18 Luglio 2024
Archeostoria

L’eredità degli antenati, venticinquesima parte – Fabio Calabrese

 

Stavolta cominciamo con una notizia presa da una pubblicazione locale, ma il cui significato non è di sicuro prettamente locale, anzi, diciamolo, in questo caso è proprio una fortuna trovarsi “sul posto” perché stranamente queste cose spesso sfuggono alle reti e alle grandi tirature nazionali o anche alle pubblicazioni specializzate.

“InformaTrieste” del 23 maggio ci dà la notizia del risultato dell’esame condotto da un team di ricercatori internazionale capeggiato da Clément Zanolli dell’università di Tolosa su alcuni denti fossili ritrovati a Visogliano, località a nord-ovest di Trieste: sembrano essere molto antichi, risalire a 450.000 anni fa, ed essere appartenuti a un uomo di Neanderthal. Si tratterebbe dunque di uno dei fossili neanderthaliani più antichi in assoluto mai ritrovati.

Una cosa sulla quale non mi sembra si sia riflettuto, ma che rende ancora più eccezionale questo ritrovamento, è il fatto che se noi consideriamo dove sono collocati perlopiù i rinvenimenti di fossili umani di età superiore ai centomila anni in Italia: Saccopastore, Monte Circeo, Ceprano, Altamura e via dicendo, notiamo che sono perlopiù localizzati in una precisa area dell’Italia centro-meridionale: Lazio-Campania-Puglia (Anche Molise, considerando il sito di Isernia-la-Pineta, dove però non sono stati trovati resti umani).

Nell’Italia settentrionale, quasi nulla, e una delle poche eccezioni è rappresentata da un dente molare attribuito a Homo erectus ritrovato anch’esso vicino a Trieste, nella grotta carsica nota come Abisso di San Canziano e oggi conservato al Museo di Storia Naturale triestino. A ciò si può aggiungere il ritrovamento nel 2019 in una grotta del vercellese, di una calotta cranica incompleta di quella che parrebbe una forma di transizione fra Homo heidelbergensis e Neanderthal.

(Anche in questo caso, ricorderete, si è trattato di una notizia apparsa su di una pubblicazione locale, ma completamente snobbata sia dai grandi media sia dalle pubblicazioni specializzate, forse perché in ultima analisi si tratta di una prova in più di quelle, e sono ormai tantissime, che vanno a smentire la presunta origine africana della nostra specie).

Ma non ci fermiamo qui, perché oggi gli uomini di Neanderthal sono considerati sapiens, una varietà diversa della nostra stessa specie, è in sostanza la stessa cosa che abbiamo visto la volta scorsa con il ritrovamento spagnolo di Atapuerca, un homo sapiens estremamente antico, vicino all’orizzonte temporale del mezzo milione di anni, coevo dell’Homo erectus da cui quindi non può essere derivato.

A questo punto, di tutta la filogenesi evoluzionista che dovrebbe documentare la nostra derivazione da una specie scimmiesca che man mano si rizza sugli arti posteriori e ingrandisce la scatola cranica, non resta praticamente nulla.

Il nostro nord-est parrebbe essere uno scrigno paleontologico ancora in gran parte inesplorato. Ricordiamo il ritrovamento a Duino, sempre vicino a Trieste, dei resti di un dinosauro del genere Adrosauro che è stato battezzato familiarmente “Antonio” di cui si sono ritrovati fossilizzati non solo le ossa, ma anche gli organi interni. Peraltro, poiché gli adrosauri erano erbivori da branco, si sospetta che nella stessa cava da cui sono emersi i resti di Antonio, siano sepolti quelli di diversi altri esemplari, ma le ricerche non sono proseguite, come al solito per mancanza di fondi.

Un particolare curioso: si è scoperto che Antonio in realtà era una femmina. Sembra Antonio, ma in realtà è Antonia. Tutto il contrario di certi ibridi che circolano oggi la sera lungo i viali, che sembrano Antonia ma in realtà sono Antonio.

