Ricominciamo stavolta dalla fine di aprile il nostro esame delle novità in campo archeostorico. Come sapete, per una serie di motivi che ora non ritengo necessario ripetere, ho deciso di non occuparmi dell’attività dei gruppi facebook, a meno che non emerga qualcosa di davvero importante, ebbene, questo sembra essere proprio uno di questi casi. In data 23 aprile il nostro amico e collaboratore di “Ereticamente” Michele Ruzzai segnala su “MANvantara” la traduzione in spagnolo di uno dei suoi migliori articoli e più “densi” già apparso su “Ereticamente”, L’uomo eterno e i cicli cosmici.
L’articolo, tradotto in spagnolo da Angel Fernàndez, è stato pubblicato sul secondo numero di “Mos Maiorum”, una nuova rivista iberica di studi tradizionali.
Nel congratularmi col nostro collaboratore e amico, la cui firma assume ora una dimensione internazionale, devo però rilevare che sebbene il nostro sia una delle teste più lucide del nostro ambiente umano e con una conoscenza approfondita da far invidia del pensiero tradizionale, ha però la tendenza a sottovalutarsi, e per conseguenza i suoi scritti sono più sporadici di quel che sarebbe desiderabile, nell’errata convinzione di aver poco da dire.
Vi cito un fatto: l’ultimo articolo di Michele Ruzzai apparso su “Ereticamente”, per di più dopo un considerevole lasso di tempo dall’ultima pubblicazione che l’aveva preceduto, Le radici antiche degli Indoeuropei, è il testo di una sua conferenza tenuta qui a Trieste, che egli mi fece avere perché dovevo introdurre la conferenza stessa, ed è stato pubblicato da “Ereticamente” a sorpresa su mia iniziativa, perché a conferenza tenuta mi sembrava davvero un peccato che un testo così pregevole rimanesse inedito, ero anzi un po’ in ansia perché non sapevo come Michele avrebbe reagito alla sorpresa, che invece trovò graditissima.
Che dire? Accettiamo l’uomo per com’è, con la sua timidezza, che se non altro, contrasta gradevolmente con la presunzione di tanti.
Io non so se sia l’effetto del coronavirus che dopo aver colpito duramente l’Italia per prima fra i Paesi occidentali, oggi ha fatto scoppiare la bomba della pandemia negli Stati Uniti in modo davvero devastante, e sappiamo che negli ultimi tre quarti di secolo la potenza a stelle e strisce è stata finora il centro di tutto, compresa la ricerca scientifica, ma sembra proprio che in questo periodo, di notizie di rilievo dal nostro punto di vista (a parte ovviamente la traduzione spagnola del nostro Michele Ruzzai), dall’estero non ne arrivino.
In compenso, abbiamo una discreta quantità di novità dall’Italia, come se la dea Roma avesse approfittato dell’allentarsi della morsa in cui è di solito tenuta dal mondo e dalla visione del mondo anglosassoni (quelli che tre quarti di secolo or sono, secondo una nota barzelletta, ci avrebbero “liberati”).
Il 18 aprile “Project Tuscia” (www.projecttuscia.com) ha pubblicato un articolo su Cagnemora, si tratta di una valle non distante dalla piramide etrusca di Bomarzo, di cui vi ho già parlato varie volte, che presenta notevoli testimonianze funerarie riferibili all’antico popolo dei Rasna, resti di edifici di epoca etrusca, e una “torre” (in realtà un edificio funerario) con tanto di merlatura (in realtà i merli sono cavi, e forse alloggiavano al loro interno delle urne cinerarie).
Non è tutto, perché, a quanto viene riferito, tutta la zona fra Bomarzo e Soriano nel Cimino presenta resti archeologici di età etrusca, perlopiù non studiati e certamente non sottoposti a vincolo paesaggistico o archeologico. Abbiamo un sepolcreto in località Tacchiolo con caratteristiche sepolture di forma cubica che sono state chiamate “tombe a dado”. In località Piano Via Cupa si trova quello che sembrerebbe un fontanile di età romana e numerose vaschette di decantazione chiamate nel linguaggio popolare pestarole.
