Pochi secoli sono trascorsi da quando famosi condottieri dell’umanità viaggiavano tra «le stelle e i corpi celesti» in compagnia di aquile (sciamani?) aggiogate al loro trono. Simili esperienze di «viaggio» finalizzate all’acquisto di «sapienza cosmica», cioè di nuovi poteri, furono attribuite con poche differenze al patriarca Enoc, ad Alessandro Magno, all’imperatore cinese Fo-Hi, al profeta Ezechiele e ad altri personaggi eurasiatici di rilievo. Finché il degrado della Storia non mandò in pensione tutte le tradizioni comuni, e con esse gli uccelli-sciamani che andavano a depositare un «passeggero illustre» sulla vetta di una montagna, fonte di provvidenziali «visioni» e simbolo eterno di elevazione spirituale. Volendo fissare un punto sul calendario perpetuo della civiltà eurasiatica, potremmo indicare la svolta nell’Età Assiale formatasi approssimativamente sulla scia dell’Impero Assiro, dal IX sino al III secolo a.C., quando l’uomo apportò una serie di rilevanti cambiamenti nella struttura sociale e culturale dei suoi apparati locali. Alcune differenze sorsero tra le più antiche civiltà che abitavano i territori eurasiatici e l’Occidente iniziò ad essere guardato come lo spazio della «decadenza», o della tenebra, attirando numerose stirpi indo-europee (vedasi i futuri Etruschi) che «andavano a morire ad ovest», nelle «terre del tramonto». Ancora oggi nella geografia spirituale cinese ad Occidente si trova l’area del grande Kunlun (la montagna sacra già protagonista di una famosa lirica di Mao Tse Tung) in cui abita Si Wang-Mou, la regina dell’Ovest che dalla sua caverna, scarmigliata come una strega, diffonde la peste sul mondo.
Solitudine
Nel giro di una manciata di secoli emersero in Eurasia sostanziali differenze di pensiero tra l’Est ed l’Ovest. Zoroastro comparve in Iran, Parmenide, Eraclito ed i Presocratici in Grecia, Lu Tzu in Cina, nel subcontinente indiano si elaborarono le Upanishad e sorse il Buddhismo, spuntarono il Deutero-Isaia e i Profeti nell’ambito religioso israelitico. Il concetto di «Essere» in Parmenide, come quello di Nirvana, o Brahman, in ambito indo-buddhista, o quello di «Tao» nella Cina di Lu Tzu, invitavano inoltre a inedite forme di riflessione che si spingevano al di là della stessa dimensione metafisica, sulla cui natura ora ci si interrogava. In questo contesto l’uomo maturò l’idea della singolarità della propria condizione esistenziale, aprendosi a quell’Essere che lo investiva anche e soprattutto nei suoi più tragici aspetti.