Ma ora non parliamo oltre di dinosauri ci portano in un orizzonte temporale molto distante da quello delle origini umane. Poiché “Ereticamente” non è – grazie al Cielo – “Le Scienze”, si può anche far notare un particolare umoristico: l’articolo di “TriesteInforma” è intitolato: Trieste. A Visogliano trovato uomo di Neanderthal. A soffermarsi alla sola lettura del titolo, parrebbe che questo uomo di Neanderthal lo si sia incontrato per strada.

Parlando seriamente, noi ci rendiamo conto che quanto più sono antichi i resti umani che ritroviamo e quanto più a nord sono collocati, tanto più insostenibile e traballante diventa l’Out of Africa, la “teoria” delle nostre presunte origini africane, che è in realtà un costrutto ideologico volto a farci accettare l’immigrazione e la sostituzione etnica.

Poiché siamo entrati nell’argomento di Trieste, mi perdonerete se non resisto a darvi per una volta una notizia che non riguarda la remota eredità ancestrale, ma la storia recente della mia città. Quasi contemporaneamente a quella sull’uomo di Visogliano, è venuta la notizia che la giunta comunale triestina ha deciso di istituire il 12 giugno come festa cittadina, giornata del ricordo della liberazione di Trieste dall’occupazione titina. Il 12 giugno 1945, infatti, le truppe neozelandesi, con immenso sollievo della popolazione, entrarono a Trieste costringendo le bande comuniste jugoslave del maresciallo Tito a ritirarsi, dopo quaranta giorni di sanguinosa occupazione.

I comunisti jugoslavi, anche a Trieste, come in Istria, nella Dalmazia, a Fiume, nelle parti della Venezia Giulia cadute sotto i loro artigli sanguinari, avevano dato il via a una spietata “pulizia etnica” tesa a cancellarne l’identità italiana (e purtroppo solo Trieste è stata risparmiata, mentre altrove i nostri connazionali per sottrarsi alla mattanza, non hanno potuto altro che intraprendere l’amara via dell’esodo).

Bene, questa delibera ha provocato un livoroso intervento sulla stampa locale e on line dell’ex sindaco PD di Trieste Roberto Cosolini. Che strano, vero? Questi pidioti dicono di non essere più comunisti, di essersi convertiti al rispetto dei diritti umani e via dicendo, anzi oggi pretendono di insegnarceli (“restiamo umani”, con tutta l’ipocrisia che segue), ma quando qualcuno osa ricordare l’innegabile verità storica del comunismo che è stato la più terrificante macchina stritola uomini e popoli mai apparsa nella storia umana, eccoli schiumare di rabbia e sputare veleno. Benissimo, oltre ad augurargli di soffocare nella loro bile, questo permette a tutti di vedere ciò che veramente sono e continuano a essere.

Ricordiamo anche che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha deciso di istituire la giornata del 7 novembre, anniversario del golpe leninista in Russia passato falsamente alla storia come “rivoluzione d’ottobre” (secondo il calendario giuliano) come giorno del ricordo delle vittime del comunismo. È ovvio che nella nostra povera Italia permanentemente afflitta da governi di centrosinistra frutto di cabale parlamentari e non eletti dal popolo, non se ne farà nulla, ma per noi sarà un’occasione in più per ricordare cosa è stato realmente il comunismo: violenza, terrore e morte.

Ora, io non vorrei a questo proposito, dire nulla che sia possibile confondere con l’atlantismo, il filo-americanismo di un certo tipo di destra (ma anche di un certo tipo di sinistra, basti pensare ad Oriana Fallaci), tuttavia è innegabile che esiste una differenza fra un Donald Trump e lo spirito democrat-obamiano (“bello, alto, abbronzato”) che piace tanto ai leccapiedi dei TG Rai che sono la massima espressione, l’incarnazione stessa del servilismo.

Di certo, né Barak Obama, né Hillary Clinton se per disgrazia dell’intera umanità si fosse mai assisa alla Casa Bianca, avrebbero mai sollevato il velo sugli orrori e le mostruosità del comunismo.