Noi possiamo aggiungere, lo abbiamo visto altre volte, che la piramide etrusca di Bomarzo, presenta una tipologia alquanto diversa da quelle egizie, si tratta di una piramide-altare che è stata anche chiamata “il sasso del predicatore” e non rappresenta qualcosa di unico, ma che un masso lavorato con caratteristiche molto simili è stato ritrovato non molto tempo addietro nel parco archeologico di Veio.
A quanto pare, questa zona del viterbese presenta una vera e propria facies archeologica etrusca finora assai poco conosciuta e meno che mai studiata.
L’articolo è in realtà del 7 marzo, ma è “rimbalzato” su di un sito a diffusione nazionale il 21 aprile (data quanto mai propizia per ripercorrere le tracce degli antenati, trattandosi del natale di Roma). Un sito siciliano, “La voce dell’Isola” ha pubblicato un articolo (redazionale e non firmato) riguardante i Simboli solari della Sicilia pre-ellenica.
Un po’ dappertutto nelle zone archeologiche della Sicilia si trovano grosse sfere di pietra, ad esempio a Monte Orgale, a Monte Camastra, nel parco dell’Argimusco vicino a Montalbano Elicona, a Eraclea Minoa, a Tripi (Me). Si tratterebbe di oggetti lavorati dai siculi autoctoni in età anteriore alla colonizzazione greca della Sicilia, rappresenterebbero il sole e sarebbero quanto rimane di un antico culto del Dio Sole parallelo (forse antagonista) a quello della Dea Madre.
In località Balze Soprane vicino a Bronte (Ct) si trova un disco solare chiaramente riconoscibile, e fra i numerosi reperti emersi dagli scavi di Francavilla (Me), vi sono tre medaglioni siculi a forma di disco solare noti come oscille. Bisogna notare che nei bassorilievi egizi raffiguranti i popoli del mare che invasero l’Egitto, i Sekeles sono raffigurati con al collo medaglioni identici a quelli rinvenuti a Francavilla, il che ci assicura che questi ultimi fossero proprio i Siculi.
L’articolo ci parla anche di un ritrovamento avvenuto fuori dalla Sicilia, un’altra sfera solare che questa volta si trova in Sardegna nei pressi della piramide tronca di Monte D’Accoddi. Noi non sappiamo quali rapporti esistessero fra Siculi e Sardi nell’Età del Bronzo. Quello che sappiamo, è che le cronache egizie citano fra i popoli del mare, accanto ai Sekeles, gli Shardanas, con ogni verosimiglianza i Sardi.
La cosa si incastra stranamente bene con un post che Pierluigi Montalbano in data 23 aprile ha caricato nel gruppo facebook “Archeologia, storia e misteri”, da cui apprendiamo che il sito di Monte D’Accoddi non è costituito soltanto dalla piramide tronca (probabilmente una piramide-altare come quelle di Bomarzo e del parco di Veio), ma che c’è dell’altro, e non poco:
“Altare sacro di Monte d’Accoddi, un poderoso edificio costruito 5000 anni fa dalle genti della fase Ozieri. Un grande menhir affianca la rampa che conduce al terrazzo. Sul lato destro della rampa si notano un dolmen e una grande lastra rialzata che gli studiosi interpretano come altare per il sacrificio cruento di animali. Migliaia di conchiglie, ricche offerte votive e raffinate ceramiche testimoniano l’importanza dei rituali religiosi che i sardi svolgevano nel sito”.
Sembrerebbe proprio che la vicinanza temporale con il natale di Roma abbia portato a un risveglio di interesse per le più antiche, e ancora oggi assai poco conosciute testimonianze archeologiche che costellano la nostra Penisola. Sempre sul gruppo facebook “Archeologia, storia e misteri” e sempre in data 23 aprile, un altro lettore ha postato la fotografia di un antico cerchio di pietre che si trova sul Gran Sasso in provincia di Pescara. Questo reperto, a proposito del quale chiede lumi, è molto ampio (con un diametro di circa otto metri) ed è certamente troppo regolare perché si tratti di una disposizione naturale e non sia opera dell’uomo. Altri lettori ci informano che circoli litici simili si trovano anche in svariate località italiane: sull’isola di Lampedusa, in Calabria, nel Lazio (alla Radicosa di San Vittore, provincia di Frosinone) e anche altrove, sembrerebbero aver costituito una tipologia alquanto diffusa.
