12 Ottobre 2024
Archeostoria

L’Europa alle origini della civiltà, quarta parte – Fabio Calabrese

NOTA: Questa quarta parte ha una fisionomia un po’ particolare, infatti, non è parte della conferenza che ho tenuto al corso Erasmus di cui vi ho parlato, del marzo 2019, ma si tratta di un’aggiunta. Era, infatti, in progetto che io tenessi un’ulteriore conferenza nel maggio successivo, ma poi non se n’è fatto più nulla. Non ve lo posso dire con assoluta certezza, ma ho il forte sospetto che il lavoro che avevamo fatto a marzo (e il contributo dato dall’ingegner Felice Vinci è stato certo più significativo del mio), abbia dato fastidio a qualcuno, che si è quindi affrettato a sopprimere quel particolare corso Erasmus.

Voltaire diceva: “Non sono d’accordo con le tue idee, ma mi batterò fino alla morte perché tu possa esprimerle liberamente”. Fosse vivo oggi, sarebbe certamente considerato un fascista, un pericoloso estremista di destra, infatti, lo spirito della democrazia odierna, della cosiddetta political correctness è esattamente l’opposto, e si può riassumere nella formula: tappare la bocca a chi la pensa diversamente.

Vi ricordo quanto mi scrisse la signora organizzatrice del corso:

In occasione di un primo modulo pre-Corso, abbiamo avuto occasione di constatare come tra i giovani ma anche fra gli adulti provenienti dai Paesi baltici (a questo primo modulo pre-Corso hanno preso parte anche docenti di scuole superiori lettoni e lituane che, poi, rientrati in patria, hanno selezionato i partecipanti) la memoria storica delle propria identità culturale sia quantomai debole (forse per effetto di una dominazione sovietica che di questa memoria storica e non solo ha fatto strage…).

Il recupero della memoria storica che questo corso si proponeva andava precisamente in senso contrario a quella che è perlopiù la finalità dei corsi Erasmus, ossia la promozione di una “cultura” omologata e mondialista, per la quale non devono esistere popoli e culture, ma soltanto segmenti di un planetario mercato globale, e qualcuno deve essersene accorto. Da questo punto di vista, notiamo che la cosiddetta democrazia occidentale non è migliore di quelli che sono stati il comunismo e la dominazione sovietica nei Paesi dell’Europa orientale, ricorre soltanto a metodi più “soft” e ipocriti.

Vista anche l’ampiezza della tematica da me trattata nella conferenza di marzo 2019, in quella di maggio che poi non c’è stata, mi proponevo di approfondire alcuni punti. Si tratta, ve lo premetto, di un lavoro non concluso, che ho sospeso quando mi sono conto che quella conferenza non si sarebbe tenuta, ma ve lo presento ora su “Ereticamente” perché, come dice il proverbio, in tempo di guerra non si butta via niente, e noi siamo in tempo di guerra.

Nel nostro incontro di marzo è stato giocoforza trascurare alcuni aspetti importanti della civiltà dell’Europa antica, e non mi riferisco all’intervento stringato che ho potuto tenere davanti a voi, ma al testo certamente più completo che vi è stato distribuito e che espone la mia conferenza così come l’avevo pensata in origine. Tuttavia, anche quel testo è ben lontano dall’esaurire un argomento per il quale un libro sarebbe appena sufficiente (si, vi confesso, l’ho scritto e sto cercando un editore).

Vedremo dunque alcune questioni che ho lasciato in sospeso o trattato in maniera sbrigativa per non rendere la mia conferenza di marzo chilometrica.

È probabile che alcuni di voi abbiano trovato sorprendente una frase che si trova nello stralcio di Colin Renfrew che ho riportato a proposito di Stonehenge:

Sembra, inoltre, che in Inghilterra Stonehenge fosse completata e la ricca età del Bronzo locale fosse ben attestata, prima che in Grecia avesse inizio la civiltà micenea (…) In Inghilterra, la struttura definitiva di Stonehenge, che si riteneva fosse stata ispirata da maestranze micenee, fu completata molto prima dell’inizio della civiltà micenea”

Da dove deriva questa idea di un collegamento fra Stonehenge e la civiltà micenea che, ricordiamolo, fu la più antica civiltà indoeuropea della penisola ellenica, sorta subito dopo quella pre-indoeuropea minoica che aveva il suo centro nell’isola di Creta. La civiltà micenea fu creata dagli Achei, lo stesso popolo che fu protagonista dei poemi omerici. È una storia molto interessante e poco conosciuta.

