Ricominciamo il nostro esame dell’eredità ancestrale alla metà di aprile, subito dopo il periodo pasquale, una pasqua segnata dal coronavirus e occupata principalmente a scrivere, leggere, cercare informazioni in internet.
Una tematica che non dico che meriterebbe uno studio particolare, perché studi a questo riguardo ne sono già stati fatti non pochi, è la sopravvivenza del paganesimo nelle tradizioni popolari europee. Questo è particolarmente vero, oltre che per il natale, il solstizio d’inverno, lo yule, la festa europea della rinascita della luce, a cui la Chiesa cattolica ha sovrapposto il compleanno del suo presunto fondatore, per la pasqua, l’antica ostara, celebrazione del ritorno della primavera (che ancora oggi si chiama Ostern in tedesco ed Easter in inglese), cui in modo analogo è stata sovrapposta la celebrazione della presunta resurrezione di Cristo.
Con la notte fra 31 ottobre e 1 novembre, il tradizionale capodanno celtico, samhain o halloween, la cosa gli è riuscita un po’ meno bene, questa antica celebrazione non priva di un risvolto macabro, poiché si supponeva che al momento del passaggio tra un anno, tra un “ordine” e l’altro, cadessero tutte le barriere, compresa quella che separa i vivi dai morti, è stata “battezzata” come ognissanti, senza riuscire a sradicarne gli elementi pagani, ma quel che non poté la Chiesa, ha potuto il moderno consumismo che ha ridotto questa celebrazione a una festa puramente commerciale.
Di fatto, dopo il concilio di Trento la Chiesa si accorse che oltre ai due fronti su cui era impegnata: il contrasto al protestantesimo e l’evangelizzazione delle nuove popolazioni con cui l’Europa era venuta a contatto, ce n’era anche un terzo, “le Indie di quaggiù”, le campagne europee la cui cristianizzazione era stata perlopiù molto superficiale. Peraltro sappiamo che il successo ottenuto è stato molto limitato e certe tradizioni sono tenacemente sopravvissute.
Tuttavia si tratta di una tematica riguardo alla quale non si cessa di fare scoperte sorprendenti. Vi ho già raccontato (L’Italia megalitica, terza parte) che a Calimera (Lecce) si trova un grande masso forato a forma di arcata, un “quasi dolmen” o “dolmen naturale” che viene tuttora attraversato durante le processioni della pasqua, e il suo attraversamento è considerato simbolo di rinascita spirituale, e costituisce probabilmente l’unica struttura megalitica rimasta oggetto di un culto ininterrotto da millenni in Europa, ma sempre la nostra Italia meridionale ha in serbo ben altro.
Un filmato posto su You Tube da Pietas Sicilia in data 9 aprile ci racconta che:
“A Gangi, un paese nelle Madonie tra le province di Palermo ed Enna, si svolge annualmente la seconda domenica d’agosto un corteo dal richiamo pagano chiamato Corteo di Demetra, nel quale gli Dei, interpretati da ragazzi del luogo, marciano per la cittadina e al termine del quale segue Demetra nel suo carro abbellito a festa, [la] festa [è] nata come ringraziamento per la raccolta del grano.”
Le nostre radici pagane, profonde e impossibili da estirpare!
Io penso che avrete notato che in genere evito di parlare in questa sede dei lavori pubblicati da altri autori sulle pagine della nostra “Ereticamente” per motivi che – penso – siano facilmente comprensibili: prima di tutto per non creare dei doppioni rispetto a ciò che trovate sulle nostre stesse pagine, e poi anche perché, nel caso che mi capitasse di fraintendere qualcosa, (non ho la presunzione di essere immune dall’errore) il fatto sempre spiacevole, nei confronti di un nostro collaboratore sarebbe di una maggiore gravità, tuttavia in qualche caso non è proprio possibile non fare un’eccezione, e un caso di questo genere è rappresentato proprio dall’articolo L’Urvolk della Cultura megalitica e del bicchiere campaniforme: un’Europa indoeuropea ab imis, pubblicato il 12 aprile su “Ereticamente” da Alessandro Daudeferd Bonfanti.
L’articolo contiene una serie di concetti interessanti che confermano quanto vi ho più volte esposto.
Vediamo per prima cosa un concetto chiave, sul quale io stesso sono tornato più volte: “Gli indoeuropei, ossia quelle popolazioni (…) da non definirsi come gruppo soltanto linguistico come taluni vorrebbero far credere”.
L’affinità delle lingue indoeuropee rimanda senza dubbio a una comunità di sangue, un Urvolk ramificatosi attraverso varie migrazioni. L’idea di una mancata corrispondenza tra gruppo linguistico ed etnia, è un’eccezione e non la regola, un’aberrazione tipicamente moderna. Oggi vediamo ad esempio gli afroamericani, gente originaria dall’Africa, parlare inglese, cioè una lingua germanica, ma possiamo essere sicuri che nulla del genere si sia verificato in epoche remote e che le società multietniche sono una mostruosità contemporanea.
