11 Ottobre 2024
Archeostoria

L’eredità degli antenati, trentaseiesima parte – Fabio Calabrese                                              

Come sapete, come non è difficile da comprendere, “la rete” è un mare magnum dove individuare le cose rilevanti dal nostro punto di vista è tutt’altro che facile. Mi scuserete quindi se solo ora vi parlo di qualcosa comparso a maggio, peraltro a margine di un’estate che, come avete visto, si è rivelata straordinariamente ricca di eventi.

Anche stavolta non si tratta di un articolo ma di un filmato su YouTube (e purtroppo bisogna accontentarsi perché le fonti archeologiche “ufficiali” riservano all’Europa ben scarsa considerazione).

Gli autori di questo filmato datato 20 maggio sono un gruppo che si denomina Time Team, e che, come è possibile vedere da una rapida scorsa su YouTube, ha dedicato diversi filmati alla preistoria delle Isole Britanniche.

Bene, a quanto pare, gli archeologi avrebbero scoperto che un’isola scozzese che si trova nel lago noto come Loch Migdale sarebbe in realtà un’isola artificiale realizzata tra 2000 e 3000 anni fa, per insediarvi i crannogh, le costruzioni palafitticole che gli Scozzesi hanno realizzato e abitato dal neolitico fino all’età medioevale.

Voi avete visto che, volente o nolente, mi tocca occuparmi spesso delle Isole Britanniche: solo perché esse sono particolarmente ricche di testimonianze di età remote, da Stonehenge al “cuore neolitico” delle Orcadi, o non piuttosto anche perché questi Inglesi hanno per il loro passato un interesse che qui in Italia la maggioranza dei nostri connazionali è ben lontana dal manifestare?

Precisato questo, però bisogna ammettere che l’amnesia circa i nostri più antichi usi e tradizioni, nonché il passato più remoto, non è poi così generalizzata. Ad esempio, il 20 agosto sono comparsi sul sito “Veneto storia” due brevi articoli di Millo Bozzolan (ignoro il motivo per cui quella che è palesemente la stessa tematica, è stata spezzata in due), Gambarare e la madonna dei cavalli, festa di origine paleoveneta? e I cavalli “(v)eneti” di Gambarare, ipotesi sulla presenza di un santuario. Entrambi gli articoli si sono avvalsi della ricerca documentaria di Elena Righetto.

Gambarare è un piccolo villaggio veneto (frazione del comune di Mira, Venezia – la località prenderebbe il nome dai gamberi di cui le acque antistanti sono particolarmente pescose), dove ogni anno, in luogo della festa dell’immacolata concezione, si celebra la madonna dei cavalli, caratterizzata da una processione nella quale la statua della “madonna” sfila su un carro trainato da dodici coppie di cavalli bardati di azzurro e accompagnata da figuranti, soprattutto ragazzi, abbigliati con costumi tradizionali.

Noi sappiamo che nella narrazione evangelica non c’è nulla che riconnetta specificamente Maria madre di Gesù ai cavalli, che si tratti della sopravvivenza di un culto pagano superficialmente cristianizzato, è evidente. Né è difficile capire quale dea si celi attualmente sotto le sembianze della madonna, poiché il cavallo era tradizionalmente associato a Reitia, la divinità più importante del pantheon venetico.

Il titolo del secondo articolo con quella “v” tra parentesi fa riferimento ai contatti che i Veneti avevano con i Greci della Magna Grecia che li chiamavano Eneti o Enetoi (nell’alfabeto greco, la “v” non esiste), e che dei cavalli veneti erano grandi importatori. L’autore suppone che Gambarare fosse un punto di imbarco di questi animali per l’Italia meridionale e la Sicilia, e qui doveva trovarsi un santuario di Reitia, come anche ad Altino. Il nome antico della vicina Jesolo, poi, era Equilium, luogo dove si allevano cavalli.

Naturalmente nemmeno in questo periodo poteva mancare qualcosa su “Ancient Origins”. Proprio il 20 agosto un articolo di Ashley Cowie ci informa che a Les Varines, località del sud-est dell’isola di Jersey, presso un antico focolare sono state ritrovate dieci pietre incise con figure che risalgono al tardo paleolitico, al periodo magdaleniano.

