Come avete visto, nella prima e seconda parte de L’eredità degli antenati mi sono dedicato soprattutto a recuperare alcune notizie importanti sulle nostre origini diffuse nella prima parte dell’anno. Ora si tratta di capirsi: considerata la vastità del web e quella che è obiettivamente la tempistica della nostra pubblicazione, riuscire a stare dietro agli eventi “in tempo reale” è pura utopia.
Adesso serriamo il passo, ma siamo sempre piuttosto indietro, complice anche il periodo della pausa estiva, infatti gli eventi di cui parliamo stavolta si riferiscono principalmente al mese di giugno. In futuro vedremo di serrare ancora le distanze, in modo che l’intervallo fra gli eventi narrati e il momento in cui ve ne parlo sia quanto meno ragionevole.
Poiché la situazione è questa, non sarà necessario seguire una scansione cronologica estremamente rigorosa, quindi passo subito a segnalarvi un fatto gravissimo, di una gravità inaudita, di quelli che veramente spingono a provare un senso di disgusto e di ribellione verso questo sistema mediatico bugiardo e le cui menzogne sono costantemente puntate contro di noi.
Il 26 giugno non un qualsiasi autore di filmati su Youtube, ma la BBC, il più autorevole canale televisivo britannico, ha postato su BBC Player un breve filmato che vorrebbe presentarsi come una breve storia dell’Inghilterra nera, “quella che a scuola non vi hanno insegnato”. Secondo le didascalie che l’accompagnano, ci sarebbe una storia dell’Inghilterra nera che i soliti cattivoni razzisti hanno cancellato e fatto dimenticare. Nel filmato si vedono modelli e modelle di colore (perché è evidente che non si tratta di persone scelte a caso, ma selezionate in modo da essere più avvenenti possibile) in costumi dell’età vittoriana, del seicento, del settecento. Naturalmente, per non andare incontro a facili smentite, non si fa nemmeno un nome di qualche importante inglese di colore di epoche passate (semplicemente non ne sono mai esistiti).
Ora, non dobbiamo illuderci che questo sia l’ultimo tentativo di falsare la nostra storia, è probabile che altri ne seguiranno. Nella seconda parte vi ho parlato dell’articolo su “Time”, anche questa una pubblicazione ritenuta autorevole, con cui si sono inventati i vichinghi multietnici. Adesso questo, e sempre non ad opera di chicchessia, ma da parte di una fonte ritenuta autorevole come la BBC. E’ chiaro che c’è in atto un tentativo di falsare e stravolgere la nostra storia, un tentativo orwelliano (è vero ciò in cui tutti credono, ciò che si riesce a far credere a tutti). Noi sappiamo che si tratta di totali falsità, che fino a una ventina di anni fa, facce di colore non se ne vedevano in una qualsiasi città italiana o europea, ma tenete presente che i nostri ragazzi sono stati tenuti da un sistema scolastico manipolato nell’ignoranza pressoché totale dei fatti storici, e a ciò si aggiunge ora un sistema mediatico che non arretra davanti a nessun genere di falsificazione, mentre per chi dice la verità è sempre pronta la condanna morale di razzismo: far credere che sia “normale”, “sempre esistita” questa situazione anomala, intanto che si prepara la sostituzione etnica.
Qualcuno ha detto che la preistoria va dai trilobiti ai triliti. I trilobiti erano un tipo di artropodi antichissimo oggi estinto, di cui forse il limulo o granchio ferro di cavallo è l’ultima specie superstite oggi esistente. I triliti sono le costruzioni preistoriche composte da due lastre di pietra verticali e una lastra sovrapposta a mo’ di architrave, come i dolmen o gli elementi che compongono i cromlech di cui Stonehenge è l’esempio più famoso.
Il che vuol dire che il concetto di preistoria copre uno spazio di tempo enorme che va dalle origini della vita alle prime civiltà umane non ancora in possesso della scrittura. Noi ovviamente non ci siamo occupati di tutto quanto precede la comparsa dell’umanità, nondimeno, voi capite che tra le origini dell’umanità e le prime forme di vita sociale organizzata che preludono alla nascita della storia documentata, passa comunque un intervallo di tempo notevole, sicuramente superiore di almeno due ordini di grandezza a tutta la storia documentata.
Tenete sempre presente ciò, oltre al fatto che è bene non fare confusione riguardo agli ordini di grandezza temporali per non prestare il fianco a facili critiche. Ora non ci addentreremo sulla questione delle origini della nostra specie, ma posizioneremo il nostro satellite da esplorazione in orbita bassa, andando a vedere una serie di tematiche riguardanti le origini dei popoli indoeuropei, della civiltà, e via dicendo.
