Questo articolo avrà una fisionomia un po’ particolare, infatti non si tratterà come il titolo farebbe presumere, di una continuazione dei quattro articoli precedenti, della conferenza tenuta e di quella parzialmente progettata per il corso Erasmus di cui vi ho raccontato.
Parlando di conferenze, vi ho raccontato anche di quelle da me tenute al Triskell, il festival celtico triestino. In questo caso, e dato il tipo di uditorio, esse non potevano avere un oggetto scopertamente politico, ma noi ovviamente sappiamo che riscoprire la nostra eredità ancestrale europea, specialmente oggi, di fronte a un mondo globalizzato in cui si cercano di cancellare tutte le differenze, tutte le identità, di trasformare l’umanità in un melting pot informe, un significato politico ce l’ha eccome!
E’ precisamente in quest’ottica che, suddivisi in più articoli per motivi di lunghezza, vi ho presentato su “Ereticamente” i testi di queste conferenze: una serie che è iniziata con l’edizione 2014 del festival triestino. Quella del 2015, che ebbe un discreto successo di pubblico e che credo affascinò letteralmente gli ascoltatori, forse più per merito dell’argomento che delle mie capacità, la dedicai a Il mito del Graal e il mistero di re Artù. L’anno successivo, senza aver inizialmente progettato un’esposizione vasta che avrebbe coperto diverse edizioni annuali del festival, diedi inizio a quello che sarebbe diventato un vero e proprio ciclo dell’Europa megalitica. Cominciai nel 2016, appunto, parlando di Stonehenge, antichi misteri e nuove scoperte, e aspetti misteriosi quello che con ogni probabilità è il più famoso monumento megalitico europeo, ne conserva ancora tanti.
Il successo della conferenza mi indusse a promettere agli ascoltatori di allargare la tematica l’anno successivo al megalitismo delle Isole Britanniche. Oltre a Stonehenge, infatti abbiamo le bellissime tombe neolitiche irlandesi di cui Newgrange è la più nota ma non certo l’unica, il grande cerchio megalitico di Avebury, il cuore neolitico delle Orcadi in Scozia, e molto altro ancora. Nel 2018 ho allargato ulteriormente il discorso al Megalitismo dell’Europa continentale, e qui ancora c’è un gran numero di cose sconosciute al grosso pubblico: non soltanto Carnac in Bretagna col suo estesissimo campo di menhir, ma anche i circoli megalitici tedeschi di Externsteine e Gosek, la fortezza celtica di Heuneburg e ancora molto altro, moltissimo altro, soprattutto per quanto riguarda l’Europa orientale e la Russia i cui più antichi tesori archeologici erano di fatto divenuti inaccessibili durante l’epoca comunista.
L’anno successivo l’oggetto delle conferenze era L’Italia megalitica, e di fatto sono divenute due perché, dal momento che esse si tengono all’aperto, la prima ha visto il relatore e gli ascoltatori imperterriti sotto la pioggia, e si è pensato bene di ripeterla; e anche qui c’è da dire che la nostra Penisola presenta una tipologia megalitica complessa e di estremo interesse di cui perlopiù l’uomo della strada non sa letteralmente nulla.
Nel 2020, con un Triskell slittato al mese di settembre, l’argomento è stato Il Triveneto preromano celtico e megalitico. Non potevo, dato il contesto, non avere un occhio di riguardo per la mia regione e per quelle vicine, e a questo punto, come capite, il ciclo megalitico (chiamiamolo così) è stato effettivamente completato. Il 2021 è stato l’anno di Dante, coincidendo con i settecento anni dalla morte del Poeta, e l’argomento è stato gli inediti legami tra la sua visione e il mondo celtico (e anche su questo vi aggiornerò a breve) Per gli anni successivi, ho in programma altre cose, sulle quali permettetemi per ora, per scaramenzia, di mantenere il riserbo.
Rimarrebbe però il grande interrogativo, parlando del mondo megalitico, di come sia possibile tanta cecità riguardo alle testimonianze del nostro remoto passato da parte non delle persone comuni che in ultima analisi sono le vittime del sistema mediatico e di quello “educativo”, ma da parte di ricercatori e divulgatori (sistema accademico e scolastico compresi), tutti sempre tesi a fare il panegirico di Egitto e Mesopotamia, a esaltarsi per due cocci di vaso trovati in Medio Oriente e a ignorare del tutto i grandi complessi megalitici europei, se questa cecità non fosse voluta.
