Dagli altoparlanti di bordo arriva l’annuncio, atteso ormai da giorni: ‘Salperemo alle ore 16’. E’ il primo pomeriggio del 6 aprile 1945, dal mare interno, presso Mitajiri (località nei pressi della città di Hofu-shi, Giappone meridionale), ciò che resta della flotta imperiale nipponica – dieci navi in tutto – prende il largo direzione l’isola di Okinawa dove, dal 1 aprile, sono sbarcati gli americani e infuriano aspri combattimenti. Solo nel mese di giugno i marines avranno definitivo controllo del territorio dopo aver fiaccato ogni forma di resistenza dei cento mila soldati in sua difesa. E’ un viaggio di sola andata. Il carburante, racimolato dalle navi rimaste nella base militare di Kure (ormai la sua penuria impedisce perfino a diversi aerei di prendere il volo), basta solo per tentare di avvicinarsi alla flotta nemica e tentare di distrarne le operazioni d’attacco al suolo della Patria. Al centro della formazione in mare aperto l’orgoglio della marina imperiale, la Yamato, di 73.000 tonnellate di stazza, la più grande corrazzata della Seconda Guerra Mondiale, con le sue fiancate di colore argenteo e a prora il crisantemo, simbolo dell’Imperatore.
In origine Yamato indicava il territorio intorno all’antica città imperiale di Nara, ma rapidamente si caricò di un significato al contempo geografico – l’intero arcipelago del Giappone – e spirituale, la sua essenza quale luogo sacro ove regnava il figlio degli dei. Il poeta, romantico e studioso delle antiche e originarie forme di cultura nipponica, Norinaga Motoori (vissuto alla fine del ‘700) scrive versi divenuti presto celebri: ‘Se ti chiedono qual è lo spirito eterno del Giappone (Yamato), rispondi come esso è simile al fiore del ciliegio ai primi raggi di sole del mattino, puro chiaro carico di profumo’. Dunque, i fiori di ciliegio…
Uno dei pochi sopravvissuti, il guardiamarina Yoshida Mitsuro, ne ha raccontato la vicenda realizzando un libro definito, giustamente, ‘un grande classico della letteratura di guerra’, tradotto in italiano (Edizioni Piemme, 2002) con il titolo Addio ciliegi in fiore (in inglese l’asciutto Requiem for Battleship Yamato). Non è mio intento ripercorrere le drammatiche ore – la flotta giapponese verrà quasi del tutto distrutta il giorno successivo da attacchi ad ondate ininterrotte dell’aviazione USA. Varrà solo ricordare come il capitano di vascello Aruga chiese ad un ufficiale a lui sottoposto d’essere legato per essere sicuro di affondare con la sua nave e non correre il rischio, disonorevole, di trovarsi in acqua e d’istinto nuotare per mettersi in salvo. Mi preme, però, riportare un episodio dove l’anima del Giappone si esprime nella sua interezza.
‘Una voce grida: – Fiori di ciliegio! -. E’ un marinaio alla terza postazione di guardia. Ha rivolto il binocolo in dotazione alla vigilanza verso la costa; gli occhi incollati alle lenti, ha alzato la mano per l’eccitazione. Deve essere una varietà a fioritura precoce. Sgomitando per essere i primi della fila, afferriamo il binocolo, cercando di imprimerci nella retina l’immagine dei delicati boccioli, petalo per petalo. Radiosi e magnifici nella visuale sfocata del binocolo, ci incantano con il loro fremito incessante. Fiori di ciliegio, oh fiori di ciliegio del Giappone addio!’ (pag.25).
Tuttora, nonostante le forme più sguaiate di americanizzazione, il tentativo brutale di annichilire ogni aspetto di tradizione, la festa dell’Hanami – letteralmente ‘ammirare i fiori’ – è usanza che spinge milioni di giapponesi a recarsi a passeggiare nei viali dei parchi, ad esempio quello di Ueno a Tokio, e godere della fioritura del sakura – il ciliegio in primavera, tra la fine del mese di marzo a quello di giugno. Ed è tradizione fatta risalire al VII secolo quando, si narra, che un monaco piantò alberi di ciliegio sulle colline della città di Yoshino, maledì chiunque avesse tentato coglierne e, qui, vi si recava a trarne conforto dal colore e dai profumi l’imperatrice Jito.
(Gli amici, i camerati più prossimi, ma anche coloro che mi incontrano per strada a tarda primavera sanno che, sul braccio destro, in ideogrammi ho tatuato il motto dei samurai ‘fra i fiori il ciliegio, fra gli uomini il bushi’, cioè il guerriero che il termine samurai indica colui che si mette al servizio di un signore. Quando mio figlio Emanuele era ancora un bimbetto Elena e Mario gli regalarono alcuni fotogrammi tratti dal film I sette samurai di Akira Kurosawa e, in bella grafia, questo motto. Alcuni anni fa una amica di Latina e Katia, divenuta nel tempo esperta di tatuaggi, me ne vollero regalare uno. Ed eccomi, quindi, a fare del braccio un simbolo vivente… Ultima annotazione personale: nel 1983, trovandomi ad insegnare ad Artena, gli alunni mi portavano rametti di ciliegio in fiore).