In questo ambito possiamo certamente inserire una notizia diffusa da “BBC News” del 13 giugno: Gli archeologi Duncan Garrow dell’università di Reading e Fraser Sturt dell’università di Southampton hanno reso noti i risultati di uno studio compiuto su di un gruppo di crannogh scozzesi nella località nota come Western Isles.
I crannogh sono insediamenti fortificati costruiti su isole artificiali nei laghi, un po’ l’equivalente delle nostre terramare. Bene, si riteneva che essi risalissero all’Età del Ferro, approssimativamente attorno all’800 avanti Cristo. Le ricerche di Garrow e Sturt hanno dimostrato invece, attraverso l’analisi al radiocarbonio, che i crannogh delle Western Isles risalgono a un periodo che va dal 3640 al 3360 avanti Cristo, sono dunque di età neolitica e più antichi di Stonehenge, anche se molti crannogh scozzesi hanno continuato a essere abitati fino a tutta l’epoca medioevale.
Quasi a riprova di ciò e di quanto poco conosciamo di tutto ciò che sta al di fuori dello schema comodo quanto ingannevole che fa nascere la civiltà nella Mezzaluna Fertile mediorientale, sempre nel mese di giugno il sito “Ancient Code” ha riportato la notizia della scoperta di quella che sembrerebbe essere una cultura finora del tutto sconosciuta nell’area dei picchi himalaiani da parte di una spedizione russo-indiana guidata da Viaceslav Molodin, direttore dell’Istituto di Archeologia ed Etnografia dell’Accademia Russa delle Scienze.
Il 5 giugno un articolo di “The Guardian” riferisce della ricerca condotta da un team di archeologi diretto da Elke Willrslev direttore del Centro di fondazione Lundbeck per la geogenetica dell’Università di Copenaghen su di un sito della Siberia nord-orientale nei pressi del fiume Yana, chiamato Yana Rhinoceros Horn Site (sito del corno di rinoceronte di Yana). La zona era abitata già 30.000 anni fa da una popolazione di cacciatori di mammut e rinoceronti lanosi. Ma la sorpresa è arrivata quando due denti da latte ritrovati nel sito sono stati sottoposti all’analisi del DNA. Si pensava infatti che questi antichi cacciatori fossero gli antenati degli amerindi che si sarebbero insediati nelle Americhe attraverso il ponte di terra della Beringia che esisteva nell’età glaciale là dove oggi c’è lo stretto di Bering, ma si è visto invece che si trattava di una popolazione finora del tutto sconosciuta, non imparentata né con gli Amerindi né con le popolazioni che attualmente abitano la Siberia e l’Asia nord-orientale.
Nel passato sono stato amichevolmente rimproverato di aver dato un po’ troppo spazio ai gruppi facebook, ma quando ci vuole, ci vuole. Qui è il caso di riferire un’interessante osservazione dell’Admni di “MANvantara”: la storia del popolamento precolombiano delle Americhe è certamente più complessa di quel che di solito immaginiamo, basta pensare che gli Amerindi hanno perlopiù gruppo sanguigno 0, ma le popolazioni che attualmente abitano l’Asia nord-orientale dalla quale si suppone siano arrivati i loro antenati, sono prevalentemente di gruppo sanguigno AB. Certamente, la storia più antica delle Americhe presenta molte pagine strappate, vuoti che speriamo lo studio del DNA ci possa aiutare almeno in parte a colmare.
Io vorrei ricordare che la questione del popolamento delle Americhe in età precolombiana è un problema del quale io stesso mi sono occupato varie volte, e non solo sulle pagine di “Ereticamente” ma ad esempio su di un periodico non “ideologicamente vicino”, “La runa bianca” con un lungo articolo nel 2012. Certamente, come abbiamo visto altre volte, lo schema che tuttora rappresenta la “vulgata ufficiale”, secondo il quale l’intero popolamento del doppio continente americano sarebbe dipeso da una sola migrazione attraverso la Beringia avvenuta attorno a 12.000 anni fa, non regge alla prova dei fatti, dal momento che sembrerebbero esserci tracce di presenza umana nelle Americhe risalenti a 40.000 o anche 50.000 anni fa.
