7 Ottobre 2024
Società

L’estinzione dei figli – Roberto Pecchioli

La nostra società è in estinzione ma non lo sa, o meglio non lo vuole sapere. Come lo struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia per non vedere. Un esempio è l’Agenda 2030 dell’ONU che dietro le belle parole e la confezione accattivante, è profondamente antinatalista e antiumana. A partire da un’espressione terribile della neolingua, le parole invertite del mondo senza verità: salute riproduttiva, sinonimo di aborto. Bugia pura: la gravidanza non è una malattia e la sua interruzione non ha nulla di riproduttivo.

 L’Occidente si suicida gaiamente tentando di imporre le sue follie di malato terminale al resto del mondo. Nel cielo plumbeo di fine civiltà – l’immigrazione massiccia non salverà l’infermo ma ne affretterà il trapasso – c’è bisogno di oasi, di ritrovare speranza, fiducia, per non soccombere o rinchiudersi in se stessi. Peregrinando in rete da assetati in cerca di una fontana, accogliamo con piacere l’uscita di alcuni libri controcorrente, due negli Stati Uniti, epicentro del terremoto esistenziale, l’altro in Spagna, ex bastione della famiglia. Richiamano la speranza, l’ardua scommessa di sposarsi, avere figli, lottare per il futuro. Analizzano il problema più grave del presente, che racchiude in sé tutti gli altri, il crollo della natalità, l’inverno demografico con tutti i disastri che ne derivano, insieme al basso tasso di matrimoni e all’instabilità familiare.

Quando si installa il nulla, si preferisce il non essere all’essere. Questa è tesi de La extinciòn de los hijos, l’estinzione dei figli, di José Ignacio Leániz, un titolo che è un pugno nello stomaco. Il sottotitolo, richiamato dall’ immagine di copertina, è Il ritorno del pifferaio di Hamelin. La fiaba dei fratelli Grimm narra di un uomo che, al suono del piffero, libera una città infestata dai topi. Poiché il borgomastro non lo paga, per vendetta riesce a farsi seguire dai bambini della città, incantati dalla musica, a cui fa fare la stessa fine dei ratti. Una metafora assai chiara.

Per millenni la nascita dei bambini è stata accolta con gioia e feste. È stato il XX secolo a cambiare tutto. Quando si preferisce l’assenza all’essere, subentra il nichilismo: padroni del nostro destino con vista sul nulla. La maggioranza dei giovani non solo non ha intenzione di sposarsi e costruire un progetto di coppia, ma rigetta con orrore la possibilità di avere figli. Troppe responsabilità, la perdita del tipo di libertà proposto dal pensiero dominante, il timore verso qualsiasi relazione definitiva: si è genitori per sempre. Esiste una tendenza femminile detta child-free, ovvero la vita “libera” dai bambini. I potenziali padri non proferiscono verbo: irresponsabilità più indifferenza. Non importa più la continuità della stirpe, simboleggiata dall’orgoglio per la trasmissione del cognome. Che cosa è successo per aver smesso di pensare che ogni vita umana è un dono sino a preferire cani e gatti ai bambini? Che cosa spinge i giovani a non desiderare più di sposarsi? Che cosa fa considerare i figli un peso, oltreché un pericolo per l’ambiente? L’aborto diventa un diritto universale con l’applauso maschile. È un sinistro segnale della fine. Eppure, ci conviviamo, ci siamo abituati senza opposizione. Il dibattito è chiuso nel silenzio. A ciò si accompagna la visione dell’essere umano come nemico di Gaia, il nome animista della Terra: le persone umane sono una minaccia per il pianeta. All’armamentario antinatalista si affianca l’apocalisse climatica. Meglio astenersi dalla procreazione, come i Catari medievali per i quali il sesso era la trappola dello spirito tesa da un Dio malvagio.

Sostituiamo i bambini con gli animali domestici, evitiamo il volto degli altri umani. Un elemento significativo su cui poco si riflette è che generalmente gli animali trattati come figli sostituitivi, umanizzati e coccolati, non ci sopravvivono. Un altro elemento innaturale. La maggior parte dei giovani non ha fratelli. Come possiamo sorprenderci che non vi sia solidarietà, condivisione, comunità, se non l’hanno mai sperimentata? Chissà se una Rivoluzione Francese contemporanea proclamerebbe la fraternità in un orizzonte di figli unici, di nemici reciproci in competizione permanente. Stiamo anche diventando una società senza nonni. Domani chi vive senza figli perderà anche questa esperienza. Il numero dei componenti dei nuclei familiari crolla mentre la statistica considera “nucleo” anche l’esercito crescente dei solitari. Nessuno ci chiuderà gli occhi, o semplicemente si interesserà della nostra esistenza. Basta un giro tra i banchi del supermercato per verificare il cambiamento: sempre più monoporzioni per gente sola con animali al guinzaglio. Si estendono i corridoi dei prodotti per animali, si restringe lo spazio degli alimenti per l’infanzia.

