11 Ottobre 2024
Origini

L’Europa alle origini della civiltà, terza parte – Fabio Calabrese

Una domanda che spesso si pone in maniera spontanea, è questa: poiché non pare possibile che gente che non disponeva della tecnologia moderna abbia potuto edificare Stonehenge o le piramidi, o, che so, erigere i moai dell’Isola di Pasqua, dobbiamo pensare a un aiuto dall’esterno, a un intervento di UFO?

Io in genere rispondo facendo questo esempio: a Ravenna c’è il mausoleo di Teodorico. Questo monumento ha una caratteristica che lo rende unico al mondo: possiede una cupola monolitica che è stata lavorata scolpendo un unico blocco di pietra. Noi non sappiamo come sia stato possibile produrla né come la si sia potuta collocare sulla sommità del monumento. Quello che sappiamo di sicuro, è che non troviamo alcun indizio della presenza di UFO nella Pianura Padana del quinto secolo dopo Cristo. Noi, io penso, non dovremmo cercare delle scorciatoie ufologiche, che sono delle non risposte. Dovremmo ammettere che non sappiamo tutto, che molte cose ci sfuggono delle conoscenze e delle tecniche usate da questi nostri predecessori, e attribuire loro il rispetto che meritano.

Se l’Europa neolitica, non solo le Isole Britanniche, era di gran lunga più civile di quanto siamo soliti immaginare, sarebbe ben strano che alla vigilia dell’età storica tutto questo fosse scomparso in attesa di una ri-civilizzazione a partire dal Medio Oriente attraverso il passaparola egizi-mesopotamici-fenici-ebrei-persiani-greci-romani che i libri di testo ci raccontano di continuo. Sostanzialmente, di fronte a importanti culture dell’Europa antica che non rientrano in questo schema, le possibilità per salvare lo schema stesso sono soltanto due, o farvele rientrare a forza, oppure semplicemente ignorarle. Gli Etruschi sono un esempio del primo tipo di operazione, i Celti del secondo.

Per quanto riguarda gli Etruschi, per moltissimo tempo si è preso per buono il racconto di Erodoto di una loro antica origine dalla Lidia, cioè dall’Asia minore, senza ulteriori verifiche, racconto che non è più fondato storicamente di quello che attribuisce agli stessi Romani un’origine asiatica attraverso il troiano Enea, al punto che ancora adesso c’è qualcuno che continua a crederci, sebbene le ricerche sul DNA di questi nostri antenati l’abbiano clamorosamente smentito. Oggi sappiamo che la cultura etrusca è autoctona dell’Italia, se mai vi è qualcuno a cui il concetto di autoctono possa essere realmente applicato: essa deriva da quell’antichissimo sostrato pre-indeuropeo presente da tempo immemorabile della nostra Penisola di cui hanno fatto parte la cultura terramaricola e quella villanoviana che deriva da essa, anzi possiamo dire che il mondo etrusco rappresenta in età storica la fase più matura e avanzata della cultura villanoviana.

Riguardo ai Celti sarei tentato di non dire letteralmente nulla, per il motivo che, mentre continuano a essere considerati con disdegno accademico dalla cultura ufficiale che si guarda bene dal trovare sui libri di testo lo spazio che loro competerebbe, sono oggi oggetto di una considerevole rivalutazione da parte della cultura popolare, spesso con cadute in una dimensione folcloristica e New Age sulla quale è meglio stendere un velo. Vorrei limitarmi a citare un episodio aneddotico ma a mio parere molto rivelatore. Alle superiori, ho studiato il De Bello Gallico di Cesare. Come è noto, essendo Cesare proconsole della Gallia Narbonese, le popolazioni celtiche chiesero il suo aiuto per respingere l’aggressione da parte della tribù germanica degli Elvezi guidati da Ariovisto, e fu una pessima scelta, perché diede modo ai Romani di intromettersi nelle loro vicende interne, con le conseguenze che tutti sappiamo.