L’esame che ha permesso di datare queste incisioni, che risalgono a 15.000 anni fa e parrebbero essere i più antichi graffiti conosciuti al mondo, è stato compiuto dai ricercatori dell’università di Newcastle. Jersey è la maggiore dell’arcipelago delle isole del Canale, nella Manica tra Inghilterra e Francia.

Sarà un po’ fuori tema, ma vale la pena di menzionare anche l’articolo pubblicato il giorno prima da questa gentile e infaticabile signora, che il giorno 19 ci ha parlato degli effetti del riscaldamento globale: esso purtroppo, oltre alle conseguenze disastrose sull’ecologia, sta peggiorando la nostra situazione sanitaria, perché permette l’arrivo nelle regioni finora temperate di malattie tropicali come zika e la dengue. Non è tutto, perché il progressivo scioglimento del permafrost siberiano, sappiamo che ha permesso di fare dei ritrovamenti eccezionali di creature le cui carcasse sono rimaste sepolte nei ghiacci, ma potrebbe anche liberare microorganismi pericolosi che sotto la coltre glaciale sono rimasti inattivi per millenni. Non resta che incrociare le dita.

Vediamo cosa ci offre in questo periodo “The Archaeology News Network”. Un articolo (stranamente non firmato, data la lunghezza) del 10 agosto ci parla dell’elmo di Yarm. Questo elmo, molto danneggiato, ritrovato negli anni ’50 durante gli scavi per una fognatura nella località inglese di Chapel Yard, nel comune di Yarm e ora conservato al locale Preston Park Museum, è di evidente fattura vichinga.

Un recente esame condotto da Chris Caple dell’università di Durham ha dimostrato che esso risale al IX secolo, ed è quindi il più antico elmo e uno dei più antichi manufatti vichinghi ritrovati in Gran Bretagna. Non solo, ma dato che pare che esso sia stato intenzionalmente sepolto e non, ad esempio perduto nel corso di uno scontro, suggerirebbe una presenza stabile dei Vichinghi nelle Isole Britanniche più antica di quel che si è ritenuto finora.

Un articolo del 15 agosto di Claudia Eulitz dell’università di Kiel ci parla dei cambiamenti nelle culture agricole e quindi nell’alimentazione, avvenuti in Europa nell’Età del Bronzo, attorno al 1.500 avanti Cristo. Sulla base di uno studio compiuto dal Collaborative Resarch Center 1266 presso l’università di Kiel guidato dal professor Wiebke Kirleis, all’epoca la cultura del miglio soppiantò con grande rapidità quella dell’orzo in tutta l’Europa centrale, e il motivo è legato alla rapida maturazione di questo cereale che non richiede più di tre mesi per la sua maturazione, e permette quindi più raccolti all’anno, aumentando quindi la disponibilità di cibo per le popolazioni, anche se in seguito la cultura del miglio è stata soppiantata da quella del grano e, dopo la scoperta dell’America da quella del mais.

Questo studio evidenzia chiaramente che la diffusione del miglio avvenne in tempi tanto rapidi da far escludere che si sia trattato di una sostituzione di popolazioni con altre, ma che fu invece una diffusione culturale senza alcuna sostituzione etnica. Questa non è una dimostrazione definitiva, ma di certo è un forte indizio a favore del fatto che la stessa cosa può essersi verificata con la diffusione dell’agricoltura stessa nell’età neolitica, ammesso (e non concesso) che essa abbia avuto origine in Medio Oriente, può essersi diffusa in Europa per imitazione e diffusione culturale, senza che questo implichi la colonizzazione dell’Europa da parte di coloni mediorientali, cosa che è smentita dalla genetica.

A parte tutto ciò, Claudia Eulitz ci ricorda anche che l’Europa dell’Età del Bronzo era un luogo più civile e simile a quello in cui viviamo noi, di quanto siamo soliti pensare, infatti:

Il mondo altamente produttivo e connesso dell’Europa dell’età del bronzo è stato anche un palcoscenico per i conflitti. Le prove di battaglie e numerose fortificazioni ne sono la testimonianza”.