Quest’arsura dell’anima è ancorata a una vita senza fede – non solo religiosa – senza speranza, senza scommessa sul futuro, di cui abbiamo una visione cupa, angosciante. La crisi della figura del padre è legata alla perdita dell’idea del Dio cristiano. Le chiavi della ripresa della natalità si trovano nelle convinzioni esistenziali perdute. I figli sono proiezione nel domani, fiducia. Senza il recupero di un senso della vita orientato al futuro, alla trasmissione, all’ottimismo – tanto potente nei popoli mediterranei sino a pochi decenni fa – non si hanno eredi. Non rinasce la società se non cambiano le idee di fondo. Il messaggio si rafforza nei due libri americani, di taglio sociologico. I bambini di Hanna, le donne sfidano la denatalità di Catherine R. Pakaluk è la storia di madri con molti figli. La normalità nelle società tradizionali, un’eccezione derisa e ignorata oggi. L’approccio di Palakuk è innovativo: non si concentra sulle misure economiche di contrasto alla natalità, ma sui motivi profondi che inducono alcuni ad avere una prole numerosa. La questione è: come sono visti oggi la vita umana e i bambini? Il testo contiene interviste approfondite a decine di donne con almeno cinque figli, un segmento residuale di popolazione (negli Usa meno del 5 per cento) L’obiettivo è scoprire che cosa anima la testa e il cuore di queste donne in controtendenza. I denominatori comuni di persone delle più diverse origini, classi sociali e confessioni religiose sono: credere che un figlio sia sempre un dono; che i figli diano senso e scopo alla vita molto più di ogni altra cosa (lavoro, carriera, denaro); fede e pratica religiosa. Il quarto elemento è la fiducia nel coniuge: non c’è paura dell’abbandono o del divorzio, ci si fida del marito a prescindere dalla distribuzione dei compiti o da chi porta i soldi a casa. Un inno alla solidarietà, alla maternità (e alla paternità) paradossalmente condiviso dalle ultime idee di una femminista atea e lesbica, Camille Paglia, autrice del famoso Sexual Personae. La Paglia ha di recente rivalutato la scelta della maternità e preso atto che per moltissime donne – specie delle classi popolari – il lavoro inteso come realizzazione non è una priorità.

Get married (Sposarsi); perché gli americani devono sfidare le élite; formare nuove famiglie e salvare la civiltà di Brad Wilcox analizza i matrimoni stabili, una rarità negli Usa dove oltre un matrimonio su due finisce con il divorzio. La stabilità coniugale è l’elemento che influenza in maniera decisiva il percorso dei figli. Wilcox identifica quattro profili tra coloro che mantengono matrimoni stabili: le persone che hanno valori politici e sociali conservatori; i religiosi praticanti; quelli che chiama tosti, combattivi (strivers), con un’istruzione superiore e buone risorse economiche ; infine gli americani di origine asiatica poiché riuniscono una solida coesione ed etica familiare (grande solidarietà intergenerazionale con cura reciproca e presenza dei nonni), dedizione alle nuove generazioni, nonché una forte attenzione ai figli nello studio e nei valori esistenziali. Wilcox esamina il cambiamento di mentalità avvenuto dagli anni Settanta agli anni Ottanta; il passaggio dal noi all’io; il sabotaggio dell’istituzione chiave di ogni società che cerca di sopravvivere, il matrimonio; la diffusione di una serie di idee – in gran parte alto borghesi – dimostratesi false e perniciose. Il primo mito negativo era che il matrimonio non fosse affatto vantaggioso per la stragrande maggioranza delle donne e degli uomini. Da soli si vive meglio: si è più ricchi, si ha una migliore proiezione professionale e una maggiore soddisfazione di vita. I fatti ne hanno dimostrato la falsità. L’ avversione al matrimonio e l’idealizzazione del single si spiega anche con la paura del divorzio di molti uomini, timorosi di rimanere senza nulla, nonché con l’assioma femminista “noi donne possiamo cavarcela perfettamente”. Gli uomini sono il nemico e la vita professionale (le carriere, il successo che alla fine riguarda piccole minoranze, uomini o donne) è ciò che veramente “realizza”, non la relazione con chi amiamo e ci ama.

