Mio caro Neostato,
nella tua ultima lettera ti lamenti di “non saper dare un senso alla vita”. È una lagnanza comune. Tuttavia, io penso sia più giusto ‘trovare’ un senso che darlo. Non è un dettaglio da poco. Se vuoi dare un senso alla vita è perché ritieni ne sia priva. In tal caso le puoi dare un senso secondo i tuoi gusti. È questo che di solito si fa.
Ma la vita, se tu le dai un senso, te lo rende, come un’eco, moltiplicato. Inoltre, possiamo dare solo ciò che possediamo, poco o tanto che sia. Trovare un senso significa invece ricevere qualcosa. Non sei tu che dai un senso alla vita ma è lei che lo dà a te.
Caro nipote, non credere che io sia esperto in tale materia. In realtà mi ci raccapezzo poco. Si suppone che un vecchio debba essere più saggio di un giovane. Ma il tempo è solo un senso che noi diamo alle cose! In realtà, la vita mi sembra un libro di cui ho letto solo poche pagine, e senza cavarne grandi lumi.
Molti punti sono per me indecifrabili. Abbondano le espressioni oscure o assurde; qua e là cancellature, macchie, errori di stampa, pagine strappate, rimandi ad altri introvabili testi. Tanto che spesso rinuncio a capire e mi limito come un bimbo a guardarne le immagini.
Tu dici che l’esperienza e la ragione, insieme, bastano per dare un senso alla nostra esistenza. Io credo invece sia necessaria un’intelligenza mistica, e che non possa esistere alcuna comprensione empirica o razionale di sé stessi. Tu ti affidi ai dati, io ai valori ideali. Tu alla lettera, io allo spirito.
Rimproveri al Creatore d’aver fuso nell’uomo spirito e natura. Questa ibridazione sarebbe secondo te un errore, causa del continuo conflitto tra bisogni del corpo e aspirazioni della mente. La macchina, dici, risolve il problema alla radice, eliminando sia la natura che lo spirito. Non è libera, ma non lo sa. Non può amare, ma non ne ha bisogno. Non ha obblighi morali. E neppure sente la necessità di dare un senso alla sua esistenza.
Quindi, esser macchine sarebbe preferibile alla condizione umana. E pensi che Dio, se voleva dagli uomini fede, ubbidienza, amore, adorazione, o la loro felicità, doveva farne degli automi. Ma, caro nipote, tutti i pensieri, gli atti e i sentimenti di questi ‘cosi’ meccanici sarebbero stati solo una simulazione di vita. Qualcosa che piace non a Dio ma al suo Nemico.
Io non so come fui creato, da dove mi vengano la coscienza, la gioia, il dolore etc. L’essere è un Non so che, una presenza nota e ignota, qualcosa di vicino e lontano, totalmente altro e totalmente me, logico e paradossale. Perciò è tanto difficile trovarne il senso.
Caro nipote, per trovare un senso alla nostra vita bisogna applicare l’ermeneutica a quel che ci accade, passando dal senso letterale a quello figurato, dal morale allo spirituale. Se un bambino piange, ti basta forse conoscer la chimica o la fisiologia del fenomeno? Quelle lacrime ti rivelano il dolore di un’anima e, se scavi, ti insegneranno qualcosa del dolore del mondo. Quel pianto ti dice anche che puoi e anzi devi far qualcosa per consolarlo.
I fatti sono allegorie e, come quelle, han settanta significati. La vita è una trama di presagi e misteriosi ammonimenti su cui esercitare la nostra esegesi. Bisogna decifrarla, sciogliere la densità dei simboli e delle allusioni. Non chiedermi come. I metodi, seguiti alla lettera, portan sempre fuori strada. Il senso lo trovi errando, ossia tra i tuoi errori, tra pazienti attese. Se vuoi contemplare la nudità di Salomé, devi aspettare che la danza finisca, non accontentarti di veder cadere il primo velo.
So che sei ostile al parlar metaforico e poco propenso a credere che «rimosso il guscio esterno di un’ingannevole apparenza, il lettore trova all’interno, come in segreto, un più dolce nucleo di verità». Tu vuoi attenerti ai fatti, e io son d’accordo. Non dubito che il senso si trovi nei fatti, come l’oro calato in uno stampo. È una sorta di essenza, di midollo che penetra fin nelle cose più umili.
Tu credi invece che il fatto sia l’unica verità e che il resto sia aggiunta estetica, postilla poetica. Quel che ti preme è un’esegesi scientifica della realtà. Per te la vita incorpora una serie di dati fisici, storici, psicologici etc. nei quali si esaurisce. Le resta solo il suo senso letterale, che un buon vocabolario, una grammatica, una sintassi, possono spiegare. Non è qualcosa che si accenni o si insinui, ma da analizzare e spiegare razionalmente.