“The Archaeology Magazine” presenta un articolo (non firmato) sulla Lettura della pietra runica di Ruk. Quest’ultima è una stele che si trova nell’omonima località svedese e riporta la più lunga iscrizione runica conosciuta, composta di circa 760 rune suddivise in 28 linee, e risale all’VIII secolo, ed è quindi anche una delle più antiche, poiché la maggior parte di quelle giunte fino a noi non risalgono a prima della metà del IX secolo. È a lungo sfuggita a ogni tentativo di decifrazione, ma ora un team di studiosi dell’università di Uppsala guidato da Henrik Williams (noto nell’ambiente col soprannome di “imperatore delle pietre”) è riuscito finalmente nell’impresa.

L’iscrizione è in norreno antico e si tratta di un’iscrizione funebre commissionata da un capotribù, tale Varinn, in memoria del figlio Vamoth. Essa parla del Ragnarok, la battaglia finale tra gli dei e le forze del caos (nella quale si suppone che gli dei del pantheon nordico si avvarranno dell’aiuto dei guerrieri caduti in battaglia). E descrive l’uccisione del lupo Fenrir da parte di Vitharr (Thor?) figlio di Odino, dopo di che, la figlia del Sole (che per gli antichi Germani era una divinità femminile) prenderà il posto di sua madre nel cielo, dando inizio a un nuovo ciclo vitale.

La stele parla anche di una grave crisi che si sarebbe verificata “nove generazioni fa”, quindi all’inizio del VI secolo, che i ricercatori connettono a un periodo di eruzioni vulcaniche che avrebbe disseminato polveri nell’atmosfera, provocando un abbassamento delle temperature (cosa di cui in Scandinavia non c’è certo bisogno), e conseguente perdita di raccolti e carestie.

Possiamo se non altro dire che diversi “buchi” nella storia del nostro continente si vanno mano a mano riempiendo.

Come sapete, dopo una lunga gestazione, intervallata tra l’altro da un attentato subito dalla casa editrice Ritter (Contrariamente al celebre detto di Voltaire, quello di tappare la bocca a chi la pensa diversamente, sembra essere uno dei principi di base della “nostra” democrazia), è finalmente giunto alle stampe e in libreria il mio libro Alla ricerca delle origini, testo che sintetizza gran parte delle tematiche di cui mi sono occupato negli anni su queste pagine, e prima ancora nella rubrica Una Ahnenerbe casalinga. Bene, poiché sono facilmente raggiungibile tramite facebook, ho potuto “tastare il polso” alle reazioni dei lettori. Ho ricevuto molti complimenti, ma anche alcune richieste di chiarimenti a cui sono ora lieto di rispondere.

Una questione riguardo alla quale diversi lettori mi hanno richiesto ulteriori lumi, è questa: fra le culture preistoriche europee certamente ha un posto di rilievo quella megalitica non solo delle Isole Britanniche, ma che si ritrova in tutta l’Europa atlantica, dal Portogallo alla Scandinavia (ben riconoscibile rispetto ad altre culture del pari megalitiche, come quella dei templi maltesi o quella dei nuraghi sardi), quella per intenderci che ha lasciato dietro di sé le strutture che conosciamo come menhir, dolmen, cromlech, e che può essere datata tra il neolitico e l’Età del Rame.

L’area di questa cultura viene a coincidere approssimativamente con quella che in età storica è stata occupata dalle popolazioni celtiche. Al riguardo, la domanda sorge spontanea: i costruttori di megaliti (chiamiamoli così) erano proto-Celti, antenati dei Celti storici, o erano una popolazione diversa, pre-celtica, che poi i Celti hanno assorbito/soppiantato?

Si trattava comunque di una popolazione indoeuropea?

Nel mio libro ho risposto che una risposta certa a questa domanda non esiste, che la maggior parte degli archeologi propende per la seconda ipotesi (pre-celtica), ma la prima (proto-celtica) ha quanto meno avuto l’avallo di un ricercatore autorevole come Colin Renfrew.

Tuttavia, la mia risposta a questa domanda sembra non aver soddisfatto alcuni lettori che mi hanno chiesto, se possibile, qualche ulteriore precisazione.

