Ettore Muti è un eroe e, per quanto mi riguarda, è “l’eroe”, dopo di lui non mi sovvengono altri nomi degni di paragone. Certo non è facile asserire una cosa simile quando dopo settant’anni di propaganda antifascista, di storia scientemente ricostruita e riscritta per ottenebrare i cervelli degli italiani, oramai nessuno lo conosce. Probabilmente i più giovani non avendolo sentito nominare e non avendo letto il suo nome nei libri della storia ufficiale non sanno nemmeno chi sia Ettore Muti, ma occorre al contrario riempirsi la bocca con tale nome e pronunciarlo con tutto il rispetto che merita. Lui era un combattente puro, coraggioso, temerario, amava tanto la vita e per questo motivo disprezzava il pericolo rischiando sempre il tutto per tutto. Ettore Muti, dimenticato, irriso, resta per me l’ultimo eroe italiano. Bello, affascinante come un attore, era un romagnolo sanguigno, spavaldo, scanzonato con uno sguardo dolce e duro a un tempo che faceva impazzire le donne. Fisicamente molto dotato, con un po’ di abbronzatura a dorargli il viso e una forte muscolatura esprimeva sicurezza, energico spavaldo, ma anche brillante, simpatico, anticonformista e soprattutto leale, onesto, generoso e pulito. Un uomo che tutto donò alla sua Patria fin da piccolissimo. Nato a Ravenna il 22 maggio 1902 era cresciuto sotto l’influenza del carattere forte e patriottico della madre che andava nascostamente orgogliosa di tutte le sue bravate e spavalderie. Senza continuare in uno sterile resoconto delle mirabolanti imprese che lo videro protagonista, mi soffermerò su alcuni episodi che aiuteranno a individuare immediatamente il suo carattere.
Dopo le elementari frequentava le scuole tecniche, siamo negli anni che precedono il primo conflitto mondiale, e il suo professore, un anti-interventista, gli assegnò un tema “Lo studente esemplare”. Nello svolgimento Ettore riportò con grande piacere dell’insegnate tutte le opinioni dallo stesso espresse a più riprese e cioè che lo studente modello doveva essere volonteroso, evitare le cattive compagnie e soprattutto mostrarsi un pacifista. La soddisfazione del professore durò fino alla frase finale “questo però non è un ragazzo, ma un aborto di natura”, quando sorpreso e offeso gli comminò una nota di demerito e il richiamo davanti ai genitori. È conosciuta la sua fuga da casa, ancora minorenne, per arruolarsi volontario e partecipare alla prima guerra mondiale, fuga scoperta e tentativo sventato, ma non il secondo quando sotto falso nome riuscì ad entrare prima nel 6° reggimento Fanteria Aosta poi negli Arditi e nel 1918 in un corpo scelto “i Caimani del Piave” nel quale seppe distinguersi per coraggio e forza. Una notte, in missione, partirono in 800 a nuoto nel Piave per creare una testa di ponte nel territorio occupato dal nemico, ma sorpresi e costretti a battersi all’arma bianca sopravvissero soltanto in 23. I superiori vollero decorarlo insieme agli altri per l’audacia, ma insospettitisi per il suo categorico rifiuto vennero a conoscenza della sua vera identità e, scopertolo ancora minorenne, lo rispedirono a casa per la seconda volta.
Nel 1919 si iscrisse ai Fasci di Combattimento e in settembre raggiunse D’Annunzio a Fiume, partecipando all’occupazione della città. Ben presto divenne il migliore dei pattugliatori e, in avanscoperta come gli “scorridori” delle antiche milizie medievali, si impegnava a far entrare i viveri in città, forzando i blocchi e trafugando la merce dai depositi del Regio Esercito. Un episodio indimenticabile lo vuole protagonista del furto di una mandria di muli che offrì al Vate in una spettacolare parata al centro della città. D’Annunzio capì immediatamente chi aveva di fronte e lo sfidò a una prova di coraggio da lui stesso ideata: si trattava di buttarsi, dal balcone più alto di un palazzo di cinque piani, in uno spettacolare tuffo sul telone dei pompieri. Ettore Muti lo stupì gettandosi direttamente dal tetto.
A capo di una squadra a lui assegnata, nel 1920, sequestrò il “Cogne”, un piroscafo diretto a Buenos Aires. Dopo essere stati nascosti per tutta la notte nel tubo dell’elica, la mattina successiva lo dirottarono e lo condussero al cospetto del Governo del Carnaro nel porto di Fiume. Il Poeta lo soprannominò “Gim dagli occhi verdi”, per il suo sguardo magnetico e “il Corsaro” per il suo coraggio. “Voi siete l’espressione del valore sovrumano, un impeto senza
Mai domo anche durante lo svago amava dedicarsi ad avventure pericolose, aveva una Bugatti con la quale compiva scorribande per le strade polverose della Romagna, dove correva a tutta velocità facendo strage di animali da cortile e senza fermarsi nemmeno ai passaggi a livello sotto i quali, a stanghe abbassate, passava tenendo il capo chinato. Era un grande trascinatore, amava circondarsi di amici e invitarli alla sua mensa, da buon romagnolo, sapeva essere ospitale e la sua casa era un porto di mare per chiassose comitive. Non amava prendersi sul serio in qualunque cosa facesse e, pur dando sempre il meglio di sé, conservava stampato sul viso il suo sorriso a tratti ingenuo, ma per lo più beffardo e conquistatore.
Fu il Duca Amedeo D’Aosta a convincerlo ad entrare nella Regia aeronautica, scelta indovinata, Ettore Muti si appassionò al volo e divenne uno dei migliori piloti della neonata Arma Azzurra. Si fece onore da subito durante la guerra d’Etiopia, ma il massimo successo lo ottenne volontario in Spagna. Il “Cid Aereo”, come lo chiamarono gli iberici, dopo che sopra i cieli di Oviedo aveva combattuto contro dodici caccia russi, abbattendone due e atterrando solo quando vi fu costretto perchè il suo velivolo era ridotto un colabrodo.