“Democrazia”, lo vediamo una volta di più, è un concetto che coincide con l’ignoranza voluta dei fatti e la proibizione a pensare.

E tutto questo, detto altrettanto fuori dai denti, senza necessariamente condividere o approvare gli atteggiamenti del presidente-tychoon in altri campi quale la politica estera soprattutto mediorientale.

Visto che oramai questa parte de L’eredità degli antenati sembra essersi incanalata in una direzione precisa riguardante Trieste, il Friuli Venezia Giulia, l’angolo nord-orientale della nostra Penisola, restiamo in argomento.

 Come avete visto nei tre articoli che compongono L’Italia megalitica, che sono poi le tre parti del testo della conferenza da me tenuta nell’ambito del Triskell, il festival celtico triestino nel giugno 2019, non vi ho parlato del fenomeno megalitico nell’area triveneta, non perché esso nelle Tre Venezie non esista o sia poco importante, ma al contrario, con l’idea di trattarlo a parte in una successiva conferenza (a cui far poi seguire come d’abitudine la pubblicazione del testo, di solito per motivi di lunghezza, suddiviso in più articoli), su “Ereticamente”.

Va da sé che, come ho già fatto in L’Italia megalitica, nel testo di questa conferenza, che come d’abitudine ho preparato con notevole anticipo, non ho tenuto conto dei confini statali dell’odierna repubblica (o repubblichetta), ma di quelli storici della nazione italiana, comprendendo nella trattazione anche le aree del nostro nord-est che ci sono state strappate in seguito alla sconfitta nella seconda guerra mondiale, e oggi sono separate da noi dal più odioso e innaturale dei confini.

Ve lo confesso: la mutilazione subita dalle nostre terre, per me continua a essere una ferita aperta e sanguinante, di quelle che non si possono rimarginare.

Questa conferenza, così come le altre sul megalitismo che l’hanno preceduta, si sarebbe dovuta tenere nell’ambito del festival celtico a giugno di quest’anno, ma in seguito all’epidemia di coronavirus, il festival stesso è stato spostato a settembre e, incrociamo le dita, sempre che l’andamento del covid ci permetta di tenerlo almeno allora.

Anche per questo motivo, vorrei darvi ora qualche piccola anticipazione, piccola, s’intende, non vorrei presentarvi il testo della conferenza prima di averla effettivamente tenuta, e consideratela pure una forma di scaramanzia.

La tipologia megalitica più diffusa nelle Tre Venezie è costituita dai castellieri, queste costruzioni a secco che ricordano un po’ i nuraghi sardi, ma, come vedremo a tempo opportuno, ci sono anche molte altre cose. I castellieri erano in sostanza borghi fortificati, luoghi di abitazione, non adibiti a usi funerari, tuttavia almeno in un caso, all’ingresso del castelliere di Sedegliano (Udine), sono stati esumati nel 2005 i resti di un uomo che vi era stato sepolto: era probabilmente un leader o un grande guerriero lì inumato perché potesse continuare a proteggere post mortem la sua comunità. Il dato interessante è che si tratta dello scheletro di un uomo di alta statura, e la ricostruzione dei lineamenti del volto ha fatto supporre una fisionomia di tipo nordico. Una scoperta che ben si concilia con la teoria di una forte presenza di elementi nordici almeno nelle élites dei popoli europei dell’antichità o di età più remote. Un’altra conferma, caso mai ce ne fosse bisogno, di quel complesso di idee diffuse in Europa prima del 1945 e che oggi la democrazia cerca democraticamente di cancellare anche facendo ricorso a falsificazioni spudorate.

Sarebbe molto difficile portare avanti un lavoro come quello che sto svolgendo da anni per “Ereticamente”, o anche le conferenze da me tenute al Triskell, il festival celtico triestino, senza aver avuto l’accortezza di costruirsi un piccolo archivio da cui trarre all’occorrenza i brani più significativi e utili da citare nel momento di stendere i diversi “pezzi”. Nel momento in cui mi sono dedicato a stendere il testo di quella che dovrebbe (sempre covid permettendo) essere la conferenza del 2020, mi sono accorto di avere a disposizione un’abbondanza di materiale, al punto che ho dovuto escludere alcune cose per non produrre un testo eccessivamente chilometrico, ma nulla vieta di darvi ora una piccola sintesi di questo materiale espunto (premesso sempre che vi presenterò il testo Il Triveneto preromano, celtico e megalitico prima possibile sulle pagine della nostra “Ereticamente”).