L’uno e l’altro
Naturalmente il concetto di «Occidente» presupponeva quello di «Oriente». La frattura ormai si era formata, e ancora oggi è evidente: la nostra mentalità appare il frutto della concezione illuministica e dei secoli (troppo) intelligenti che l’hanno seguita, o meglio inseguita, mentre gli «altri» sono andati avanti con maggiore cautela, guardandosi bene dal gettare via l’acqua sporca con il bambino dentro. Se l’Europa globalizzata fa rimuovere i suoi simboli tradizionali dagli edifici pubblici e dalle scuole in nome di non si sa bene quale principio, il Ministero dell’Educazione cinese re-inserisce nei programmi scolastici lo studio obbligatorio del «canone» confuciano, recentemente adottato anche dalla politica. Non tanto per assicurare banalmente un ritorno del Paese alle proprie radici culturali, quanto piuttosto per affermare la volontà di diffondere tra i giovani concetti morali utili a riempire il vuoto lasciato dal venir meno dei valori maoisti e introdotto da quelli occidentali. Se l’Oriente per combattere la prima pandemia del Terzo Millennio ha messo in campo il suo tradizionale autoritarismo riqualificando la sanità pubblica come strumento fondamentale della società, l’Occidente si è perso nei meandri dei brevetti e della commercializzazione delle varie terapie farmacologiche. E pazienza se nel frattempo morivano gli inattivi, cioè i vecchi. A questo proposito, e a titolo di esempio, vale la pena di ricordare che nella lingua cinese non esiste una parola che significhi semplicemente «vecchio». Ci sono invece diversi termini che illustrano in modo quasi poetico gli effetti differenti della vecchiaia: l’aspetto di coloro che necessitano di un’alimentazione più ricca (k’i); l’aspetto di quanti hanno il respiro affannoso (k’ao); l’aspetto di quelli in buona salute che passati i settant’anni hanno il diritto ad essere chiamati lao, rientrando in un ambito in cui l’anzianità diventa sinonimo di venerabilità. Qui non si tratta di sostenere che l’Occidente sbaglia tutto mentre l’Oriente la indovina sempre. Non è così. Dividendosi, anzi, ognuna delle due parti ha perso qualcosa. Un motivo in più per ri-unire i pezzi sparsi, visto che si dovrà condividere la stessa «casa» ancora per qualche milione di anni. La parte orientale ha già avviato le manovre di avvicinamento, accettando molti aspetti estranei alla sua mentalità. Più restio appare invece l’Occidente, saldamente abbracciato alla sua valigia di stracci, che guarda ad Est solo quando c’è da concludere qualche buon affare. Gli occidentali oppongono resistenza all’idea (un tempo condivisa) che «essere conservatori» non significa affatto dipendere da ciò che è stato ieri, vuol dire vivere ciò che è eterno.
Con un coppo non si fa una casa
Succubi del «pregiudizio classico» denunciato da Guénon nel suo Oriente e Occidente, gli occidentali sono caduti nell’errore di ricondurre qualsivoglia apprezzamento ad un solo tipo di umanità, la loro, figlia blasonata dell’antichità greco-romana. A loro giudizio, la migliore in assoluto. Questo spiega lo sconcerto registrato recentemente dai media davanti alla decisione del premier giapponese Sinzho Abe di recarsi allo Yasukuni Jinja, il «santuario della pace nazionale» nipponico, per comunicare ufficialmente le sue dimissioni alle anime dei 2.466.532 di uomini e di donne che hanno dato la vita in battaglia per il proprio Paese. Del tutto ignaro della Storia a cui appartiene, il giornalettismo occidentale l’ha buttata subito in propaganda: là dentro ci sono anche numerosi «criminali di guerra». Come se fosse una novità che ogni guerra ferisce, offende, uccide. Un’altra occasione persa per cogliere la profondità di un rito antico che dopotutto appartiene anche a noi. Ma purtroppo l’Europa è sorda alla voce ancestrale degli spiriti eroici, per dirla con Mishima, e insensibile ad altre cosette piuttosto importanti. Da qualche tempo la superficialità è diventata la sua cifra. Ha scritto Georges Bernanos nel suo libro L’impostura, che “l’Europa è tramontata nel momento stesso in cui ha dubitato di sé, della sua vocazione e del suo diritto […] e questo momento ha coinciso con l’avvento del capitalismo totalitario”, sancendo in questo modo “la vittoria del denaro contro l’onore”. Il processo è iniziato al termine della Seconda Guerra Mondiale, quando sulla scia dell’entusiasmo scatenato dalla fine di un orrendo conflitto gli Europei sottovalutarono il peso enorme della cosiddetta «ideologia americana». Un pensiero fobico e contorto, pervaso dalla sindrome di rappresentare il Bene (che autorizzava a infliggere agli altri il Male) ed animato da una morbosa volontà rieducatoria, amplificata ad arte dalla corrotta Hollywood e da marchi planetari come Coca-Cola e Quaker Oats.