Una bufala, quella dell’origine mediorientale della civiltà, che fa esattamente il paio con quella dell’origine africana della nostra specie, ed entrambe hanno lo stesso scopo, quello di deprimere quanto più possibile l’immagine che l’uomo europeo ha di sé stesso, in modo da fargli opporre meno resistenza possibile alla sostituzione etnica.
Avrete notato però che non vi ho ancora detto nulla della conferenza del 2014, la prima che ho presentato al Triskell e che, guarda caso, del suo testo non trovate traccia sulle pagine di “Ereticamente”. Perché? In realtà la ragione è molto semplice: questo testo si intitolava Il mondo celtico alle origini della civiltà europea, era concepito considerando il particolare tipo di target a cui si rivolgeva, ma in effetti il suo argomento era piuttosto il nostro continente come origine della civiltà tout court e l’avevo assemblato facendo ricorso a materiali e tematiche di cui vi avevo già parlato in Una Ahnenerbe casalinga, e poi ampiamente ripreso nel libro Alla ricerca delle origini (edizioni Ritter), in sostanza una dimostrazione del concetto di quanto poco sia credibile la favola che ci è raccontata praticamente in tutti i libri di storia e in gran parte delle opere divulgative (letterarie e ancor più mediatiche) dell’origine mediorientale della civiltà.
Varie volte in questi anni ho pensato di riproporvelo per un senso di completezza, anche perché repetita iuvant, soprattutto a distanza di anni, ma regolarmente, gran parte delle argomentazioni che lo compongono le ho riutilizzate in Ex Oriente lux, ma sarà poi vero?, e L’eredità degli antenati.
Alla fine, mi sono deciso per una soluzione di compromesso, quella di darvi qui una sorta di scaletta o riassunto di questa conferenza del 2014. Visto quel che ne è obiettivamente il contenuto, forse L’Europa alle origini della civiltà risulta più appropriato, anche se non si tratta di una continuazione della conferenza da me tenuta a quel corso Erasmus di cui vi ho raccontato.
C’è tuttavia una differenza rispetto a quanto vi ho esposto sulle nostre pagine: in quella conferenza ho indicato come cause del persistente “strabismo mediorientale” dell’archeologia ufficiale, da un lato il conservatorismo legato al fatto che le opinioni affermate corrispondono ad altrettante posizioni di potere all’interno del mondo accademico (questo è un discorso che vale in generale per tutta la “ricerca scientifica”, assai meno obiettiva e spassionata di quanto il profano generalmente s’immagini), dall’altro il persistente effetto avuto dalla bibbia, scritta da persone che non conoscevano nessun’altra realtà storica se non quella mediorientale, nel plasmare la nostra immagine del passato, immagine che le ricerche storiche moderne hanno articolato, ampliato, ma non messo in discussione nelle sue linee di fondo.
Ma è chiaro che c’è una terza causa che io allora non nominai, una causa di fondo senza la quale le prime due alla lunga perderebbero di efficacia: al potere mondialista che domina tanto il sistema mediatico quanto quello “dell’educazione”, non conviene che gli Europei abbiano un’idea troppo elevata di sé stessi e del loro passato, cosa che potrebbe indurli ad opporsi alla sostituzione etnica oggi in atto. Introdurre la cosa in questi termini, avrebbe significato fare un discorso apertamente politico, cosa che non potevo fare dato il tipo di pubblico cui si rivolgeva il festival celtico ma che noi capiamo essere la vera chiave di volta che permette di comprendere appieno la situazione.
Ciò premesso, passavo a esaminare i vari indizi che provano la priorità della civiltà europea rispetto al Medio Oriente. Innanzi tutto, perché potesse iniziare ciò che noi chiamiamo civiltà, era essenziale il passaggio da uno stile di vita nomadico basato sulla caccia e la raccolta dei frutti spontanei della terra, a uno stanziale, era necessaria la scoperta dell’agricoltura. Noi abbiamo delle prove indirette ma convincenti del fatto che tale scoperta sia avvenuta in Europa piuttosto che in Medio Oriente, che sono la priorità europea nella domesticazione e nell’allevamento dei bovini e nella scoperta e utilizzo dei metalli.
Per quanto riguarda la prima, la prova regina, la “pistola fumante” è rappresentata dalla tolleranza al lattosio in età adulta, palesemente un adattamento darwiniano alla nuova fonte alimentare che l’allevamento bovino ha messo a disposizione; essa è estremamente variabile nelle diverse comunità umane, massima nell’Europa centro-settentrionale e nell’America del nord fra gli americani di origine europea, decresce fino a sparire del tutto man mano che ci si sposta verso l’est e il sud. Questo suggerisce che la domesticazione dei bovini debba essere iniziata da qualche parte in Europa fra la Scandinavia e l’arco alpino.
