Questo testo, che ho leggermente modificato e ampliato per dargli la forma di un articolo, risale a diversi anni fa. Io credo di avervi già raccontato che i miei genitori emigrarono a Trieste dall’interno dell’Italia, mio padre pugliese, mia madre toscana, e questo fa di me uno di quei triestini che non hanno neppure una goccia di sangue slavo.
Se non erro, vi ho già parlato di mio padre, che nei difficili anni dal 1945 al 1954, gli anni del governo militare alleato (GMA), quando l’appartenenza di Trieste all’italia o la sua annessione alla Jugoslavia comunista erano fortemente in bilico, quasi ogni giorno partecipò alle manifestazioni per l’italianità della nostra città, quando farlo significava rischiare la pelle, perché sia i manifestanti slavi sia la polizia “alleata” usavano con disinvoltura le armi da fuoco.
Non vi ho parlato spesso, invece, della mia eredità toscana dalla parte materna. Noi possediamo una casa in Toscana, al paese di mia madre in cui, quando mia madre era viva, passavamo le vacanze estive, e che ora invece è affittata. Durante queste vacanze, un anno buttai giù un po’ di appunti in forma di diario, in base ai quali ho adesso steso l’articolo che vi apprestate a leggere.
Questa volta non vi porto a scandagliare gli abissi della remota preistoria, ma se non è Eredità degli antenati l’oggetto di questo articolo…
Io credo di avervi già accennato al fatto di avere origini toscane per parte di madre. Al paese di mia madre, un piccolo borgo arroccato sugli Appennini nella provincia di Arezzo, possediamo ancora una casa che è spesso il luogo delle nostre vacanze estive. Ed è precisamente qui che mi trovo in questo momento. Quello che il luogo offre è poco o molto a seconda dei punti di vista: tranquillità, aria buona, un mare di verde, di castagni alla cui ombra è bellissimo fare passeggiate, gente spontanea e cordiale dove sono imparentato più o meno con tutti, e l’occasione per fare ogni volta un piccolo tuffo nella memoria, nelle radici.
La zona si trova nel Casentino, a ridosso del Parco Naturale delle Foreste Casentinesi, quindi quasi sul crinale dell’Appennino che separa la terra toscana dalle radici etrusche dalla gallo-cispadana Emilia Romagna.
In altre parole, benché non metterei la mano sul fuoco in proposito, mi piacerebbe pensare che i nomi di queste località riflettano quelli delle tre etnie che in questa terra si sono confrontate in età antica: Etruschi, Latini, Celti. Una presenza celtica è tutt’altro che da escludere nella terra dei miei avi; siamo infatti a nord del corso dell’Arno che in età antica era il confine settentrionale dell’Etruria classica.
Le origini più dirette del ceppo dei miei antenati materni, però, sembrano essere altre. Stranamente, la maggior parte delle volte, quando si pensa alla storia della Toscana, ci si ricorda degli antichi Etruschi, poi dell’età comunale e rinascimentale, dimenticandosi spesso che questa regione ha avuto nell’Alto Medioevo un’importante presenza longobarda. Il nome di Carda deriverebbe dal longobardo Warda, posto di guardia. Il cognome da nubile di mia madre era Mascalchi, che è poi il più diffuso nel paese, e che deriverebbe dal longobardo markskalk, “servitore della marca” che pare essere la radice di parole italiane come “maresciallo”, “maniscalco” (forse anche “mascalzone”), e si veda anche la parola italiana arcaica “scalco”: servitore, valletto.
A proposito della derivazione di “maniscalco” da markskalk, si può anche notare che prima dell’età moderna la cavalleria era forse lo strumento bellico di maggiore efficacia e la cura dei cavalli era affidata a funzionari che dovevano essere di assoluta fiducia: questo era in origine anche il significato della parola “conestabile”: comes stabuli, responsabile delle scuderie, che è poi diventata l’equivalente di quello che oggi chiameremmo un primo ministro.
Ultimamente, mi è capitato fra le mani un opuscolo edito dalla Pro Loco “I tre confini” di Cetica che dà alcuni ragguagli sulla storia del paese. Purtroppo, per quanto riguarda l’antichità non ci sono indicazioni; è probabile che a parte il nome sicuramente evocativo, sulla storia antica del paese non vi siano informazioni di sorta. Al contrario, per quanto riguarda l’età medievale, indicazioni consistenti ci sono fornite dalla toponomastica locale (la zona adiacente a Cetica è quella della valle del fiume – o torrente – Solano) che ci rivela una consistente presenza longobarda.
