questi ricercatori riguarda gli antenati di “almeno alcuni” amerindi.
Continua, a quanto pare, e si fa sempre più accesa la discussione sull’uomo di Cheddar, di questo fanno fede un filmato su Youtube reperibile al seguente link: https://youtu.be/Kkq06Xn2mKA , e un articolo apparso su un sito dal nome inconsueto: “Ilredpillatore.org”. In sostanza, si è scoperto che il parente più stretto oggi vivente dell’uomo di Cheddar, quello che presenta con questo “primo inglese” la maggiore somiglianza genetica, è un signore inglese, insegnante di storia in pensione, che si chiama Adrian Targett e vive a circa un chilometro di distanza da dove lo scheletro del suo presunto antenato è stato ritrovato.
Confrontando la foto del professor Targett (un tipico volto europide che non ha nulla di subsahariano) con la ricostruzione dell’uomo di Cheddar, si nota una spiccata somiglianza fra i due, a parte il colore scuro di pelle che si è voluto attribuire a quest’ultimo per motivi ideologici. Prescindendo da ciò, i lineamenti dell’uomo di Cheddar sono prettamente caucasici. D’altronde, basta pensare che, anche se il DNA del 90% degli Inglesi attuali deriva da immigrazioni e invasioni successive, resta comunque un 10% che all’uomo di Cheddar è riconducibile, e non risulta proprio che gli inglesi nativi (prescindendo ovviamente da immigrazioni recenti) siano più “neri” di altri europei.
Con questa mistificazione che si è creata attorno all’uomo di Cheddar, infatti, si è tentato di risolvere una contraddizione insanabile insita nell’Out of Africa: se siamo di origine africana, come vogliono darci a intendere, come mai siamo caucasici? Da qui la bufala senza uno straccio di prova a suo sostegno, secondo la quale gli antichi Europei sarebbero stati “neri” o perlomeno “scuri” e si sarebbero progressivamente “sbiaditi” con l’andare del tempo. Un’autentica stupidaggine le cui prove a sostegno sono rigorosamente zero, e il cui scopo ideologico, indurci all’accettazione dell’immigrazione/invasione e infine alla nostra estinzione per sostituzione etnica, è palesemente scoperto.
Noi non dobbiamo dimenticare che per quanto riguarda “la scienza dell’uomo” oggi non ci possiamo aspettare nessuna imparzialità da parte dell’establishment “scientifico”, essa è pesantemente manipolata per fini ideologici, è diventata in ogni senso un campo di battaglia. Bene, la cosa non ci spaventa: noi siamo qui, pronti a combattere.
Nota: Nell’illustrazione, a sinistra la copertina del libro Archeologia dell’introvabile di Roberto Volterri, al centro la ricostruzione del volto di una mummia della cosiddetta gente di Tanara della Beringia, dove l’impronta europide è piuttosto evidente, a destra un’immagine giovanile del professor Adrian Targett l’uomo oggi vivente geneticamente più simile all’uomo di Cheddar, anche in questo caso è facile vedere quanto abbia di subsahariano.
1 Comment