Il permafrost siberiano nasconde una serie di misteri che ci si stanno svelando poco a poco. “The Siberian Times” del 7 giugno segnala il ritrovamento di una testa di lupo gigante del pleistocene risalente a 40.000 anni fa ritrovata mummificata dal ghiaccio e quasi intatta (“dopo 40.000 anni ringhia ancora”, ha commentato l’articolista), ritrovata nel distretto di Abyisky nel nord della Yakuzia.
Si tratta di una questione che abbiamo già visto diverse volte: per permettere la sopravvivenza di una megafauna come mammut e rinoceronti lanosi, e anche grandi predatori come i leoni delle caverne o questo lupo gigante, queste regioni decine di migliaia di anni fa, dovevano avere un clima ben diverso da quello attuale, e anche ben più favorevole all’insediamento umano. Di fronte a questi fatti, il mito iperboreo assume sempre maggiore concretezza.
La Siberia è forse ben lontana dall’aver svelato tutti i suoi segreti, ad esempio secondo le leggende degli Evenki, una popolazione che abita la regione, e che è tuttora fra le meno studiate al mondo, le loro terre erano un tempo abitate da un popolo che essi chiamano Churi, gente di alta statura (forse gigantesca) e di grande forza fisica, dalla pelle chiara, i capelli biondi e gli occhi azzurri, che sarebbero stati allevatori di renne e forse anche di mammut. Saranno stati gli ultimi iperborei?
Come se non bastasse, in un remoto altipiano della Siberia nord-orientale, il Plateau Putorana, sarebbero state viste piramidi simili a quelle trovate nella penisola di Kola e forse costruzioni megalitiche. Tuttavia, al riguardo una certa prudenza per ora è d’obbligo. Forse ricorderete che alcuni anni fa si pretese di individuare un’area di grandi menhir nella località calabrese di Nardodipace, per poi scoprire che si trattava di formazioni naturali che nulla dovevano alla mano dell’uomo, e la Calabria è certamente molto più accessibile ai ricercatori di quanto lo sia la Siberia nord-orientale.
Iperborea, forse, ma per sovvertire la visione africano-centrica che oggi domina la scienza ufficiale riguardo alle nostre origini, occorreranno prove molto solide e molto accurate.
Come vi ho raccontato, dagli amici della redazione di “Ereticamente”, ho avuto in passato il consiglio di non enfatizzare l’attività dei gruppi facebook, vista non solo dell’esiguità numerica delle persone in essi coinvolte, ma del fatto che costoro perlopiù non hanno mostrato riconoscenza per la “cassa di risonanza” loro offerta.
Questa volta però un’eccezione è assolutamente doverosa, infatti, MANvantara del nostro amico Michele Ruzzai ha pubblicato un ampio articolo (suddiviso per comodità in tre parti che sono apparse tra il 9 e il 12 giugno) della studiosa russa Olga Samarina su Iperborea, le impronte russe che avrebbe meritato ben altra collocazione, anche se sappiamo che uno scritto di questo genere, per quanto scientifico, serio, documentato, ben difficilmente potrebbe arrivare su “Le scienze” o qualsiasi altra pubblicazione “scientifica ufficiale” dove non è consentito derogare dalla vulgata ortodossa rappresentata dall’Out of Africa e dove il nome di Iperborea non è nemmeno consentito nominarlo.
Io ho tratto le informazioni che vi ho citato più sopra, circa le leggende degli Evenki, il mito dei Churi, le singolarità del Plateau Putorana dall’articolo della Samarina, che però contiene molto di più, tra l’altro un resoconto “storico” di come il mito iperboreo oggi popolarissimo in Russia e in cui molti vedono una “storia della Russia prima della Russia” si sia sviluppato a partire dalla caduta del comunismo sovietico. Esso trova un punto d’appoggio particolarmente forte nell’affinità fra lingue slave e indo-iraniche (le une e le altre facenti parte del ramo satem dell’indoeuropeo), soprattutto fra russo e iranico. Solo che non bisogna pensare, come taluni hanno fatto, a una derivazione degli Slavi da popolazioni indo-iraniche, ma al contrario, sarebbero stati gli Ariani dell’India e gli Iranici a spostarsi nelle loro sedi attuali dopo che una catastrofe climatica avrebbe reso inabitabili le loro antiche terre poste nel settentrione, e qui fa gioco una volta di più la lezione di Tilak.