Proprio la presenza di un costante ritualismo funerario che ha lasciato dietro di sé le strutture megalitiche note come dolmen, menhir, cromlech in ogni angolo d’Europa – questo mi sembra un po’ il punto centrale dell’articolo – ci assicura della continuità culturale, etnica e spirituale di queste popolazioni. Esse testimoniano una concezione uranica dell’uomo e del suo destino (dal greco ouranos, cielo), contrapposta a quella tellurica delle culture matriarcali. L’autore ipotizza, ad esempio, che i menhir, le pietre erette, fossero destinate a costituire i punti di riferimento per il viaggio celeste delle anime dei defunti.
Un altro punto importante, ma a mio avviso più controverso, è che l’autore contesta vigorosamente l’idea avanzata da Marija Gimbutas e Gordon Childe che identifica l’area di origine degli Indoeuropei in un’area eurasiatica meridionale a cavallo fra le attuali Ucraina, Russia meridionale Kazakistan, coincidente con quella che è stata chiamata cultura Jamna, e propende invece per una collocazione ancestrale in un’area nettamente nordica, concezione che si accorda con quella degli studiosi tradizionali (per tutti, i nomi di Tilak e di Evola).
Noi in questi anni abbiamo imparato ad avere una considerazione sempre maggiore degli uomini di Neanderthal, a lungo falsamente ritenuti dei bruti scimmieschi, non solo dobbiamo contare questi antichi uomini fra i nostri antenati, dovendo risalire a loro per una frazione dal 2 al 4% del nostro patrimonio genetico, non solo erano in possesso di conoscenze mediche non disprezzabili (come ha rivelato lo smalto dentario dei resti neanderthaliani ritrovati a El Sidron in Spagna, facevano uso di acido salicidico, e di muffe per combattere le infezioni), non solo sono sopravvissuti in Siberia fino a 31.000 anni fa, ma erano anche capaci di manifestazioni artistiche, e a loro vanno fatte risalire pitture parietali nelle caverne finora attribuite a uomini posteriori. Ora, a quanto pare, dobbiamo archiviare del tutto l’immagine del rozzo cavernicolo rivestito di pelli perché a quanto pare, i Neanderthaliani erano anche in grado di produrre tessuti.
Sci-tech-daily del 12 aprile riferisce la notizia che un team di archeologi guidato da Bruce Hardy ha rinvenuto nel sito di Abri Du Maras in Francia un frammento di corda lungo sei centimetri, risalente a tra 41.000 e 52.000 anni fa, epoca (paleolitico medio) in cui l’Europa era abitata esclusivamente da uomini di Neanderthal. Il frammento, o meglio la corda di cui faceva parte, è costituita dall’intreccio di tre fibre vegetali, provenienti dalla corteccia di un albero, probabilmente una conifera.
Bruce Hardy fa notare che un lavoro del genere presuppone sia una buona conoscenza del mondo vegetale e della sua stagionalità, sia il possesso di concetti matematici e di abilità nel calcolo per creare corde e tessuti composti di fasci a più fibre. Meglio conosciamo questi antichi uomini, meno ci appaiono diversi da noi.
In attesa di ulteriori nuove informazioni sui nostri remoti antenati, c’è una questione che vorrei ora mettere a posto, perché si tratta di una questione che necessita di un chiarimento.
Al riguardo sarebbe utile un riesame, non tanto della questione in sé, ma del modo davvero bizzarro con cui è stata presentata, non solo al grosso pubblico ma sulle pubblicazioni scientifiche che si suppone rivolte principalmente agli specialisti, è quello dell’introgressione africana.
Ricapitolando brevemente; le ricerche sul DNA antico hanno evidenziato la presenza nel genoma di europei e asiatici le tracce di antichi incroci con neanderthaliani e denisoviani che hanno influito sul nostro genoma attuale in una proporzione stimata fra il 2 e il 6%.
Questo invece non si riscontra nei neri subsahariani (lasciamo stare il fatto che ricerche recentissime avrebbero evidenziato una traccia molto lieve, attorno allo 0,3% di DNA neanderthaliano anche in quest’ultimi, che sarebbe conseguente a immigrazioni nel continente nero di popolazioni provenienti dall’Eurasia di data relativamente recente). In compenso, però, i neri africani presenterebbero nel loro genoma una componente molto forte, la più alta mai registrata in popolazioni attuali, l’8% e oltre, fino al 19% in alcuni casi secondo le ricerche più recenti, di DNA non-sapiens di origine sconosciuta. Queste presenze di DNA non sapiens nell’umanità attuale sono state chiamate introgressioni, perciò non mi sembra inappropriato riferirci a quest’ultima come introgressione africana.