L’associazione tra agricoltura e metalli è meno immediata. Noi siamo abituati a considerare uno strumento di pietra qualcosa di rozzo al punto tale che ci sfuggono i vantaggi rispetto a uno metallico; è fatto con qualcosa di più facilmente reperibile nell’ambiente, è meno fragile, non perde il filo, non si arrugginisce. Il corredo di strumenti litici era pienamente adeguato alle esigenze di un cacciatore-raccoglitore paleolitico, ma ha un indubbio svantaggio: i tempi lunghi necessari alla sua preparazione, rispetto a quelli necessari a versare una colata di metallo in un crogiolo, che poi può essere riutilizzato numerose volte.
L’utilizzo dei metalli rimanda quindi a una sola spiegazione, un’improvvisa fame di strumenti determinata dall’aumento demografico, quindi dall’avvento di una società agricola, perché le comunità di cacciatori-raccoglitori sono demograficamente stabili a causa della limitatezza delle risorse cui possono accedere.
Ebbene, le più antiche tracce di attività mineraria, di estrazione dei metalli sono state rinvenute nei Balcani, mentre il più antico attrezzo metallico conosciuto è l’ascia di rame di Oetzi, l’uomo del Similaun.
Mi sono poi soffermato sull’invenzione della scrittura, altra invenzione chiave che ha segnato il passaggio dalla preistoria alla storia documentata. Le scritture si distinguono in ideografiche o sillabiche (o spesso una mescolanza fra le due cose) oppure alfabetiche. L’immenso vantaggio rispetto alle prime è la possibilità di rendere qualsiasi idea o concetto con non più di una ventina di segni, invece delle centinaia occorrenti nelle prime, quindi grazie a ciò l’alfabetismo è potuto diventare un possesso comune invece di essere il privilegio di caste di scribi specializzati.
L’invenzione dell’alfabeto è comunemente attribuita ai Fenici, ma questi ultimi non fecero altro che semplificare la scrittura demotica egizia eliminando le vocali, era un sistema ambiguo e poco pratico, la vera invenzione dell’alfabeto con la divisione della sillaba in vocale e consonante e l’introduzione degli spazi fra le parole, in sostanza il metodo semplice e pratico che usiamo ancora oggi, fu inventato dai Greci, non è stata un’invenzione mediorientale ma europea.
Ma c’è di più. La scrittura in assoluto più antica al mondo non sono né i geroglifici egizi né i pittogrammi sumerici da cui sarebbero derivate le scritture cuneiformi. Gli uni e gli altri sono stati preceduti di circa un millennio da una scrittura europea i cui simboli sono stati ritrovati in alcune tavolette rinvenute nel sito di Turda in Romania appartenente alla cosiddetta cultura del Danubio. Queste tavolette, chiamate tavolette di Tartaria anche se con i Tartari non hanno nulla a che fare, sono venute alla luce nel 1962.
Suppongo che non molti di voi ne abbiano sentito parlare, eppure non è che di tempo da allora non ne sia trascorso. E’ il solito muro di gomma che avvolge tutte le scoperte che potrebbero mettere in luce la grandezza e l’antichità della civiltà europea.
Sono poi passato a esaminare i più importanti monumenti megalitici: Stonehenge, la tomba neolitica irlandese di Newgrange, il grande circolo di Avebury, il vasto complesso noto come “cuore neolitico delle Orcadi” (arcipelago prossimo alle coste scozzesi), l’allora recentissimo ritrovamento dei resti della “cattedrale neolitica” di Skara Brahe (sempre nell’area delle Orcadi), ma naturalmente non mi sono soffermato solo sulle Isole Britanniche ma anche sull’Europa continentale, citando i complessi di Externsteine, di Gosek, la città-fortezza celtica di Heuneburg dove pochi anni prima era stata ritrovata la sepoltura di una donna di rango, forse una principessa celtica, con un corredo funebre di dimensioni di poco inferiori a quello della tomba di Tutankhamon, ma che sicuramente non ha avuto presso il grosso pubblico l’esposizione mediatica di quest’ultimo.
Tuttavia, al riguardo, il mistero forse più appassionante è quello rappresentato dai forti vetrificati dell’Età del Ferro che si trovano sparsi su di una vasta area che va dalla Bretagna alla Scozia. A tutt’oggi è un mistero irrisolto come degli uomini preistorici siano riusciti a produrre le altissime temperature necessarie per produrre la fusione e la vetrificazione del materiale siliceo che ne costituisce le mura, e che le hanno cementate in un blocco unico capace di resistere a qualsiasi cosa, tranne forse a un attacco nucleare.