Cito direttamente dall’opuscolo:
“Un toponimo molto diffuso in Casentino è “cafaggio” o “caggio”, termine derivante dal longobardo gahgi (o) che indica una certa condizione del suolo e in particolare un terreno boschivo o prativo, riservato al signore.
Altri toponimi di origine germanica (ma non sappiamo se riferibili in particolare al periodo longobardo) sono “Casenzi”, nome rimasto a una località di Cetica che deriva dal nome personale germanico Emizo, e “Vallazzi” derivante dal nome germanico Azzo”.
Strano che l’opuscolo non lo evidenzi, ma la radice di “Casenzi” potrebbe essere la stessa da cui deriva anche “Casentino”, ma proseguiamo:
“Particolarmente interessante è il toponimo “Barbiano” che indica oggi una località posta in posizione dominante lungo l’antica strada di origine romana che da Florentia scendeva nella valle del Solano (…) Secondo alcuni studiosi, questa località potrebbe far pensare a un insediamento di barbari, forse un accampamento militare longobardo lungo una delle vie di penetrazione per l’invasione del territorio casentinese. Anche la località di “Barbato” a Cetica potrebbe avere qualche relazione con popolazioni barbariche (…).
Infine anche “Lama” nome indicante certe condizioni del suolo (forse con riferimento all’acqua), potrebbe essere di origine germanica; questo toponimo lo ritroviamo su un poggio a poca distanza dal torrente Solano, vicino alla località Rossolini”.
Anche in questo caso, sarebbe stato probabilmente meglio che gli estensori dell’opuscolo allargassero un po’ l’orizzonte del discorso non limitandosi semplicemente alle immediate vicinanze di Cetica; infatti anche qui salta subito agli occhi che “Lama” in questo senso può essere la radice del nome della Foresta della Lama, uno dei più belli dei boschi che formano il complesso delle Foreste Casentinesi.
Ma proseguiamo in questa rassegna dalla quale emergono squarci di un passato che credevamo perduto:
“Procedendo da ovest verso est troviamo anzitutto Camporomagnoli, sul versante occidentale del Pratomagno, nei pressi del valico di Gastra. Qui doveva presumibilmente essere accampato un grosso contingente di forze bizantine e lo stesso nome Gastra non può non far pensare ad un rapporto con castra e quindi ad un accampamento militare. Proseguendo verso est troviamo Quota, località che nei documenti medievali è indicata come “Coita”, il che ha fatto pensare ad un rapporto con i Goti a quel tempo alleati con i Bizantini in funzione antilongobarda”.
Quando guardiamo indietro nel nostro passato, quando cerchiamo le nostre radici, scopriamo una grande complessità: siamo celti e longobardi, certamente, ma anche latini ed etruschi, europei e mediterranei, e non ha senso rigettare o ignorare nessuna di queste radici. Oggi sentiamo più che mai il bisogno di ritrovare le nostre radici profonde, quelle che non gelano, secondo la nota e bellissima espressione di John R. R. Tolkien, oggi che il vento della globalizzazione e anche il meticciato etnico mettono a dura prova le identità dei popoli, mirano a cancellarne la memoria storica per trasformarli in masse amorfe, “mercato” di consumatori anonimi dalle reazioni prevedibili perché indotte, un’umanità di polli in batteria. La riscoperta dell’identità storica è prima di tutto una forma, la più elementare e basilare, di autodifesa.
E’ una sorpresa molto gradevole, lascia intravvedere una speranza il fatto che già in una zona obiettivamente molto ristretta come può essere la valle del Solano sono in corso o sono state portate a termine ben due importanti iniziative di recupero di quel patrimonio che è nello stesso tempo ambientale e storico. La prima è il recupero strutturale del ponte medioevale di Sant’Angelo, suggestivamente ribattezzato “il ponte del tempo”. Non si tratta di un’iniziativa isolata o fine a se stessa, infatti l’opuscolo ci informa che:
“Antichi selciati, fonti, lavatoi, una piccola chiesa di frazione, elementi indicati dagli abitanti come significativi per la storia del nostro territorio, verranno recuperati e valorizzati”.
L’altra iniziativa è lo scavo archeologico delle rovine del castello di Sant’Angelo, abbandonato e diroccato in epoca trecentesca ma di origini incerte, forse altomedievali.
Dagli scavi iniziati nel 2009 sono emersi, oltre alla planimetria delle mura, diversi reperti mobili: svariati resti di maiolica, monete, un verrettone (ossia un grosso dardo da balestra) e svariati elementi che aiuteranno a comprendere sempre meglio il passato della zona e della regione.