L’aspetto paradossale della faccenda è che a parlare della questione è stata per la prima volta “Scientific American” (“Le Scienze” in edizione italiana) in riferimento agli studi sulle popolazioni africane compiuti dalla genetista Sarah Tishkoff nel 2012, poi la cosa è riemersa come si trattasse di una novità assoluta, in riferimento a uno studio sulle proteine della saliva condotto da due ricercatori dell’università di Buffalo nel 2017 (sono stati questi ultimi, per indicare l’Homo o ominide sconosciuto le cui tracce sono presenti nel DNA degli africani, a usare l’espressione “specie fantasma”). Come se non bastasse, quest’ultima nel 2019 è stata riscoperta da Jeffrey Wall dell’Università della California, San Francisco, e sempre nel 2019 la presenza di quest’introgressione nel genoma subsahariano è stata ulteriormente confermata dalla nuova tecnica di analisi computerizzata del DNA nota come apprendimento profondo.
Proprio per non farci mancare nulla, nel febbraio di quest’anno, la cosa è stata riscoperta anche da Arun Durvasula e Sriram Sankararaman dell’Università della California, Los Angeles (la celeberrima UCLA), che hanno scoperto che in alcuni casi questa introgressione “non sapiens” può arrivare fino al 19% del DNA, un quinto del patrimonio genetico.
Come se non bastasse, ci si sono messi di mezzo anche i virologi, spiegandoci che i virus dell’herpes 2 e dell’herpes 3 presenti nelle popolazioni africane da decine di migliaia di anni, sono invece presenti fuori dall’Africa da non più di qualche secolo, in coincidenza probabilmente con la diffusione della tratta degli schiavi, laddove, se i nostri antenati fossero davvero venuti da lì, questi virus dovrebbero avere una presenza molto più antica fuori dal Continente Nero.
Come si spiega questo curioso altalenare di una scoperta che da otto anni in qua sembra apparire, scomparire e poi essere riscoperta di nuovo? Io avanzerei un’ipotesi a questo proposito. Notiamo che questa scoperta va precisamente contro la “teoria” africano-centrica che oggi a dispetto di qualsiasi evidenza rappresenta il dogma, la vulgata ufficiale sulle nostre origini, perché dimostra che i neri subsahariani, elevati da quest’ultima a modello, prototipo della nostra specie sono invece proprio coloro che hanno la più alta percentuale di DNA non-sapiens, e perché, a meno di meticciamenti recenti, questo DNA “fantasma” non si trova in nessun altro gruppo umano, questo dimostra che il flusso genetico e quindi lo spostamento di popolazioni, non sono avvenuti dall’Africa all’Eurasia, ma semmai in senso contrario, e quindi verrebbe a cadere tutta la mitologia che è stata costruita a questo riguardo sulle nostre origini e che oggi il sistema educativo e quello mediatico, strettamente legati al potere politico, continuano a spacciare per scienza.
Qui abbiamo a che fare con una contraddizione della democrazia, che non può abolire del tutto la ricerca scientifica ma deve limitare al massimo “i danni” che nuove conoscenze possono portare. È come se si battesse la mano sulla spalla dei ricercatori dicendo: “Hai fatto la tua ricerca, bene, bravo, ti concediamo anche di pubblicarla, di avere il titolo di un articolo in più da aggiungere al tuo curriculum, a condizione che non arrivi al grosso pubblico né alla maggior parte dei tuoi colleghi, che sia dimenticata in fretta e non intacchi il dogma out-of-africano per noi così prezioso”.
Noi però sappiamo bene che la vulgata, il dogma che il potere ci vuole imporre sulle nostre origini e su noi stessi, non è altro che un inganno che ha lo scopo preciso di farci credere che in ultima analisi “siamo tutti migranti” e di ridurre le resistenze alla sostituzione etnica che si profila ogni giorno più minacciosa, e non possiamo che ribadire e accrescere la nostra determinazione a resistere a qualsiasi costo.
NOTA: Nell’illustrazione, a sinistra, raffigurazione artistica di Ostara, la dea pagana della primavera. Il cristianesimo ha “battezzato” la celebrazione di Ostara trasformandola nella pasqua. Al centro, un menhir, secondo l’ipotesi di Alessandro Daudeferd Bonfanti, i menhir, le “pietre erette” costituivano i punti di una mappa che doveva indicare alle anime dei defunti le vie celesti da percorrere. A destra, la ricostruzione del volto di un uomo di Neanderthal. Il recente ritrovamento nel sito di Abri du Marais fa ritenere che questi antichi uomini fossero capaci anche di produrre tessuti.