Riporto qui un estratto da “L’alba della civiltà” di Carl Grimberg:

A Stonehenge, nella piana di Salisbury, si erge un cerchio di enormi pietre che per secoli rimasero misteriose, non sapendosi chi avesse innalzato lo strano monumento, né quando né a qual fine. Qualche anno fa un archeologo volle filmarle e, fosse la sua abilità di operatore, fosse il favore della luce…quando sviluppò la pellicola scorse qualcosa che nessuno aveva mai scoperto prima: nelle pietre erano scalfiti i profili di armi, di asce e di altri oggetti. Poiché sono note le fogge caratteristiche di ogni Paese nell’epoca preistorica, gli archeologi constatarono subito che i disegni erano di oggetti usati in Grecia nell’età del Bronzo, durante il primo periodo miceneo. Forse a quell’epoca si sfruttavano già le miniere di stagno dell’Inghilterra sud-orientale” (pag. 226).

Noi dobbiamo immaginarci per prima cosa Stonehenge come doveva essere migliaia di anni fa con la superficie dei sarsen finemente decorata da incisioni e forse pitture che le intemperie di secoli e millenni hanno cancellato, un luogo che doveva certamente appagare lo sguardo dei visitatori. In secondo luogo, un collegamento fra il popolo acheo e la cultura del Wessex di cui fa parte Stonehenge, è certamente esistito, anche se è difficile dire se il Wessex possa essere stato una colonia achea o tutto si debba ricondurre a scambi culturali e commerciali fra gli Achei e la popolazione locale, ma tutto ciò è avvenuto prima che gli Achei, che provenivano dal remoto settentrione del nostro continente, scendessero nella penisola ellenica e vi diventassero i Micenei. E’ chiaro che tutto questo va a rafforzare le tesi sostenute dall’ingegner Felice Vinci in Omero nel Baltico e di cui ci ha resi edotti nel nostro incontro di marzo.

Poiché siamo tornati sull’argomento Stonehenge, ne approfitto per una precisazione: agli inizi del secolo scorso, il monumento neolitico è stato oggetto di un lavoro di restauro non da poco, consistente nel rialzare diversi sarsen crollati. Questo ha spinto alcuni scettici e negatori dell’antica civiltà europea a sostenere che Stonehenge sia sostanzialmente un falso, e in particolare si è puntato il dito contro le correlazioni astronomiche dei sarsen con i solstizi, gli equinozi, le fasi lunari, dato che alcuni triliti sarebbero stati collocati in posizioni diverse da quelle originali.

In questo caso, mi sembra che l’ostinazione di chi vuole negare a tutti i costi l’eccellenza dell’antica civiltà europea, sfiori davvero la stupidità: è mai possibile che gli operai degli inizi del XX secolo, che non erano informati in proposito, riposizionando i sarsen a caso, abbiano creato delle correlazioni astronomiche che prima non esistevano? D’altra parte, ricordiamo che una conoscenza astronomica da non sottovalutare, questi antichi abitanti delle Isole Britanniche l’hanno dimostrata sia nella costruzione della tomba di Newgrange in Irlanda, sia in quella delle tombe di Maeshowe nelle Orcadi, l’una e le altre caratterizzate da una fessura sopra l’architrave che fa sì che l’interno sia illuminato dal sole proprio all’alba del solstizio d’inverno, e in nessun altro momento dell’anno. Ciò era probabilmente collegato a una religione che faceva della rinascita del sole che a partire dal solstizio invernale inizia la risalita verso lo zenit, una promessa di rinascita per i defunti.

