«Qualche anno fa i nuovi padroni della mia terra mi offrirono la cittadinanza onoraria di Pola come artista croata. Risposi che ero nata e sarei morta italiana. Scrivetelo sulla mia tomba». Alida Valli (Attrice)
Oggi il riconoscimento. Faticoso e parziale. Ancora tutto in salita. Ancora ostacolato da molte sacche di odio e di negazionismi o banalizzazioni. Al vertice dell’infamia ci sono i convegni che l’Anpi organizza da anni per ridicolizzare la tragedia che ha trascinato nel baratro l’Istria e la Dalmazia alla fine della Seconda Guerra mondiale e che, quest’anno, è stata ricordata dalla RAI con la trasmissione del film “Red Land-Rosso Istria”.
E’ la storia di Norma Cossetto, giovane studentessa istriana, barbaramente torturata e violentata dai partigiani iugoslavi e gettata, ancora viva, nella foiba di Villa Surani. Ma è anche la storia della ferocia con cui agirono i titini contro gli italiani di quelle terre solo perché italiani. Fra 1943 e il 1947 (cioè per ben 2 anni dopo la fine della guerra), nelle foibe dell’Istria sono stati gettati migliaia di italiani. Venivano legati l’un l’altro con un lungo fil di ferro stretto ai polsi e messi sugli argini delle foibe, quindi venivano fucilati i primi tre o quattro della fila, i quali, precipitando nell’abisso, morti o feriti, trascinavano con loro gli altri sventurati incatenati, condannati così a sopravvivere per giorni sul fondo delle voragini mischiati ai cadaveri dei loro compagni, tra sofferenze inimmaginabili.
Ma per l’Anpi
“Red Land è un film di pura propaganda fascista, basato su stereotipi anticomunisti e razzisti antislavi, sullo stravolgimento della realtà storica per riabilitare il fascismo distruggendo l’immagine della Resistenza antinazifascista, e soprattutto del contributo dei comunisti.”.
Difficile immaginare esseri più ignobili e spregevoli di questi “partigiani”, tanto accaniti nel falsificare e rinnegare gli avvenimenti del passato, per occultare le loro responsabilità e quelle dei loro complici iugoslavi, quanto pronti nell’arraffare i sussidi elargiti da quella stessa Repubblica della quale apertamente disconoscono le commemorazioni, le cerimonie e la narrazione storica.
Quella stessa Repubblica che, peraltro, è stata edificata e ha vissuto per anni sulla viltà, la menzogna e l’ipocrisia se è vero, com’è vero, che oggi celebra il Giorno del Ricordo e piange le migliaia di italiani massacrati dai partigiani titini, ma, contemporaneamente, in aperta contraddizione, ha decorato Broz Josip Tito, il dittatore macellaio comunista responsabile ideatore di quelle stragi, come “cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica italiana” con l’aggiunta del Gran Cordone, cioè il più alto riconoscimento conferito dal nostro Paese. Questa ignominia è tutt’ora riscontrabile e presente sul sito del Quirinale, cioè della stessa istituzione che ha veduto la vergognosa figura di un presidente partigiano, tale Sandro Pertini, andato a prostrarsi sulla bara del boia iugoslavo.
Non basta, infatti, confrontarsi con la bestiale ferocia dei titini perché dev’essere ugualmente ricordato il modo con cui i comunisti italiani accolsero quei connazionali in fuga dalla barbarie slava: l’epiteto più gentile fu “banditi giuliani” e per loro non ci fu integrazione né solidarietà, ma il rifiuto a fornire qualsiasi ospitalità, qualsiasi soccorso e, a una fermata del loro treno alla stazione di Bologna, addirittura del latte per i loro bambini e neonati affamati.
Il caporione comunista Palmiro Togliatti, in un grottesco articolo sull’Unità, affermò che dal momento che quegli italiani fuggivano dal “paradiso dei lavoratori” iugoslavo e rifiutavano di abbracciare il comunismo, dovevano necessariamente essere considerati dei reietti, dei criminali, dei fascisti.
E non è tutto. Nel 1956 la Repubblica del 25 aprile, toccando il gradino più basso della dignità per uno Stato, equiparò per legge il servizio militare prestato nell’esercito iugoslavo a quello prestato nel regio esercito italiano. Come conseguenza, l’Italia iniziò a pagare 32.000 pensioni di guerra agli aguzzini che avevano torturato e infoibato i nostri fratelli. Gli assassini di migliaia di italiani ricevettero dalla Repubblica 18miliardi di lire ogni mese come ricompensa del loro turpe lavoro. Somme che, per effetto della reversibilità, l’INPS ha continuato, nel tempo, a pagare ai loro famigliari.
Detto ciò, è solo relegando le atrocità dei partigiani italiani e iugoslavi nel loro angolo di infamia che il ricordo di quelle terre e di quelle tragedie può fornire un ulteriore e più profondo insegnamento. Perché la barbarie comunista s’è sovrapposta e, in un certo senso, ha oscurato il drammatico capitolo e il peso del primo “Esodo ignorato” dei dalmati, che non c’entra nulla con fascisti e comunisti e che avvenne allorchè la Dalmazia fu annessa al Regno di Jugoslavia.