Per quanto mi sembri un’ipotesi suggestiva, non me la sentirei proprio di giurare che “Cetica” sia un’alterazione di/significhi davvero “celtica”: la toponomastica e l’etimologia sono terreni scivolosi che offrono facilmente il destro alla coincidenza e all’equivoco. Tuttavia una cosa è sicura: abbiamo a che fare con una comunità con un forte senso dell’identità storica, delle proprie radici, che guarda al proprio passato con amore e interesse, e questo non può non farcela sentire vicina, affine a ciò che noi stessi siamo.
In generale, però, tutta la Toscana parla di antico, ha il sapore della continuità storica, a cominciare dal fatto che muovendosi per le sue colline si incontra un paesaggio naturale ancora in gran parte intatto, intatto perché rispettato attraverso i millenni di presenza e di intenso popolamento umani; passando poi per la tradizione artigiana e anche per una gastronomia dai sapori “poveri”, locali: le castagne e gli altri prodotti del bosco, il vino, l’olio, il pane senza sale. Certo, oggi sagre, feste, palii, tradizioni di vario tipo vivono soprattutto grazie all’apporto turistico, ma questo, a conti fatti, è ancora un piccolo scotto da pagare alla modernità.
Sarà un dubbio paradossale, ma spesso mi è capitato di chiedermi se noi Europei dopotutto siamo dei veri occidentali. L’occidentalismo ci appare una realtà estranea e ostile, impostaci a partire dalla seconda guerra mondiale, da quando in conseguenza di essa il suo centro si è trasferito sull’altra sponda dell’atlantico: l’uomo “occidentale”: civile, razionale, economicista, globalizzato, “les affaires sont les affaires”, “Money talks and bullshit walks”, l’uomo – per usare la terminologia di Nietzsche – totalmente apollineo e senza nessuna traccia di dionisiaco, è una “maschera” in cui non riconosciamo i nostri lineamenti (a parte il fatto che Nietzsche equivocava, faceva una lettura riduttiva della figura di Apollo, che era anche il dio della profezia connessa con le forze oscure, ctonie, come ben si vede nel culto delfico), ma l’occidentalismo l’abbiamo inventato noi. Ne siamo sicuri? L’abbiamo inventato o in realtà ci è stato imposto a partire dalla cristianizzazione?
Che nella celticità ci sia un forte elemento di sana barbarie, questa è una cosa che nessuno potrebbe mettere in dubbio, soprattutto ascoltando ad esempio la travolgente musica di certi gruppi celtici, ma tutto ciò che è latino ci appare più anodino, slavato, addomesticato; tuttavia questo non accade se non per il fatto che noi – fin troppo spesso – leggiamo la latinità attraverso la lente riduttiva e deformata del riutilizzo che ne è stato fatto dalla cultura cristiano-cattolica.
Anni fa mi era capitato di leggere un interessante scritto (e mi scuso di non ricordarne l’autore) sull’origine e il reale significato della famosa sigla SPQR: Senatus PopulusQue Romanus. Essa starebbe a indicare una dicotomia ricomposta tra gli anziani, senes e i giovani, il populus. All’origine ci sarebbe l’usanza prisca latina della primavera sacra durante la quale parte della popolazione giovanile, in eccesso, doveva lasciare la comunità e andare alla ventura alla ricerca di nuove terre. SPQR indicherebbe forse il rientro di un gruppo di questi giovani con un colpo di mano e poi il raggiungimento di un compromesso con i senes che erano rimasti. Ma la cosa forse più interessante è questa: come vivevano perlopiù questi giovani espulsi dalla comunità. A darcene un’idea è sempre l’etimologia: populus verrebbe da populor, “saccheggiare”, “devastare”, che ci dà un’idea di come vivessero perlopiù, nell’attesa di fondare una città loro, i gruppi di giovani espulsi durante la primavera sacra.
Di colpo, anche il mondo latino ci appare molto più barbarico ma anche più ricco di istinti vitali di quel che avevamo finora immaginato.
Questo breve viaggio attraverso la memoria e la storia ci porta a scoprire che l’uomo europeo, noi, è /siamo più in contatto con le sue/nostre radici e più ricco di istinti vitali di quel che forse avevamo pensato.
Poco per volta riscopriamo le nostre radici, ce ne riappropriamo, ci ritroviamo a essere noi stessi in senso pieno. E’ come svegliarsi da un brutto incubo, tuttavia là fuori l’incubo continua. Globalizzazione e meticciato rappresentano una minaccia sempre più grave alla nostra identità, ma è nel recupero delle nostre radici storiche che possiamo trovare i mezzi e la determinazione per resistere.
NOTA: Nell’illustrazione, Carda, Frazione di Castel Focognano (Ar), paese natale di mia madre.