La stessa conclusione – nonostante la distanza ideale – della Paglia e di Nancy Fraser, altra femminista parzialmente tornata sui suoi passi. Il secondo mito è costituito dai modelli familiari in cui la passione e il denaro sono gli elementi costitutivi del rapporto e non la stabilità di un matrimonio fondato sull’ impegno reciproco tendenzialmente definitivo. Il terzo si riferisce all’idea di un’anima gemella e di un amore il cui percorso è determinato dal sentimentalismo (“purché tu mi renda felice”). Un armamentario di storie immaginarie e reali per insegnare che si ama autenticamente “sentendo farfalle nello stomaco”, un’adolescenza interminabile a cui non segue la maturità. Il risultato sono aspettative eccessive, incapacità di affrontare le difficoltà, il disincanto che rende il divorzio e l’abbandono le sole vie d’uscita, seguiti dall’amarezza e dalla sfiducia in nuovi rapporti. Su quelle fragili basi è ovvia la crisi del matrimonio, la scelta di non avere figli e, quando ci sono, il rischio di farli diventare la posta di guerre infinite. I pilastri su cui ricostruire sono anteporre noi a “io”, ciò che è condiviso al sé, assai difficile in un’epoca di egolatria, narcisismo, conti separati, pignola contabilità del dare e dell’avere. Riconoscere che la paternità e la maternità non sono trappole per la felicità, ma aggiungono significato e scopo alla vita (come dichiarano le donne interrogate dalla Pakaluk), senza la pretesa di essere genitori ideali o di avere figli perfetti. Un ulteriore pilastro è impegnarsi nel rapporto, trasformando la fedeltà e la lealtà in valori vissuti concretamente. Un altro è restituire agli uomini il ruolo di protezione, responsabilità e indirizzo familiare. Infine, anche per Wilcox la fede e la pratica religiosa aiutano la stabilità coniugale e familiare.

Buon senso comune: la storia dei nostri genitori e dei nostri nonni. Il problema è che occorre una rivoluzione, o meglio una controrivoluzione. Di valori, principi, prospettive. Assai improbabile, nel deserto illuminato da luci che accecano e poi lasciano al buio. Però non c’è altra soluzione. Non si risolvono i problemi con le mentalità che li hanno prodotti. La crisi della famiglia, il crollo dell’istituto familiare non potevano che determinare denatalità e disagio esistenziale per i pochi che vengono al mondo. L’estinzione dei figli non si cura con le provvidenze economiche, pur necessarie. O rivoltiamo come un calzino questa società – il Titanic che naufraga mentre l’orchestra suona e i passeggeri danzano – o l’estinzione dei figli sarà la logica conseguenza del male di vivere. Ricominciare daccapo: madre, padre, figli, famiglia, comunità. La vita.

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6 Comments

  • Louis 30 Giugno 2024

    Hanno deciso la nostra estinzione. Punto.
    Lo dichiarano con evidenza che noi uomini bianchi etero siamo il Male Assoluto, l’ostacolo principale per una società “realmente liberale, tollerante, inclusiva”
    D’altronde gli stessi (e le stesse) che ci propinano l’aborto e il diniego della maternità come la più alta forma di emancipazione femminile, sono in prima fila a perorare l’arrivo di ingenti flussi di africani con le loro famiglie numerose – proprio quel tipo di famiglia da loro tanto esacerbata – perché essi ci dicono che siamo vecchi e non facciamo più figli…Chissà come mai!
    C’è da aggiungere una cosa, che so sarà urticante, ma va detta.
    Il pensiero femminista ha ormai attecchito in special modo anche nelle forme più estreme, immaginabili fino a qualche tempo fa.
    Per la donna occidentale odierna la gravidanza ha la stessa equivalenza di uno stupro, l’utero ha l’equivalenza di un cancro, la maternità e la famiglia l’equivalente della schiavitù per i negri.
    Questo è il pensiero della maggioranza delle donne in Occidente, in special modo tra le giovani generazioni – quelle più traviate dal pensiero femminista – e credo che neanche se si soddisfa le loro pretese economiche si può sperare di invertire la natalità, nella mentalità moderna un bambino (specie bianco) è il riflesso del male, della violenza, del “patriarcato” e di tutto ciò che avrebbe contribuito alla “sopraffazione” della donna.
    Un pensiero aberrante e osceno ma che è riuscito ad avere successo camuffandolo da fine nobile, come appunto un viatico per “la liberazione” e “l’emancipazione” della donna ed in nome di ciò si sta relativizzando l’infanticidio, a non condannarlo in maniera netta, perché la donna infanticida e pur sempre vittima anch’egli del patriarcato “strutturale” mega ipergalattico.
    Non sto esagerando, basta farsi un giro nei social (Dove a volte esplicitamente lo si giustifica e lo si applaude, sempre in nome della “liberazione”)
    Quindi bisogna dirlo, io credo che la maggior parte delle donne in Occidente, in particolare le più giovani abbiano in testa il pensiero di risolvere il problema coi maschi con una vera e propria Soluzione Finale.
    Sì, Per Soluzione Finale intendo proprio quello.
    D’altronde pensateci bene, dopo “millenni di sopraffazione” si accontenterebbero di una semplice lezione di educazione affettiva nelle scuole?
    Meditate, gente.