Un italiano di larghe vedute
Non diversamente da Bernanos anche Pier Paolo Pasolini negli Scritti corsari avvertì che qualcosa era mutato nell’europeo del dopoguerra, e il peggio doveva ancora arrivare. La sfrenata società dei consumi avrebbe intaccato le persone nel profondo, infettando il loro modo di vivere insieme ai concetti di comunità, patria, famiglia, intimità. La democratizzazione della cultura avrebbe prodotto un’omologazione al ribasso, da lui chiamata «borghesizzazione americanizzante». Lo stravolgimento causato dal cambiamento di paradigma avrebbe modificato la lingua, dilatato la percezione degli eventi, messo in moto una mutazione antropologica, favorito per un certo periodo la visione del mondo fascista degli antifascisti. Tutto è puntualmente accaduto, insinuando nel cuore della Vecchia Europa (e dell’Italia) il tarlo roditore del dubbio di sé. L’antico buon senso europeo, la sua vocazione e il suo diritto esportati in tutto il mondo, stavano collassando. Completamente assorbite dalla ricostruzione post-bellica le nazioni però non ci badarono, e rassicurate dal «liberatore» che prometteva mari e monti dimenticarono persino da dove erano venute e chi le aveva fondate. Eppure era già tutto chiaro: l’odio degli ex-coloni per le tradizioni dell’anziana madrepatria, la loro incapacità di comprendere le sue conquiste sociali, l’invidia per un patrimonio culturale che dalle profondità della protostoria era giunto in buona forma fino nel cuore dell’età contemporanea. Tutte cose da gettare via, non conciliandosi né con il liberismo né con il materialismo capitalista. Dopo quasi cent’anni vale la pena di domandarsi se esiste ancora un Occidente da difendere o se, invece, c’è un (altro) Occidente da cui dobbiamo difenderci. Fino a quando saremo schiavi dell’elisir dell’abbandono e della dimenticanza? E’ più importante la «parentela interessata» che lega l’Europa all’America, o l’affinità elettiva che da tempo immemorabile unisce la Vecchia Signora al blocco eurasiatico? Dopotutto Europa, Russia, Cina e India si sono formate su un’unica cultura che ha diffuso da un capo all’altro del mondo usi, costumi e lingua.
Naturalità di un rapporto indissolubile
Persino dopo il Diluvio Universale (l’evento geologico che fece collassare le calotte circa 11.500 anni fa, devastando l’emisfero settentrionale) la vita riprese dall’Eurasia, che grazie alla sua conformazione geografica include in sé ogni possibile strategia di crescita e sviluppo. Mentre le Americhe sono molto più lunghe che larghe (14.000 chilometri da nord a sud e 4.800 al massimo da est a ovest, con un minimo di 65 all’altezza dell’istmo di Panama), non diversamente dall’Africa, anch’essa posta su di un asse nord-sud, sebbene un po’ meno accentuato, l’Eurasia è posizionata lungo l’asse est-ovest. Un particolare di non poco conto, se si considera che proprio l’orientamento dei continenti influenza la velocità di diffusione della cultura e delle idee, dell’economia e della comunicazione, ciò a prescindere dal ripetersi ciclico degli sconvolgimenti che mettono a soqquadro il mondo. Tutte le località poste alla stessa latitudine hanno giorni di durata uguale e stesse variazioni stagionali, tendono cioè ad avere climi simili, regimi delle piogge e habitat abbastanza omogenei. L’Italia meridionale, l’Iran settentrionale e il Giappone sono Stati posti più o meno alla stessa latitudine, si trovano separati l’uno dall’altro da 6.400 chilometri verso ovest o est, eppure hanno climi più somiglianti tra loro rispetto ad aree che distano solo 1.500 chilometri a sud. Come potrebbe un agricoltore canadese mettersi a coltivare una varietà di mais tipica del Messico? La povera pianta non potrebbe far altro che seguire le sue istruzioni innate: a marzo si