Non voglio difendere lo spirito contro la lettera. Credo che uno abbia bisogno dell’altra, come il corpo dell’anima e viceversa. Son convinto che un fatto senza significato o un ideale che non si incarni in un fatto, siano pure astrazioni. D’altro canto, la realtà che li comprende entrambi non è la loro somma. Unendosi generano infatti qualcosa che li trascende. È un fondo che nessun scandaglio fondamentalista o filologico può misurare.
Credo non esista alcun “nudo fatto”, solo segni che vanno interpretati, come lettere cui van tolti i sigilli. Ma mi pare impossibile cogliere il senso con metodi storici e sperimentali, come oggi si fa, senza capire che ciò che leggiamo è l’estrema propaggine di una realtà metafisica. Tutto oggi viene spinto a forza nella categoria del fatto: cause fisiche, ragioni storiche, motivazioni psicologiche, disegni politici ed economici, valori morali e spirituali etc.
Così, anche noi diventiamo una stratificazione di cose, poste su diversi livelli conoscibili e ponderabili, come depositi calcarei, sedimentazione di eventi biologici o mentali. La nostra vita perde ogni dignità simbolica. Il simbolo stesso non apre più una finestra sull’infinito ma si chiude nella dimensione del fatto culturale. Crediamo di camminare sulla concretezza dei dati, e non vediamo il magma mobile e infuocato di mistero su cui poggia, sempre instabile, la crosta delle nostre conoscenze ‘scientifiche’ e ‘obiettive’.
Basterebbe raschiare un po’ di quella terra apparentemente solida, quel primo strato di lemmi e di grammatica, per vederlo disperdersi in nuvole di polvere. Vedremmo che perfino il vocabolario che usiamo è ambiguo, pieno di equivoci e sottintesi. Una parola per me ha un certo significato, in te ne evoca un altro. Crediamo di riferirci a realtà precise e univoche, ma cosa siano queste realtà non lo sappiamo.
Si parla come se si sapesse. È un’arte che si trasmette di generazione in generazione. Siamo attori buttati ex abrupto sulla scena del mondo, in un bailamme di parole, con il costume d’uno strano personaggio cucito addosso, presi in una recita di cui non capiamo il senso. È naturale restar confusi, disorientati. Ci si affida dunque alle scuole, alle tradizioni, pensando – ma è un’illusione – che l’esperienza insegni sempre qualcosa.
Almeno un tempo eran tradizioni millenarie. Giacimenti nei quali potevi trovare, frammisti alle scorie, metalli preziosi. Oggi le tradizioni spuntano come funghi, e come nascono, rapidamente muoiono. Ogni giorno qualcuno si improvvisa mentore e maestro, e ci soffia nel cervello il fumo di nuove dottrine. Si buttan via venerabili insegnamenti per sostituirli con effimere mode. In ogni caso, caro nipote, tu diffida di ogni tradizione.
Tradizione vien infatti da tradire, che significa consegnare. Giuda ha fatto del tradire qualcosa di spregevole e odioso. Ma v’è un tradimento apparentemente rispettabile di cui tutti ci macchiamo. È il tradire la libertà della nostra coscienza, consegnandola al passato, ai suoi dogmi e ai suoi abbagli. Non fraintendermi. La tradizione ci è necessaria come un padre e una madre. Ma viene il momento di uscir di casa e di errare per proprio conto.
Non c’è in questo alcuna velleità d’esser originali. Alla fine, il libro della vita è sempre una ristampa. Qualche errata corrige, una diversa prefazione, nuove note di commento, poco più. Ma in quel poco più c’è il senso che dobbiamo trovare, qualcosa che è stato scritto solo per noi.
Dunque, se ci vuoi trovare un senso, devi cercarlo. E per questo esistono alcune regole. Occorre chiarire il significato delle parole e valutare la coerenza del discorso. Perché noi siamo vasti, conteniamo moltitudini e contraddizioni, come dice Whitman, ma la verità è una sola. Non devi forzare un passo per fargli dire ciò che vuoi, né affezionarti ai tuoi pregiudizi. Ma nessuna regola ha valore assoluto.
Forse anche cercare un senso è un errore. Credo sia lui a trovarci, a sorprenderci. Adottare un sistema di credenze non fa che allontanare l’uomo dalla verità. «E’ certo, invece, che proprio il Principio stesso deve venire a cercarlo: il Principio, Lui, nel Quale si illuminano tutte le grandezze e tutti i significati. E allora l’uomo comprenderà», dice Al Hallaj. Quindi, caro Neostato, se la realtà ti pare incomprensibile, lasciale il suo mistero. E consola quel bambino.
Temo che troverai questo discorso piuttosto inconcludente. Ma il modo in cui lettera e spirito si mescolano in noi implica per ciascuno interpretazioni diverse, diversi doveri. Una certa vaghezza è inevitabile. Interpretare la vita non è una scienza esatta. È leggere un racconto incredibile, combattuti tra fede e scetticismo. O almeno, così m’è parso di capire.
Il tuo affezionatissimo zio,
LAUDANO
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