    • Alessandro 20 Settembre 2024

      A parte la conclusione apocalittica, che mi sembra esagerata, per il resto condivido pienamente e mi fa sempre piacere constatare che ci sono ancora persone che ragionano con la propria testa e non si fanno plagiare dalla propaganda di destra o di sinistra. A quello che scrivi e all’articolo, che tocca punti importanti, aggiungo che per fare figli occorre sposarsi, cosa che oggi, nella società ultrafemminista occidentale, equivale a mettersi un cappio al collo in attesa che qualcuna, non necessariamente la propria consorte, lo stringa. come si può pensare a fare figli quando basta una telefonata alle tante agenzie femministe sparse nel territorio, per buttarti fuori di casa, perdere figli e tutto il resto? Si preferisce non giocare d’azzardo, e credo sia la scelta migliore. Quando scrivo che defemministizzare l’Occidente è il non plus ultra della rinascita, non lo scrivo a vanvera. Certo la propaganda, neppure di “destra, ce lo dice, bisogna arrivarci da soli, il che è sempre difficile in una società che ama essere imboccata di tutto.
      In ultimo, come riportato giustamente nell’articolo, siamo una società depressa, arrabbiata, egocentrica (lo è diventata gradualmente sempre più negli ultimi trent’anni), e una società così non fa figli, perchè, anche se inconsciamente, non crede più nel futuro. Chi tira fuori, per spiegare la denatalità, solo questioni economiche, che pure non sono da sottovalutare, ci sta prendendo in giro o non sa di cosa parla. La società dei trenta gloriosi, fino a ttti gli anni Ottanta, era mediamente povera ma speranzosa, attiva, “felice” e senza la zavorra femminista. Il baby boom venne di conseguenza.

      • Alessandro 20 Settembre 2024

        Non “non plus ultra” ma “sine qua non”.

        • Louis 21 Settembre 2024

          Ringrazio per l’apprezzamento caro Alessandro, anche se la conclusione “apocalittica”, purtroppo temo che non sia esagerata. Basti pensare allo spettacolo osceno messo in piedi sul delitto di Giulia Cecchettin, a cui i media hanno rilanciato e fatta propria la dichiarazione allucinante della sorella, che “ogni uomo dovrebbe fare mea culpa anche chi non ha mai torto un capello, in quanto ogni uomo ha mancato di rispetto alla donna, in quanto donna”. Per me questa frase è alla base di ogni totalitarismo genocida, di ogni totalitarismo che ci hanno insegnato, deprecandoli. Perché quella frase indica la colpa collettiva, la colpa di QUELLO CHE SEI, la colpa di far parte di un supposto “privilegio” (Che per ironico contrappasso era una delle cose che i nazisti addossano agli ebrei…), la colpa data in base alla soggettività, sei uno stupratore e un “femminicida” magari perché guardi per qualche secondo le chiappe sode di qualche cerbiatta.
          Lo scorso anno, questo è passato dai media, rilanciato dalle Istituzioni (anche da esponenti del governo “più a destra di sempre”). Abbiamo avuto eunuchi viscidi perorare l’autoflagellazione collettiva:
          https://www.google.com/url?sa=t&source=web&rct=j&opi=89978449&url=https://www.lastampa.it/spettacoli/2023/11/20/news/da_piero_pelu_a_mrrain_sui_social_la_vergogna_degli_uomini_per_i_femminicidi_siamo_tutti_da_rifare-13874658/&ved=2ahUKEwj46f2n-tOIAxVzgv0HHdwsJSUQFnoECC4QAQ&usg=AOvVaw0p4WhkXO-_1zpjbBE_GLcn
          Di fronte a una propaganda del genere, è inevitabile che un bel pò di donne suggestionabili possano interiorizzare nel loro inconscio un terrore nel confronto del maschio e l’idea che un mondo senza maschi sarebbe la loro soluzione alla loro infelicità, alla loro sicurezza, alle loro paranoie e che sia un viatico per la loro libertà e l’emancipazione. Una soluzione finale. E sono cose che ho letto e sentito in rete, e non è per loro un’idea peregrina. Anzi.
          Stessa cosa per i neri, per lo spettacolo osceno, questa volta a livello planetario, messo in piedi dai BLM. E anche i neri pregustano vendette finali sull’uomo bianco dopo “millenni di sofferenze”…
          Quindi non credo di esagerare. Spererei di esagerare.
          Non è così