preparerebbe a buttare i primi germogli e … si troverebbe sepolta sotto tre metri di neve. Se anche si riuscisse a riprogrammarla per una germinazione più sensata – fine giugno, ad esempio – non mancherebbero i problemi. I suoi geni le direbbero, comunque, di crescere con calma e di arrivare a maturità dopo cinque mesi. Quello che va bene in Messico non funziona in Canada, e viceversa. Mentre in Eurasia (la più vasta estensione terrestre del pianeta, al cui interno vive il più alto numero di esemplari animali e vegetali!) le specie non hanno difficoltà a diffondersi lungo la linea est-ovest, essendo già ben adattate ai climi delle regioni in cui arrivano. C’è inoltre un’altra particolarità tutta eurasiatica: l’incredibile ricchezza orografica, e l’acqua come sappiamo sarà l’oro del futuro. Nel mondo più inquinato di sempre, il nostro, la varietà di ambienti capaci di favorire la biodiversità sarà fondamentale negli anni a venire. In Eurasia si va dalla depressione più bassa al mondo, il Mar Morto, a catene montuose che superano i 5000 metri (il sistema himalayano), passando per pianure irrigue, steppe e deserti. Non è mai esistita un’«arca» più salvifica di questa, e forse dovremmo salirci, prima che sia troppo tardi.
Riprendere il filo della Storia
Cosa frena il progetto di un’«Eurasia delle Patrie»? Le idee che scarseggiano, probabilmente, un disturbo quasi patologico di questi tempi. Nulla vieta di ri-partire da qualcosa di già pensato in precedenza e mai realizzato come, ad esempio, la teoria geostorica dell’Eurasia elaborata alcuni decenni or sono da Jean Thiriat, convinto sostenitore della riunione delle terre comprese tra Lisbona e Vladivostok in un unico continente-nazione con alle spalle una cultura millenaria. Solo un simile blocco, unito negli intenti ma separato nelle proprie specificità, tradizioni, culture e identità, ha qualche speranza di contrapporsi all’aquila calva che domina il mondo dal 1776 attuando politiche militari in territori sovrani. Mosca, Pechino e Teheran sembrano averlo capito da un pezzo, mentre Berlino tergiversa, forse temendo le ire dell’Impero, che non si ritirerà di sicuro con buona pace dello spirito. La politica dei piccoli passi, tuttavia, non è proibita. Mica vorremo rimanere immobili per sempre in nome di una «democrazia» ideale che abusa del valore di un’etichetta che non corrisponde per nulla al contenuto. Stando al lessico il termine «democrazia» dovrebbe essere l’esatto opposto di «capitalismo», dato che il primo si radica nel Politico (il potere dei Molti) mentre il secondo alligna nell’Economico (appannaggio dei Pochi). Ma in realtà ciò non avviene, essendo il principio ordinatore Economico anziché Politico. Una vera democrazia non dovrebbe pretendere di decidere dei destini del mondo senza considerare che vi sono altre culture, altre tradizioni, altre storie. Una vera democrazia non avrebbe motivo di uniformare a sé la restante umanità in un’ottica etnocentrica e massificata. Una vera democrazia non dovrebbe neppure aspirare ad imporre la regola del pensiero e del modello unico.
Ne consegue che l’attuale società occidentale NON è realmente «democratica» ma si trova intrappolata in un illuminismo «di seconda mano» che vede nella fede della ragione tecno-scientifica l’unica fonte di verità. L’Europa troverà la forza di liberarsi del globalismo a stelle e strisce? Prossimamente su questo schermo, comincerà a guardare senza pregiudizi eterodiretti l’ideocrazia conservatrice e anti-progressista russa? Ricorderà tutto in un botto da dove proviene? In ogni caso, una presa di posizione s’imporrà a breve: la Storia non può fare l’uomo, l’uomo fa la Storia, e ogni momento è buono per agire.
Rita Remagnino
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