Riguardo alla tomba di Newgrange, sono stato la volta scorsa forse un po’ troppo sbrigativo, e allora sarà bene precisare che anche in questo caso noi non abbiamo a che fare con una meraviglia isolata del nostro passato, ma con la testimonianza di una cultura ricca quanto “stranamente” ignorata dall’archeologia ufficiale e dai libri di testo, vi trascrivo quel che al riguardo riporta Wikipedia:

Presso Newgrange, nella contea di Meath, si situa l’area archeologica più famosa d’Irlanda.  Brú na Bóinne (la dimora del Boyne in irlandese) è un’area della valle del fiume Boyne (circa 40 km da Dublino) delimitata tra le città di Slane e di Drogheda, dove il letto fluviale serpeggia in numerose anse. Qui è possibile ammirare un paesaggio archeologico unico al mondo, dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO: un esteso complesso archeologico con oltre 50 monumenti costruiti nel neolitico da un’antichissima civiltà contadina preceltica repentinamente scomparsa. Originariamente costruito intorno al 3200 a. C., giacque dimenticato per millenni fino al XVII secolo. È stato oggetto di una prima estesa campagna di restauri tra il 1962 e il 1975, e tuttora proseguono gli scavi archeologici.

Solo due dei siti archeologici sono attualmente visitabili, ma sono i più importanti e imponenti di tutta la zona: i tumuli di Newgrange e di Knowth. Un terzo, quello di Dowth, è oggetto di restauri (2002) e potrà essere aperto al pubblico in futuro. Si tratta di notevoli tombe a corridoio sovrastate da estese colline artificiali, tutte costruite nello stesso periodo storico.

Anche se sono comunemente definite tombe a corridoio dagli studiosi, in realtà lo scopo preciso degli immensi tumuli non è certo, malgrado essi siano stati accuratamente scandagliati. Probabilmente non fu solo, o non principalmente, funerario, ma certamente connesso alle cerimonie religiose e forse ad un culto solare. Rimangono come enigmatica testimonianza di una civiltà complessa e progredita che popolò l’Irlanda prima dell’avvento dei Celti e ben prima degli invasori Vichinghi, 6 secoli prima della costruzione delle piramidi egizie.

Il tumulo di Knowth, vecchio di oltre tre millenni, è il più ampio di Brú na Bóinne. Gli scavi archeologici hanno rivelato che questo fu un sito sepolcrale ed un insediamento fin dai tempi del neolitico, attraverso le età del bronzo e del ferro, fino ai primi anni del cristianesimo e del periodo normanno. Perduta la memoria del suo scopo originario, il luogo fu utilizzato anche nei secoli successivi e, tra le altre cose, vi fu anche edificato sopra un villaggio fortificato.

La struttura del tumulo, circondata da tumuli “satelliti” minori, è complessa: contiene due lunghi e stretti corridoi che partono agli opposti della collina e che, singolarmente, non si congiungono nel mezzo ma rimangono separati da una spessa parete di rocce, attraverso la quale è tuttavia possibile comunicare a voce. Alla base del tumulo sono stati riportati alla luce enormi massi perimetrali, molti dei quali sono scolpiti con articolati graffiti dalle forme geometriche e astratte.

Come nel caso di Stonehenge, scopriamo dunque che, ben lungi dall’essere una struttura isolata, quello di Newgrange non è che il complesso più noto di un insieme di monumenti che ci testimoniano la presenza di un’antica civiltà che – trovandosi in Europa e non in Medio Oriente – gli archeologi si sono sforzati pochissimo di indagare.

A questo punto del testo, avevo inserito la parte relativa ai forti vetrificati, altro enigma della più remota storia europea di cui l’archeologia ufficiale non si è occupata se non in maniera molto distratta, questo passo è identico a quello che avete letto nella terza parte, era presente nel testo originale, ma nella conferenza di marzo 2019 l’avevo omesso per ragioni di tempo, ora perciò vi ripropongo solo la conclusione, la ricerca di archeologia sperimentale che ha permesso di escludere che la vetrificazione dei forti sia stata un processo accidentale, ma che è piuttosto il risultato di una tecnica che oggi non siamo in grado di replicare.