  • ELETTRA BIANCHI 30 Giugno 2024

    per conto mio la decimazione dell’Occidente culturale e civile è dovuta alla dittatura delle filosofie idealistiche ( Hegel nella traduzione marxista) e nichiliste (esistenzialismo, fenomenologia) che dal pensiero debole, al pensiero unico, al non pensiero sono arrivate alla ” cancel culture” ossia all’ignoranza totale e assoluta imposta per legge. In questo modo l’uomo sarà stabilmente e in maniera sicura usato come oggetto, schiavo e cavia di ogni deviazione mentale dei ” padroni”. Il nuovo serpente scende ancora dall’albero più allettante per distruggere un’umanità debole e sciatta che non si sa sottrarre alle lusinghe di truffe diaboliche.

    • Nemo 20 Settembre 2024

      Elettra, sarebbe vero se la popolazione non fosse analfabeta. Secondo me più semplicemente la “decimazione” dipende dal fatto che alla fine degli Anni Sessanta si è introdotta la Classe dei Giovani e da li in poi la vita si arresta nella prima gioventù, nessuno diventa mai adulto, uomini e donne. Sull’Isola Che Non C’è siamo tutti Bambini Perduti e quindi non possiamo essere anche padri e madri, non possiamo essere cittadini ne niente altro, rimaniamo bloccati allo stato larvale.

      Non sono d’accordo su questo passaggio: “L’Occidente si suicida gaiamente tentando di imporre le sue follie di malato terminale al resto del mondo”. Per prima cosa lo “Occidente” non ha coscienza e quindi non impone nulla. Lo stesso meccanismo che ha piallato le coscienze “occidentali” piallerà progressivamente l’intera Umanità con la semplice promessa del “godere”. La somma tra la ineducazione o diseducazione e la promessa del “godere” rende meccanicamente inevitabile la conclusione. Tutto quello che deve fare la Massoneria Apolide per realizzar il progetto del Mondo Nuovo è esporre quanta più gente possibile alla promessa del “godere”. Una cosa che è diventata progressivamente sempre più facile con il progresso tecnologico dei “media”. Il fatto di essere tutti collegati in ogni momento alla Biblioteca di Alessandria non fabbrica milioni di filosofi, fabbrica milioni di segaioli che non vanno a leggere tomi di matematica, vanno a guardare tette e culi oppure automobili e gattini. In “Occidente” mettiamo lo scemofono in mano ai bambini delle elementari.

      “Occorre una rivoluzione”. Bah, non ci sono più uomini e donne, ci sono solo bambini. La “rivoluzione” non è nemmeno immaginabile. Quindi direi che ci possiamo mettere una pietra sopra. Viviamo come gli Antichi in un’epoca di decadenza che introdurrà dei cambiamenti. Mi fa anche ridere questa idea strisciante che il “selvaggio”, una volta idealizzato come privo di astuzie maligne, buono per natura in quanto semplice, oggi sia visto da certi nostalgici come “vendicatore”. Come se il tagliatore di teste islamico o il troglodita sdentato delle pianure desolate in Asia ci potesse vendicare della morte e putrefazione dell’Occidente. Quando tanto uno che l’altro non vogliono che le stesse cose che abbiamo voluto noi, la casa col bagno e l’acqua calda, la fettina di carne tutti i giorni, la TV e la lavatrice, l’automobile e soprattutto la fica nel quadro della famosa “liberazione sessuale”. Va bene essere decadenti ma cerchiamo di decadere con stile, non pateticamente.

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