Tra i testi che ho dovuto accantonare, vi sono uno stralcio del libro La decifrazione delle scritture scomparse di Johannes Friedrich, un testo datato ma tuttora valido, il libro La dea veneta a cura di Piero Favero, e un articolo del nostro Silvano Lorenzoni pubblicato nel 2000 dal Centro Studi La Runa sui Veneti preromani.

Johannes Friedrich ci spiega che:

Mentre tra latino ed osco-umbro vi è una stretta affinità linguistica ed una comunanza di cultura, le cose stanno alquanto diversamente riguardo alla lingua dei Veneti, popolo che abitava la regione nordorientale dell’Italia. Questa lingua non è un dialetto italico, ma probabilmente è un ramo indipendente del ceppo indoeuropeo che ha punti di contatto con l’italico ma anche con il celtico, il germanico e l’illirico”.

Quel che vale per la lingua, vale anche per la popolazione che la parlava, i Veneti non sarebbero stati italici veri e propri (cioè appartenenti al gruppo latino-osco-umbro), ma una diversa popolazione indoeuropea, originaria probabilmente dell’Europa centrale, che in età storica era insediata in tre aree distinte: nell’attuale Polonia, nella Francia/Gallia di nord-ovest (dove Cesare ebbe modo di incontrarli, e ne parla nel De bello gallico come di eccellenti marinai), e ovviamente nel nord-est italico.

Lorenzoni sottolinea la continuità tra i Veneti antichi e quelli odierni. I Veneti rientrerebbero nel tipo antropologico alpino, e “fin dai tempi preistorici le genti alpine ebbero come caratteristica la laboriosità, la serietà nell’impegno preso e l’ingegno tecnico; e questo si riflette nei tempi moderni quando le zone trainanti dal punto di vista economico (…) sono quelle dove c’è un forte elemento alpino”.

Il testo di Favero è in realtà una rassegna molto vasta sugli antichi Veneti, e limitiamoci qui alla particolarità che dà il titolo all’opera, il fatto che alla sommità del pantheon venetico non vi fosse un dio maschile, ma una dea, Reitia:

Generalmente, al vertice delle antiche gerarchie mitologiche c’era una divinità maschile, come Giove oppure Odino. Presso i Veneti era differente: pur dislocati in distanti regioni d’Europa essi sempre veneravano una Dea suprema, come Jiva nel Baltico o Reitia nell’Alto Adriatico e nelle Alpi Orientali. In realtà Reitia è una dea misteriosa; reggeva una chiave e probabilmente aveva per compagni il lupo e l’anatra, ma assai poco è noto su questa dea veneta ed i suoi riti religiosi. L’aspetto più importante del culto erano i roghi votivi associati ai banchetti votivi e ciò risulta molto simile ai costumi micenei, come pure lo è l’usanza funeraria dell’incinerazione dei morti”.

Si tratta di una documentazione di grande interesse, su cui mi riprometto di riprendere il discorso quanto prima.

Per questa volta va così, questa parte de L’eredità degli antenati è tutta dedicata all’ambito triestino, giuliano, triveneto, e lo stesso, ovviamente, avverrà quando vi presenterò il testo della prossima conferenza che dovrei tenere al Triskell (sempre coronavirus permettendo), ma non va dimenticato che ciò ha senso soltanto in un contesto più vasto, e non soltanto culturale, ma anche e prima di tutto politico, di difesa della nostra identità, non soltanto riguardo alle Tre Venezie, ma in quanto italiani ed europei.

NOTA: Nell’illustrazione, il sito di Visogliano nei pressi di Trieste, dove sono stati trovati resti neanderthaliani che risalirebbero a 450.000 anni fa.

 

 

 

 

 

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