Un ricercatore inglese compì sotto lo sguardo delle telecamere quella che si definisce una ricerca di archeologia sperimentale: dopo aver costruito un tratto di muro simile a quello dei bastioni di un forte vetrificato scozzese utilizzando pietra locale dello stesso tipo, tentò di procedere alla vetrificazione producendo un calore molto intenso utilizzando gli stessi mezzi che si suppone fossero a disposizione degli Scozzesi dell’Età del Ferro, ossia grandi falò di legna che avvolgevano interamente la struttura ricostruita.

L’esperimento si protrasse per giorni, durante i quali i blocchi di granito furono ininterrottamente avvolti dalle fiamme, ma non produsse in alcun modo risultati conclusivi, nel senso che si riuscì a ottenere la vetrificazione parziale di alcuni blocchi, ma si rimaneva ben lontani dal creare un’uniforme struttura compatta come quella creata dagli scozzesi preistorici, e bisogna inoltre tenere presente che l’esperimento era stato realizzato riproducendo una sezione molto piccola di muro.

L’esperimento ha almeno avuto il pregio di escludere una volta per tutte che la vetrificazione dei forti possa essere stata dovuta ad incendi accidentali, o magari appiccativi da nemici durante degli assedi. Qualunque sia stata la tecnica impiegata, dovette essere usata sistematicamente e con grande perizia

Una tecnica costruttiva che oggi non siamo in grado di replicare, proprio come porre in opera gli enormi monoliti che formano i monumenti megalitici ci porrebbe considerevoli problemi ingegneristici anche con i mezzi tecnologici di cui oggi disponiamo.

Tuttavia, non sarebbe il caso di fissarci in modo esclusivo sulle Isole Britanniche e sulla fascia di Europa atlantica davanti a esse. L’Europa centrale, orientale e mediterranea ci presentano le tracce di un passato non meno ricco che l’archeologia ufficiale, i libri di testo, i programmi divulgativi, continuano del pari a ignorare.

Nel nostro incontro di marzo, ho accennato, per la verità in modo alquanto fuggevole l’antichissimo circolo megalitico di Gosek in Germania, risalente a 7000 anni fa, età che ne fa il più antico conosciuto in Europa, e di due millenni precedente le piramidi egizie. Non si tratta del solo monumento che lascia presumere nell’area centroeuropea l’esistenza di un’antica cultura su cui gli archeologi si sono sforzati pochissimo di indagare. Quanto meno, occorre nominare l’altro, forse più conosciuto, circolo megalitico di Externsteine e quel singolare manufatto che è il disco di Nebra, che è forse la più antica rappresentazione del cosmo utilizzata per rilevazioni astronomiche giunta fino a noi.

Si tratta di un disco metallico di bronzo con applicazioni in oro di una trentina di centimetri di diametro con incise delle figurazioni astronomiche: il sole (o la luna piena), la luna (falcata), diverse stelle fra le quali è riconoscibile il gruppo delle Pleiadi. L’aspetto eccezionale del disco, però non è dato solo dal fatto che esso risale all’Età del Bronzo ed è la più antica rappresentazione conosciuta del cielo, ma dal fatto che posizionandosi sul vicino monte Mittelberg e usando come punto di riferimento il Brocken, il monte più alto della Germania del nord, traguardando attraverso i due archi posti ai lati del disco, è possibile determinare la posizione del sole al tramonto in coincidenza con gli equinozi di primavera e d’autunno; è un oggetto che presuppone una conoscenza astronomica raffinata e sorprendentemente precoce. Lo si potrebbe forse definire una Stonehenge portatile.

Il disco, ritrovato da due saccheggiatori di tombe nel 1999, è venuto nelle mani delle autorità nel 2001.

Io ho interrotto la stesura a questo punto, quando è stato chiaro che la seconda conferenza non si sarebbe tenuta, tuttavia, noi sappiamo che abbiamo alle spalle una grande civiltà che la “scienza” ufficiale tende in ogni modo a minimizzare per favorire la sostituzione etnica, e che ci incombe l’esigenza di batterci non solo per ripristinare la verità storica, ma per tutelare il futuro dei nostri figli.

 

 

 

NOTA: Nell’illustrazione, il complesso megalitico di Stonehenge, un monumento che ancora oggi conserva diversi misteri.

 

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