Un mistero al quale si stenta a capire come possa l’archeologia ufficiale non appassionarsi. Probabilmente perché questi monumenti si trovano nel posto sbagliato, se invece che nella nostra negletta Europa, si trovassero in Medio Oriente, su di essi sarebbero stati scritti fiumi di inchiostro, paragonabili se non al Nilo, quanto meno alla Loira.
Mi spiace di non aver trattato allora anche del megalitismo italiano di cui anch’io all’epoca sapevo poco, e che, indagando sul quale per preparare la conferenza del 2019, ho scoperto una ricchezza di cui sono stato il primo a rimanere sbalordito.
Ora però io non penso sia necessario entrare per l’ennesima volta in dettaglio su tutto ciò, di cui ho già parlato diffusamente più di una volta nei miei articoli. Quello che però merita assolutamente osservare e che sarà il caso di evidenziare una volta di più, è che l’importanza di questi documenti del nostro passato non consiste soltanto nella loro imponenza, né nella perizia ingegneristica che rivelano (noi coi nostri mezzi moderni, avremmo serie difficoltà a porre in opera costruzioni composte da monoliti di svariate tonnellate), e neppure nelle sofisticate conoscenze astronomiche (a parte gli allineamenti con i solstizi estivo e invernale, gli equinozi, le fasi lunari, riscontrati a Stonehenge, ricordiamo che sia la tomba di Newgrange sia quelle di Maeshowe nelle Orcadi presentano sull’architrave una fessura che viene attraversata dai raggi del sole esattamente all’alba del solstizio d’inverno).
Quello che merita davvero evidenziare, è che essi ci rivelano un’immagine della preistoria europea del tutto diversa da quella che di solito ci viene presentata, innanzi tutto perché essi non possono essere stati prodotti altro che da società non solo stanziali, ma complesse, con classi di lavoratori specializzati.
Una società indubbiamente già agricola, senza di che non sarebbe stato possibile avere classi di persone non direttamente impegnate nella produzione di risorse primarie, e al riguardo ho citato un ritrovamento allora recentissimo avvenuto in Scozia nella località di Warren Fields, una serie di dodici buche in cui dovevano essere verosimilmente infissi dei pali, traguardando i quali al sorgere del sole, era possibile stabilire in quale mese ci si trovasse: un calendario astronomico, e a nessuno sfugge l’importanza della conoscenza dei ritmi stagionali per le attività agricole.
Più rivelatrici ancora si sono rivelate le sepolture rinvenute nei pressi di Stonehenge: quella di un gruppo di sei persone note come gli arcieri di Boscombe, erano gallesi provenienti dalla zona delle Praseli Hills, quella da cui vengono le pietre blu del cerchio interno del monumento: operai addetti al trasporto e alla posa in opera dei monoliti, probabilmente rimasti vittime di un incidente, quella dell’arciere di Amesbury, un uomo ultrasessantenne proveniente dall’arco alpino, il cui corredo funebre denuncia l’appartenenza alla cultura del bicchiere campaniforme: era affetto da una grave zoppia e da un ascesso dentario che gli si era infiltrato nella mandibola e che di quando in quando doveva procurargli dolori atroci, doveva essere giunto da lontano alla Lourdes preistorica della piana di Salisbury in cerca di sollievo ai suoi problemi di salute.
Ancora quella del ragazzo con la collana di ambra, un quindicenne proveniente dall’area mediterranea e sepolto con al collo una preziosa collana di ambra baltica, è inverosimile che fosse giunto a Stonehenge da solo ma faceva probabilmente parte di un gruppo familiare.
Di colpo, ci appare un’immagine dell’Europa neolitica molto diversa da quella che ci hanno così a lungo raccontato, non una landa selvaggia, ma un mondo civile dove le merci come la collana di ambra, e le persone possono percorrere lunghe distanze, e non parliamo di isolati avventurieri, ma di gruppi familiari e di persone anziane e malate.
Perché l’archeologia ufficiale non se ne occupa, anzi cerca – si può dire – di nasconderci tutto questo? Vi risponderò in sintesi: chi ci ruba il passato, lo fa perché vuole toglierci il futuro.
NOTA: nell’illustrazione, a sinistra, ricostruzione di Oetzi, l’uomo del Similaun, la sua ascia di rame è il più antico attrezzo metallico conosciuto al mondo. Al centro, tre “tavolette di Tartaria”, esemplari della scrittura della cultura del Danubio, la più antica al mondo, a destra, ricostruzione artistica dell’Arciere di Amesbury, la cui sepoltura è la più ricca rinvenuta nell’area di Stonehenge.
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