Facciamo allora una premessa: in assenza di documenti scritti come avviene per l’età preistorica, gli archeologi cercano di definire i popoli e le culture sulla base degli elementi di cultura materiale, faute de mieux, è l’unico metodo disponibile anche se l’analisi del DNA comincia oggi a fornire strumenti diversi. Un metodo di certo valido in mancanza di meglio, ma che potrebbe comportare delle distorsioni. Ad esempio, se gli archeologi del futuro dovessero applicarlo a noi, concluderebbero che nei decenni appena trascorsi “la cultura” e “il popolo” del CD-rom hanno soppiantato quelli della pellicola e del vinile.

Poiché non sappiamo che lingua parlassero i costruttori di megaliti, non possiamo stabilire con certezza se fossero celti e neppure indoeuropei (ricordiamo che quest’ultimo concetto è linguistico e non antropologico).

Di una cosa, tuttavia possiamo essere sicuri: erano uomini europei, caucasici, bianchi.

Fino a tempi recentissimi, fino all’oggi in cui purtroppo conosciamo la desolante realtà dell’immigrazione clandestina/invasione/sostituzione etnica, l’Europa non è mai stata popolata da genti “scure”, “colorate”. La famosa ricostruzione dell’uomo di Cheddar, il più antico fossile inglese conosciuto, presentato con una tonalità di pelle da subsahariano, è un falso, e altrettanto false, costruite per motivi ideologici per farci accettare il dogma dell’Out of Africa e diminuire le resistenze all’immigrazione, sono tutte quelle che presentano antichi europei dalla pelle scura, come quella della donna di cui non possediamo neppure un osso, ma che avrebbe lasciato il suo DNA masticando un pezzo di resina.

Per quanto riguarda l’uomo di Cheddar, un’analisi più accurata del DNA ha mostrato che gli europei attuali con cui presenta maggiore somiglianza sono gli Estoni. Andate in Estonia e vedete, a parte recenti immigrati, quante facce scure scorgete tra la popolazione.

Oggi a livello antropologico pare di assistere a una nuova guerra fredda a parti invertite. Laddove gli americani sono costretti a sostenere le menzogne del politically correct democratico (che fa da supporto ideologico al razzismo anti-bianco dei Black Lives Matter), i russi della Russia ormai non più sovietica, sono liberi di far parlare i fatti, di accorgersi che l’Out of Africa è in contrasto con i dati della genetica (per tutti, il nome di Anatoly Klysov), ma c’è dell’altro, perché l’analisi del DNA dei resti di un cacciatore siberiano vissuto 45.000 anni fa, rinvenuti nella località di Ust’-Ishim che rappresentano il più antico DNA completo giunto fino a noi, ha rivelato i geni per la depigmentazione, cioè la pelle chiara, ed Europei e Siberiani sono strettamente imparentati, essendo discendenti del tipo del paleolitico superiore noto come eurasiatico settentrionale.

I nostri antenati si sarebbero prima scuriti e poi nuovamente schiariti? Che credibilità ha una cosa del genere?

I costruttori di megaliti erano sicuramente bianchi caucasici, perché allora in Europa non c’era nessun altro!

NOTA: Nell’illustrazione, ricostruzione di un crannogh scozzese. Queste strutture palafitticole abitate in Scozia talvolta ininterrottamente dal neolitico al medioevo, sorgevano spesso su isolotti artificiali, il più antico dei quali pare essere stato identificato nel lago Loch Midgale.

 

 

 

 