Scutari, Durazzo, Ragusa, Lissa, Spalato, solo per citarne alcuni, sono nomi di città dalmate che risalgono all’epoca romana e, nei secoli, quelle terre (come anche l’Istria di Fiume, Pola, Parenzo o Pisino) passarono attraverso il dominio bizantino e il Sacro Romano Impero, per centinaia di anni alla repubblica di Venezia e poi a Napoleone, fino all’Impero Austriaco, sempre conservando intatta una élite romanica che tramandava nei secoli la propria cultura, la propria lingua e la testimonianza del proprio passato.
Dopo la battaglia navale di Lissa del 1866, in Dalmazia come nel Trentino e nella Venezia Giulia tutto ciò che era italiano venne avversato dagli austriaci. Non potendo tedeschizzare quelle terre perché troppo lontane dall’Austria, venne favorita la cultura slava a danno di quella italiana. Nelle varie città dalmate a mano a mano l’amministrazione da italiana passò a croata e, nel breve volgere di pochi anni, vennero chiuse le scuole italiane e aperte quelle croate. Tutto questo avvenne in un clima di continue vessazioni da parte degli slavi i quali, a mano a mano che conquistavano il potere, procedevano alla sistematica eliminazione non solo della lingua italiana (nel 1909 la lingua italiana venne vietata in tutti gli edifici pubblici ed i dalmati italiani furono estromessi dalle amministrazioni comunali), ma delle stesse vestigia della storia e della civiltà di quelle terre.
Come accadde, ad esempio, a Sebenico quando nel 1921 gli slavi gettarono in mare il secolare leone di S. Marco in pietra, dopo che, alla fine della Prima guerra mondiale, in violazione dei patti precedentemente sottoscritti, su istigazione del presidente statunitense Woodrow Wilson, la Dalmazia venne annessa al neocostituito Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, con l’eccezione di Zara. Il Trattato di Versailles con la mancata cessione della Dalmazia all’Italia causò lo sconforto degli italiani dalmati che emigrarono a migliaia, fino a 50.000, mentre la comunità italiana rimasta in Dalmazia subì violenze e rappresaglie tali da rendere necessaria un’apposita convenzione tra il Regno d’Italia e quello iugoslavo per cercare di tutelare quella che era diventata la nostra minoranza etnica. Allo stesso tempo, l’Istria fu unita all’Italia nei limiti delle Alpi Giulie e ciò condusse all’incorporazione di una cospicua minoranza croata e slovena (circa 300.000), che al termine della Seconda guerra mondiale diede occasione alla Iugoslavia di rivendicare tutta l’Istria.
L’esodo dei dalmati dal 1918 al 1921 – che pochi ricordano – fu perciò la prima grande pulizia etnica effettuata in quelle terre, a dimostrazione che la persecuzione degli italiani è datata molto prima dell’avvento del fascismo e non è affatto una conseguenza delle, peraltro inesistenti, violenze perpetrate da quel regime in quelle terre.
Le tesi sostenute al riguardo dagli storici marxisti e slavi e da intellettuali alla Claudio Magris possono essere tranquillamente rispedite al mittente. E’ sufficiente incamminarsi sul lungomare di Trieste per rinvenire un edificio d’epoca fascista che reca in italiano e slavo la scritta “Casa del marinaio”, per contestare e smascherare tutta la fasulla vulgata circa la brutale opera di snazionalizzazione operata dal fascismo.
Al contrario, queste vicende sono di ammonimento per quel che riguarda le difficoltà di convivenza e di integrazione che incontrano comunità etniche differenti, seppure abituate per secoli a una forzata vicinanza e alla condivisione di un determinato territorio. Difficoltà esplose, dopo la disintegrazione della Jugoslavia, anche tra gli stessi slavi, tra serbi, croati e kosovari, che hanno determinato un feroce conflitto tra quelle popolazioni solo apparentemente omogenee.
Le identità riemerse dopo il crollo del regime comunista hanno, al contrario, confermato che le profonde differenze etniche, culturali e religiose, che erano state compresse per anni solo con la brutalità della dittatura, avevano mantenuto inalterato il loro potenziale aggregante e distintivo della varie comunità.
Questo insegna che le radici profonde dell’essere umano non possono essere eliminate, ma che il loro forzato contenimento e la loro negazione possono essere operate solo con la violenza della repressione e della tirannia.
Un ammonimento contro quanti parlano di società multietnica e vorrebbero farci colonizzare dagli africani e dalle loro culture tribali, con le mafie nigeriane, con le usanze di marocchini e tunisini, con l’islamismo di sudanesi e senegalesi, per ridurci in condizioni estreme di degrado e di scontro sociale tali da richiedere un inasprimento dei controlli e della repressione.
Sarebbe la creazione ideale di una società concentrazionaria, in cui i poteri forti e gli interessi di ristretti circoli elitari avrebbero ancor più mano libera a danno dei popoli europei ormai meticciati e infiacchiti.
Enrico Marino
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