L’autrice racconta che questo tipo di studi e ricerche era assai malvisto durante l’epoca sovietica, che lei stessa, quando era sui banchi di scuola non si è sentita raccontare nulla della storia russa che fosse anteriore al decimo secolo dopo Cristo. Prima di allora c’era, ci doveva essere il vuoto assoluto. Il ricercatore Aleksandr Barchenko che condusse una spedizione nella penisola di Kola tra il 1921 e il 1923, una spedizione mettendosi sulle tracce della quale sono state in tempi molto più recenti scoperte le piramidi che sono forse il primo indizio materiale tangibile di una cultura iperborea, fu fatto fucilare da Stalin nel 1938, e i suoi appunti furono prima secretati, poi fatti sparire dal KGB.
Non ce ne dobbiamo stupire: il comunismo nella prospettiva della costruzione di un fantomatico “uomo nuovo” è stato sempre avverso a radici e tradizioni anche quando assumono semplicemente la forma della ricerca storica. Oggi alcuni, di fronte ai guasti prodotti dalla liberal-democrazia made in USA, sono quasi tentati di rimpiangerlo, ma il suo unico vantaggio è di essere scomparso.
Un punto che ho evidenziato più di una volta, è che non solo dobbiamo riconoscere la priorità dell’Europa nelle origini della civiltà e che la leggenda dell’ex Oriente lux va relegata nel mondo delle favole (possibilmente in compagnia di quell’altra grande mistificazione pseudoscientifica che è l’Out of Africa), ma che l’ottica con cui l’archeologia e la storia ufficiali considerano queste cose andrebbe letteralmente rovesciata, e che le civiltà dell’Egitto e del Medio Oriente devono con ogni probabilità la loro origine all’apporto di élite di provenienza europea.
Un’ulteriore testimonianza in questo senso la riferisce “The Daily Star” del 17 giugno: l’apertura del sarcofago della nobildonna egizia Tjuyu che sarebbe stata la bisnonna di Tutankhamon ha rivelato una mummia molto ben conservata e con una sorprendente capigliatura bionda. Non è la prima volta che scopriamo mummie egizie dai capelli biondi o rossicci. Gli archeologi conservatori, quanti si ostinano a negare una forte componente di origine europea nelle élite dell’Egitto faraonico, solitamente si appellano all’effetto schiarente dell’hennè cui gli antichi egizi avrebbero fatto ricorso nella loro cosmesi, ma stanno semplicemente cercando di salvare una posizione indifendibile, perché le ricerche sul DNA delle mummie faraoniche, a cominciare proprio da quella di Tutankhamon, hanno dimostrato una netta vicinanza agli Europei piuttosto che agli egiziani attuali.
Quella che dovrebbe essere una questione scientifica è diventata invece una questione politica. L’ho ricordato una delle scorse volte: a Parigi, una mostra su Tutankhamon, accusato di essere “troppo bianco” ha provocato le ire dell’associazione degli immigrati africani, che ha prima cercato di far proibire la mostra, poi, coi suoi militanti, di impedirne l’accesso al pubblico, militanti che esponevano striscioni e gridavano slogan di odio verso i bianchi. Noi assistiamo prima di tutto a un tentativo orwelliano di riscrittura della storia, e poi abbiamo modo di toccare con mano che cos’è in realtà questo “antirazzismo”: razzismo anti-bianco.
Che sia stata l’Europa, o perlomeno élite di origine europea a civilizzare il Medio Oriente e non il contrario, come sostengono con un’unanimità fasulla che puzza di imposizione ideologica tutti i libri di testo, è una conclusione che appare sempre più verosimile alla luce del fatto che scopriamo man mano che le radici della civiltà europea sono più antiche e profonde di quanto avremmo potuto finora supporre.
Ritorniamo sul tema iperboreo, ma stavolta con una nota particolarmente triste. Il 14 giugno è scomparso Giuseppe Acerbi che sulla tematica iperborea aveva scritto il libro L’isola bianca e l’isola verde, di cui anni fa “Ereticamente” aveva pubblicato una recensione ad opera di Michele Ruzzai.
Come sempre, il modo migliore di onorare coloro che sono scomparsi, è continuare la loro opera, ma siamo consapevoli che ciò lascia sulle nostre spalle un carico sempre più pesante, anche perché il ricambio generazionale è difficile quando ci si trova in una posizione di scontro con la “cultura” oggi dominante.
Non importa, per usare una metafora cara a Gianantonio Valli, prima o poi il deserto finirà, anche se non saremo noi a vederne la fine e sarà qualcun altro ad aprire il nostro zaino.
NOTA: Nell’illustrazione, alcune delle statue equestri rinvenute dalla spedizione russo-indiana nella zona dell’Himalaya, e che apparterrebbero a una cultura finora del tutto sconosciuta.