Dunque, i fiori di ciliegio ad incarnare lo spirito più autentico del Giappone e questo spirito si identifica con l’essenza del Bushi-do, cioè la via del guerriero… Perché, fra tanti fiori, però, proprio quelli di ciliegio? La purezza la leggerezza la sincerità sono le sue caratteristiche… Il guerriero è colui che, in armi ma anche in qualsiasi atto della sua vita, nel minimale gesto della quotidianità, compie il proprio dovere – dovere verso il proprio signore, certo, ma in sintonia con lo spirito, la fiamma interiore che arde per elevarsi. E le cose si rivelano nella loro essenzialità giungendo nel cuore e nella mente (nell’hara, cioè il centro vitale, che spiega quell’hara-kiri, il tagliarsi il ventre, il seppuku, il suicidio rituale di cui lo scrittore Mishima Yukio fu esempio, 25 novembre 1970, spettacolare negli uffici del comando militare di Tokio). Ne fa altrettanto fede la poesia, l’haiku, composta da cinque-sette-cinque more, in tre versi di cui, nel corso dei secoli, si espressero monaci guerrieri (fra costoro il più noto rimane Matsuo Basho, vissuto nella seconda metà del ‘600, di cui un solo esempio: ‘Prati d’estate, – tutto quanto rimane – dei sogni di soldati’).
Onore fedeltà sacrificio. Come non ricordare, senza avventurarsi nello scorrere dei secoli, quei piloti-suicidi, noti con il nome di kami-kaze (‘vento divino’), che si avventarono, consapevoli d’andare a morte certa, con il loro apparecchio imbottito di esplosivo contro le navi americane. Accompagnati da un rito sobrio, una sorta di viatico alla partenza: una tazza di sake la sciarpa bianca al collo in una scatola la lettera ai familiari una ciocca di capelli un haiku di commiato (‘Se solo potessimo cadere – come i fiori di ciliegio a primavera – così puri così luminosi’).
Il 9 agosto del ’45 viene sganciata la seconda bomba atomica sulla città di Nagasaki, settantacinque mila tra morti e dispersi. Lo stesso giorno, simile a sciacallo sulla preda ormai stremata, l’Unione Sovietica dichiara guerra al Giappone per poi richiedere la sua parte di bottino al tavolo della pace. Alla radio, per evitare nuovi lutti e ancora sofferenze, l’annuncio della capitolazione. Il 15 agosto il vice ammiraglio Onishi Takijiro, colui che aveva ideato la tecnica dei piloti suicidi, nel solco della tradizione di sacrificio verso l’Imperatore, compie il seppuku dopo aver tentato di scongiurare l’ignominia della resa senza condizioni. Questo è il suo haiku di congedo: ‘Limpida e fresca, – ora splende la luna – dopo la spaventosa tempesta’ ( rasserenante è l’atmosfera, eterno il senso della natura nella capacità di rendere ordine alle cose, non vi è parola alcuna di tristezza, un verso disperato e d’abbandono. ‘Uno schianto, non con una lagna’, negli stessi giorni poetava Ezra Pound nella gabbia del campo di Coltano, ‘nuvole bianche sotto il cielo di Pisa’).
Questa la purezza e la leggerezza di cui gli uomini e le donne del Giappone si nutrono di fronte ai fiori di ciliegio, con essi confrontandosi (possedere un animo grande, l’equivalente latino della magnanimità), e, al contempo, come i loro petali, conoscere la fragilità il distacco la nientità di cui le cose belle sono denotate (‘Oggi è sbocciato – domani i suoi petali saranno dispersi al vento, – così è il fiore della nostra vita. – Come potrebbe la sua fragranza durare in eterno?’). S’intende bene, qui, come il vuoto, di cui si nutre la cultura orientale e il Giappone in particolare, tramite la dottrina del buddhismo Zen, ben poco, anzi nulla abbia a che fare con l’età del nichilismo di cui Nietzsche indicò l’avvento e ne tracciò le caratteristiche. I bassifondi dell’animo tanto cari a Freud e i suoi seguaci non trovano accoglienza…
Lo stesso Mishima, che s’era fatto notare con il suo primo romanzo fortemente autobiografico Confessione di una maschera, inteso e lodato dai critici (solitamente arroganti e stolidi, cioè stronzi) come estrema e morbosa scrittura a sfondo di perversione psico-analitica, riscatta se stesso con i suoi scritti ultimi e il suo gesto così apparentemente feroce e barbaro. Come scrive Lydia Origlia: ‘Per ritrovare – purezza, ardimento, gioventù – doveva liberare dai vincoli e dalle barriere del corpo l’elemento prezioso e imperituro che esso racchiude, lo spirito, affinchè rifulgesse come quello degli antichi eroi di fronte alle nuove generazioni di giapponesi – nella fervida speranza che possiate risorgere come uomini e come guerrieri -, come urla dal balcone della caserma del Corpo di difesa nazionale, prima di affondarsi nel ventre la lama d’acciaio’.
Infine, s’è detto, la sincerità (l’ideogramma che la indica è un segno a rappresentare una bocca, da cui le parole escono a forma di tratti orizzontali, come ci ricordava l’altra sera il professore e amico Mario Polia), il rispetto della parola data che un tempo era il valore primo anche nella cultura occidentale quando le parole erano simili a fendenti di spada, ma, come constatava amaramente lo scrittore francese Drieu la Rochelle, gli uomini non possiedono più la spada…
Mario Michele Merlino