Che dire? Quanto meno che l’Italia è un Paese ricchissimo di testimonianze archeologiche che ci documentano una presenza molto antica e un più precoce avvio della civiltà nella nostra Penisola rispetto ad altre parti del mondo, che tuttavia perlopiù non sono adeguatamente conosciute e studiate, se non addirittura lasciate all’incuria. Non è un discorso nuovo, penso ricorderete che in particolare né L’Italia megalitica ne abbiamo visto diversi esempi.
Spostiamoci in Puglia, terra – lo abbiamo visto (in particolare nella seconda parte de L’Italia megalitica) – di un megalitismo di tutto rispetto quanto poco conosciuto. Qui c’è da segnalare un’ulteriore testimonianza della nostra preistoria.
Un articolo a firma di Eva Signorile pubblicato sul sito “Barinedita” in data 22 aprile, ci parla di: Spinazzola, quel “racconto” inciso 5mila anni fa su una roccia: «Sito unico, ma non tutelato». Si tratta di una lastra di pietra (l’articolista la definisce “masso archeologico”) una lastra pavimentale che si trova nel parco dell’Alta Murgia nei pressi di Spinazzola (provincia di Barletta-Andria-Trani) in località Rifugio del Cavone, che presenta una serie di incisioni.
“SPINAZZOLA”, ci racconta Eva Signorile, “Figure umane, animali, stelle, frecce: migliaia di simboli incisi nel calcare che rappresentano “il primo vero racconto dell’uomo sulla Murgia”. Stiamo parlando di un’incredibile scoperta avvenuta nei pressi di Spinazzola: un masso pavimentale che mostra una serie di disegni realizzati 5mila anni fa, probabilmente da antichi pastori che popolavano la zona”.
L’autrice precisa più avanti:
“Si riconoscono ben 33 “figure antropomorfe”, cioè rappresentazioni umane che ricordano i disegni dei bimbi che stanno imparando a impugnare la matita. In alcuni casi la testa degli uomini è riprodotta a forma di V, in altri compare come una sfera o un triangolo, in altre ancora “a raggiera”. Ci sono pure omini con due cerchietti a rappresentare gli occhi e “dotati” persino di un pene.
Ma nell’intricato insieme di simboli ci sono anche “griglie”, recinti, catene di losanghe, zigzag, frecce, stelle a cinque punte, croci e diversi animali. La quasi totalità dei segni è ascrivibile a un periodo compreso tra l’Eneolitico e l’Età del Bronzo, cioè tra 5mila e 4mila anni fa”.
Si tratta, potremmo dire, di una testimonianza di prima mano della preistoria nella nostra Penisola, ma il resto della storia ha un sapore alquanto amaro, infatti l’autrice ci informa del fatto che, sebbene si tratti di una scoperta non recente, essa non è ancora sottoposta ad alcun vincolo di tutela.
La scoperta fu fatta nel 2006, quattordici anni fa, da un privato, Cosimo Fiorina, ma nonostante la segnalazione di quest’ultimo, e nonostante che il masso sia stato studiato da un’equipe di esperti, non è stato ancora sottoposto ad alcun vincolo da parte della Soprintendenza.
Adesso mi devo almeno in parte contraddire, infatti si può segnalare almeno una novità proveniente dall’estero, dal sito “Ancient Origins”. Con ogni probabilità, in questo periodo la pandemia costituisce un ostacolo alle ricerche sul campo, ma non impedisce di lavorare sui testi, cosa che d’altra parte è quello che io stesso sto facendo.
L’articolo a firma di Adam Oliver Stokes pubblicato da “Ancient Origins” in data 26 aprile, è appunto una ricerca sul tema dei giganti condotta su svariati testi e tradizioni testuali.
Come precisa Stokes, parlando di giganti e cercando di valutare in che misura questo mito può avere una base storica, noi non dobbiamo necessariamente pensare a esseri di dimensioni spropositate rispetto alla norma umana, è probabile che in età antica qualsiasi uomo di un’altezza attorno ai due metri possa essere stato ritenuto un gigante.