2 Comments

  • Enrico 22 Novembre 2020

    Egregio sig. Fabio Calabrese chiarisco subito una cosa : io la seguo e la stimo. Quindi, sottolineato ed evidenziato questo, ci prendiamo la briga di ricordare che l’archeologia è una disciplina che, per sua stessa natura, è in continuo (o quasi) divenire. Non sono veneto, ma studio tutte
    le civiltà italiche, europee, asiatico occidentali e mesopotamiche dal 5500 a.c. sino al Medio Evo compreso. Ora, anche i veneti antichi sono ampiamente compresi nel mio campo di studi, quindi mi permetta di offrire un mio brevissimo contributo. Reitia non è la dea di niente e di nessuno,
    il nome di questa dea è Pora, Reitia è un epiteto, come Juno Moneta, Juno Sospita, Juno Caprotina, Iuppiter Latiaris, Iuppiter Feretrius e via discorrendo. Quindi Pora. Reitia francamente non so cosa volesse dire ma era un epiteto, e forse ne aveva anche altri, al momento non
    è possibile saperne di più. Dea dei veneti, no nient’affatto. Pora è una divinità femminile che parrebbe essere una sorta di dea protettrice di Padova, non dei veneti. Rimane il fatto che nell’antico veneto la proto-Padova è uno dei centri più importanti del territorio ma che questo porti
    Pora ad essere la divinità più importante della proto-città patavina o addirittura di tutti i veneti (cosa piuttosto improbabile per quel che mi riguarda) è ancora tutto da dimostrare. Giova ricordare che negli ultimissimi anni sono state trovate isrizioni e invocazioni a divinità prevalentemente
    maschili (a Padova), scarse quelle femminili che comunque ci sono. Il discorso che riguarda il pantheon degli antichi veneti è, come per tutti gli altri popoli italici, ancora avvolto nelle nebbie e ci vorranno decenni di studi, di scavi e di ricerche per averne soltanto una vaga idea.
    Lei ha perfettamente ragione a chiedermi le fonti ma …. devo solo cercarle, le ho qui nel mio computer e mi ci vorrà un pò per trovarle, sono desolato ma è la verità.
    In secundis, il megalitismo. Il megalitismo in Sardegna non comincia certo con la grandiosa civiltà Nuragica (non sono sardo, sono lombardo), ma già alla fine del 5° millennio a.c. e non ha nulla a che vedere con quello maltese che è successivo, seppur non di molto (anche se alcune
    datazioni “molto alte” non mi convincono, mi sembrano rimontare un pò troppo indietro nel tempo). Oltretutto il megalitismo maltese mi pare molto diverso sia per struttura che per concezione da quello sardo e da quello europeo in generale.
    Ad ogni modo la civiltà nuragica è “solo” la “coda finale” del megalitismo dell’Europa Occidentale da cui, in un modo o nell’altro ma comunque palese ed incontestabile, si origina.
    Sottoscrivo tutto il resto dell’articolo, parola per parola.
    Le rinnovo il mio rispetto e la mia stima
    Saluti

  • Fabio Calabrese 19 Gennaio 2021

    Caro signor Enrico: Mi dispiace di aver notato il suo commento soltanto adesso, ma passo comunque a darle una risposta. Primo punto: Reitia, leggendo il suo commento ho avuto la netta impressione che parlassimo di due cose diverse, la Reitia veneta e la Reitia romana. Sull’argomento, le consiglierei la lettura del libro “La dea veneta” di Piero Favero. A mio parere, le cose possono essere andate così: come lei certamente sa, i Romani avevano l’abitudine di “Adottare” nel loro pantheon le divinità dei popoli assoggettati, e certamente lo stesso è successo con Reitia. Ovviamente, nel pantheon romano, Reitia non poteva avere la stessa posizione preminente che aveva in quello venetico, ed è divenuta la divinità marginale a cui lei fa riferimento. Oltre tutto le faccio notare, questo appellativo “pora” che magari alle nostre orecchie può suonare come “povera”, in realtà si riferisce a “pario”, partorisco. Reitia era la dea protettrice del parto, quindi importantissima per le donne venete, senza dubbio anche in età romana.
    Secondo punto: il megalitismo: qui devo essermi espresso male, io non ho mai inteso affermare che il megalitismo sardo e quello maltese siano collegati. L’equivoco, probabilmente è nato per il fatto che li ho accostati, poiché, lo ribadisco, quando dico “Italia” penso alla nazione italiana nei suoi confini geografici e storici, non alla repubblichetta nata nel 1946. Quindi, per quanto mi riguarda, non ho problemi a includervi le terre irredente, l’Istria, il Ticino, Nizza, la Corsica e ovviamente Malta.
    A parte ciò, la ringrazio vivamente per le sue attestazioni di stima.

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