Compì numerosissime e valorose imprese e fu decorato con varie medaglie d’argento, una medaglia d’oro e con l’onorificenza dell’ordine Militare di Savoia.
Al ritorno dalla Spagna, Mussolini lo nominò segretario del PNF, nomina che festeggiò semplicemente telegrafando al suo amico federale di Ravenna: “Ven cun de pèn rumagnol e cun di grasul…” (Vieni con del pane romagnolo e con dei ciccioli).
Il suo arrivo ai vertici del potere di partito, portò un vero terremoto, Ettore Muti, dimostrando serietà e rigore, amava arrivare in ispezione all’improvviso presso le sedi Littorie distaccate e mettere sotto torchio i gerarchi locali, perchè detestava qualunque tipo di abuso di potere esercitato sfruttando la propria posizione, o l’incarico rivestito. Fece condurre inchieste sulle malversazioni, anche sull’Opera Nazionale del Dopolavoro, mise in riga gerarchi e sottoposti, si dice di lui che “non voleva feste e applausi”, ma gli piaceva “pulire gli angolini”e durante il suo pur breve mandato, attuò riforme importanti per favorire la gestione degli Enti Assistenziali, senza l’ingerenza del Partito.
La vita dietro una scrivania, però, non faceva per lui e allo scoppio della seconda guerra mondiale chiese immediatamente di essere inviato “là dove c’era bisogno”, combattere era il suo mestiere e lo fece ancora con grande valore, dal settembre 1940 al gennaio 1941 si conta fu impegnato in quaranta missioni di volo, sui cieli della Grecia, in seguito si distinse per varie operazioni nel mediterraneo e nel marzo dello stesso anno bombardò personalmente il centro petrolifero di Haifa.
Problemi alla vista lo costrinsero al ritiro dall’attività bellica nel 1942: aveva effettuato 1500 ore di volo in azioni di guerra. Muti era amato e rispettato da tutti gli Italiani proprio per la sua schietta personalità, oltre che per il suo innegabile valore.
Dopo il 25 luglio del 1943, il giorno del tradimento e dell’arresto di Mussolini, non si mosse da Roma, mentre tutto intorno la folla iniziava ad abbattere le insegne, a incendiare le sedi di partito e a malmenare i gerarchi, lui, per niente intimorito, continuò i suoi normali spostamenti e, al contrario, il suo passaggio venne sempre calorosamente applaudito da tutti. La gente conosceva le sue gesta, il suo valore, a lui, rispettato e amato, fu consentito anche in quei difficili giorni per tutti i fascisti, farsi vedere in giro, in divisa, a passeggio per Via Veneto.
“Con Muti si va anche all’inferno” dicevano di lui i soldati, col suo carisma sapeva trasmettere fede e ardore al popolo e non solo alla truppa. Un uomo d’azione, coraggioso, sincero, imprevedibile, e incapace di tattiche da corridoio, ignorava la diplomazia e all’occorrenza preferiva sbrigarsela con due sberle.
Ma il destino degli eroi è spesso quello di finire per mano di vigliacchi e così accadde a Ettore Muti, il soldato più decorato d’Italia. Era la notte del 24 agosto 1943 quando non si sa se per ordine diretto di Badoglio o del generale Carboni, in seguito a un’ipotesi di tentato complotto, tendente a riprendere il potere con l’appoggio dei tedeschi, venne arrestato dai Carabinieri. Non è chiaro ancora oggi come si svolsero i fatti nella pineta di Fregene dove trovò la morte e nemmeno è dato sapere chi avesse sparato, sta di fatto che fu l’unico a morire in quella che nelle sommarie e contrastanti ricostruzioni venne definita una sparatoria. Il suo berretto, recuperato e custodito dai familiari, recava due fori di proiettile sparati a distanza ravvicinata: uno alla nuca e uno, che aveva trapassato la visiera, dalla parte anteriore. Sono circostanze che fanno pensare a un’esecuzione politica anche alla luce della famosa lettera che Badoglio scrisse al capo della Polizia Senise: “Muti è sempre una minaccia. Il successo è solo possibile con un meticoloso lavoro di preparazione. Vostra Eccellenza mi ha perfettamente compreso”, il movente dunque sarebbe quello di evitare una sua ascesa al potere dopo la venuta a conoscenza dei complotti di insurrezione? Sta di fatto che la verità fu insabbiata e ora raccogliere una versione o l’altra non servirà a far luce su ciò che è realmente accaduto. L’unica cosa certa è che oggi nel giorno dell’anniversario della sua morte, non voglio ricordarlo riverso al suolo, esanime, sul terreno della pineta di Fregene.
Come farebbe una “ragazza innamorata”, pur avendolo conosciuto solo fra le righe di qualche volume dimenticato in soffitta e guardando i suoi occhi in una fotografia ingiallita dal tempo, voglio ricordarlo vivo per sempre, col cuore pulsante di emozioni, mentre vola imbattuto col suo aereo “irripetibile Stradivari” (come ebbe a definirlo Italo Balbo), voglio pensarlo mentre sorride guardando un film di John Wayne che tanto ammirava al cinema o ancora con un briciolo di civetteria tutta femminile, consentitemi, mentre corteggia una bella donna, come in quell’occasione in cui un’avvenente signora, con abito audacemente scollato, gli si rivolse guardando le molte medaglie che gli brillavano sulla divisa dicendo: “Fatemi ammirare questo petto” e lui: “Guardate pure, signora, l’ammirazione è reciproca”.
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