Di giganti, ci racconta Stokes, ma penso sia una cosa che sappiamo tutti, ci parla la bibbia in almeno due occasioni: nella genesi, dove sono descritti come il frutto dell’accoppiamento degli angeli con le figlie degli uomini, e quando riferisce la storia del gigante Golia ucciso da Davide.
Pare strano, invece, ma è una significativa quanto involontaria confessione del fatto che la “cultura” americana che oggi “dà il la” al mondo cosiddetto occidentale, è sostanzialmente estranea alla civiltà europea, il fatto che l’autore non faccia il minimo accenno alle leggende europee, soprattutto alla mitologia classica, ricca di titani, di ciclopi e di altre figure gigantesche ancora. Tra l’Europa e gli Stati Uniti esiste il trait d’union della bibbia e del cristianesimo ma, come sappiamo bene e a dispetto di quello che vorrebbero credere in sfida all’evidenza i tradizionalisti cattolici, la bibbia non è un libro europeo.
Al contrario, Stokes dà un certo spazio alle tradizioni al riguardo dei nativi americani, in particolare alla leggenda dei Paiute riguardo al popolo “gigante” dei Si-Te-Cah, che prima di scomparire, dei Paiute sarebbe stato fiero avversario.
Peccato solo che quella dei Si-Te-Cah sia non solo una storia che conosciamo già e di cui vi ho parlato più di una volta, ma che conosciamo in proposito alcuni particolari “scomodi” che Stokes si è guardato bene dal riferire.
Forse ricorderete che ne avevo parlato a suo tempo in Una Ahnenerbe casalinga, riportando in proposito la testimonianza di Sarah Winnemucca. Questa donna, di etnia Paiute, è una studiosa delle tradizioni dei nativi americani, e lei stessa discendente di una famiglia di capotribù Paiute. Secondo la leggenda tramandata dai nativi, infatti, i Si-Te-Cah sarebbero stati non solo una popolazione “gigante”, ma anche di pelle chiara e pelame rossiccio. La donna avrebbe indicato agli archeologi diversi luoghi che secondo le tradizioni del suo popolo, ospiterebbero sepolture dei Si-Te-Cah, e anche cercato di consegnare loro una ciocca di capelli rossicci tramandata nella sua famiglia da tempo immemorabile, perché fosse sottoposta ad analisi, ottenendo un rifiuto a effettuare scavi, e addirittura a prendere in consegna la ciocca.
E’ così che funziona “la scienza” in democrazia: i fatti “scomodi” vanno censurati e occultati, e il fatto “scomodo” è ovviamente quello di un’antica popolazione bianca nelle Americhe. Tutto ciò che riguarda l’uomo bianco deve essere minimizzato per diminuire le resistenze alla sua prevista sparizione su entrambe le sponde dell’Atlantico attraverso la sostituzione etnica.
Io vorrei ora tornare a quella che è la tematica dominante di questa ventiduesima parte: noi in Italia abbiamo un vastissimo patrimonio archeologico, non adeguatamente studiato e neppure conosciuto, né tanto meno tutelato. Ciò dipende da una serie di fattori che non sono solo le lungaggini della burocrazia: il degrado dell’istruzione nell’ultimo quarto di secolo, soprattutto per quanto riguarda la conoscenza storica, ha finito per produrre una diffusa mancanza di consapevolezza del nostro passato.
È una tendenza che occorre adoperarsi in ogni modo per invertire: essere consapevoli della storia che abbiamo alle spalle è una condizione da cui dipende la volontà di lottare per dare a questa storia e a noi stessi un avvenire.
NOTA: Nell’illustrazione, a sinistra il secondo numero di “Mos Maiorum”, contenente la versione spagnola dell’articolo di Michele Ruzzai L’uomo eterno e i cicli cosmici. Al centro, un guerriero Sekeles (Siculo) raffigurato in un bassorilievo egizio, si noti il medaglione tipo oscilla. A destra il menhir sardo di Monte D’Accoddi.
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