di Mario M. Merlino
Ieri sera sono stato a cena in un ristorante con annesso maneggio di cavalli, un ristorante di classe con una serie di antipasti e primi piatti raffinati, con clienti di classe in una zona di Roma anch’essa di classe. Insomma tutto il contrario di quel Fascismo ‘immenso e rosso’, di quell’ Italia proletaria e fascista’ di cui parlava il Duce a metà degli anni Trenta e che riprende nel momento in cui annuncia l’entrata in guerra, il 10 giugno del ‘40. Insieme ad amici e camerati affettuosi ospitali intelligenti, con cui ho condiviso parte della mia giovinezza, straordinaria e irrequieta, mai negoziabile nei gesti d’allora né nella memoria.
Ed io, si sa, mi sento prossimo a questo Fascismo, che non è soltanto mani callose ascelle sudate canottiere sdrucite sigarette senza filtro sfilatini con frittata e broccoletti. Certo è il Fascismo dello squadrismo anni Venti forse un po’ becero, dichiaratamente violento, manganello olio di ricino pugnale e bombe a mano, provinciale d’estrazione e forse in prospettiva, con i BL 18 sulle strade sterrate e tutte sassi, a sfidare le città cominciando con l’ammainare le bandiere rosse dai municipi e facendo roghi in piazza con le suppellettili delle sezioni socialiste e popolari. Marcello Gallian, il suo romanzo Il soldato postumo. E’ il Fascismo di Berto Ricci che realizza una delle riviste più interessanti e radicali del Ventennio, L’Universale, e ai sette invitati al suo matrimonio può offrire soltanto un cappuccino in piedi davanti al bancone del bar.
Insomma quel Fascismo, a me ben caro e a cui accompagno una certa irriverenza libertaria senza avvertire eventuali contraddizioni anzi, direi, considerando il suo percorso il più originariamente autentico e carico di molteplici doni per l’avvenire. Certo esso non possiede alcun bagaglio dottrinario, opere o saggi, e neppure chi ne condivida i termini del suo essere fino a negarne l’esistenza storica. (Di questo ne ho fatto una serie di interventi, mi pare sei, che sono stati l’esordio prepotente con gli amici di Ereticamente).
Il tavolo troppo lungo, il vociare di troppa gente mi hanno impedito entrare nella discussione che si è aperta tra Stefano e Mario se l’identità sia una proposizione propositiva (si è perché si è qualcosa e per qualcosa) oppure possa darsi anche per negazione (ciò che non m’aggrada ciò in cui non mi riconosco mi fa sentire prossimo a chi condivide questa avversione questa diversità). Nel cielo dei filosofi lo scontro è tra l’Essere e il Nulla…
Ed è stato (apparentemente) facile – conosco l’incalzare di Stefano, la forza dialettica con cui riesce ad imporre il suo punto di vista, il prendere l’altro per stanchezza e (si incazza quando glielo dico) seguendo una strategia, più che del metodo socratico il suo riferimento mi sembra essere lo spirito ‘giacobino’ della ghigliottina. La cultura dell’Occidente è figlia di Platone ed Aristotele, di quel volo notturno dell’uccello di Athena come lo definiva Hegel, anche lui della medesima partita, dove l’avversario è costretto ad inchinarsi e mostrare la gola (come fa il lupo battuto dal capo-branco) di fronte alla visione unitaria e granitica di cui la dea Ragione fa salda guardia.
(Berlusconi era il banale oggetto del contendere a cui Mario, in spirito anticomunista, ne riconosceva il tratto ‘simpatico’. Che libidine entrare a scuola, m’è apparsa l’immagine plastica e luciferina, dopo l’esito delle elezioni e vedere i volti sfatti le occhiaie il colorito giallognolo e fegatoso dei miei ‘colleghi’ che, tronfi arroganti sicuri e protetti dall’ideologia, la fede non si discute è dogma, prima delle elezioni annunciavano di scavare la fossa al Cavaliere. E, a scanso equivoci, con cui ho da condividere solo la ‘dentiera’ e l’amore immarcescente per le donne!).
Eppure – senza scomodare quelli della ‘mia’ parte (dai sofisti agli scettici, da Nietzsche ad Heidegger, passando per l’Unico di Stirner) – m’è venuto a mente l’arenile di Romagna, ampio sabbioso con l’acqua che pigra lo lambisce, dove si costruiva un montarozzo di sabbia bianca e fine e uno stecco al centro. Il gioco della ‘polenta’, lo si chiamava. Ed ognuno di noi ne staccava una manata fino a pagar penitenza chi lo faceva cadere. Così è l’Essere che si erge orgoglioso e sicuro, ma il cui fondamento è il nostro esperire quotidiano, il prezzo che dobbiamo pagare alla Geworfenheit, quell’essere gettati a caso nel mondo (liquidato da Julius Evola nell’ultima pagina di Cavalcare la tigre con poche aristocratiche righe), tutti, chi pigri accettando chi titani correndo incontro al proprio destino. Noi, granelli di sabbia, vittime dell’inesorabilità del tempo e delle circostanze, destinati a sparire e lasciare sovente una traccia fasulla del nostro passaggio o, più spesso, rapidamente inghiottiti dalla dimenticanza. Noi, eppure e appunto, senza di noi (nelle Upanishad l’atman si confonde con il brahma) come potrebbe l’Essere reggersi e dominare il gioco crudele delle nostre finite esistenze?