Nell’introduzione al mio libro di testo che era un’antologia del De Bello Gallico, la vicenda era esposta per sommi capi, e si precisava che “All’epoca le popolazioni celtiche della Gallia erano molto più civili di quanto non lo fossero i Germani”. Davvero? Davvero? Sulla base di tutto quel che ci era stato raccontato fin allora, almeno avendo come riferimento soltanto le fonti ufficiali rappresentate dai libri di testo dove i Galli, da Furio Camillo fino alla conquista cesariana della Gallia erano presentati solo in veste di barbari e feroci antagonisti di Roma, non lo si sarebbe mai potuto immaginare.

Tuttavia, gli esempi di popoli europei antichi la cui civiltà sui nostri libri di testo è sistematicamente minimizzata o ignorata, non mancano davvero. Citiamo ad esempio i Traci, popolo stanziato in quella che è l’odierna Bulgaria, e considerati dagli autori antichi uno dei popoli più importanti e numerosi dell’Europa del tempo, ma oggi quasi cancellati dalla storia, tranne per il fatto che era di origine trace Spartaco, il gladiatore la cui rivolta arrivò a mettere in serio pericolo la repubblica romana, e tuttavia ecco cosa ci racconta sui Traci uno dei pochi testi che si degna di occuparsene: Mario Palazzo e Margherita Bergese: Clio dossier, tomo B, editrice La Scuola (una volta tanto, non un lavoro per specialisti, ma un testo destinato ai ragazzi delle superiori):

Senza i Traci non ci sarebbe stato il “miracolo greco”. Infatti, attorno al VII-VI millennio a. C. mentre la Grecia si trovava in età arcaica, la Tracia era più evoluta, in quanto si trovava in una posizione ideale per ricevere gli influssi provenienti dall’Asia, dall’Anatolia e dall’Europa mediterranea.

La Tracia era famosa nell’antichità per l’estensione delle sue terre e per il numero degli abitanti.

Erodoto definisce i Traci “il popolo più grande dopo gli Indi”; Pausania “quello più numeroso dopo i Celti”.

Nell’età del rame e del bronzo la struttura della società tracia era fondata sui clan. Nell’Età del Ferro, dopo il XII secolo a. C., i clan si allargarono fino a diventare delle tribù organizzate: in pratica degli stati.

Conosciamo anche il nome di oltre cinquanta tribù tracie. Le più importanti sono le tribù degli Odrisi, dei Besi, dei Sapei, dei Medi, dei Triballi, dei Denteleti, dei Crobizi, dei Geti.

L’ultimo passo nello sviluppo politico del paese fu la fondazione, agli inizi del V secolo a. C. dello stato Odrisio, dal nome della famiglia regnante. Questo stato unitario durò però un breve periodo. Intorno alla metà del IV secolo a. C., lo stato tracio, prima si divise in tre regni, poi crollò definitivamente, creando numerosi staterelli legati alla Macedonia.

Per i Traci l’agricoltura era molto importante. Gli antichi autori greci chiamavano le terre tracie “fornitrici di grano” e i Traci “protettori del grano”, “quelli che vivono nei campi di grano”. Oltre al grano erano anche noti nel mondo antico per la coltivazione della canapa, dell’orzo, dell’aglio e della cipolla. Inoltre, in Tracia cresceva l’ulivo e si coltivava la vite: “bevanda divina”, dice Omero che chiama la Tracia “madre di pecore” e definisce i suoi cavalli “Belli, robusti, molto bianchi e veloci”.

La maggior fonte di ricchezza dei Traci erano però le miniere di oro, argento, rame e ferro.

La Tracia esportò per tutto il I millennio a. C. soprattutto grano, bestiame, legname, miele, resine, metallo e schiavi. I Greci utilizzavano gli schiavi traci come rematori, minatori e, se donne, come nutrici o domestiche.

Sui vasi greci le schiave tracie sono riconoscibili soprattutto per i tatuaggi sulle braccia, sulle gambe e, più raramente, sul collo o sul viso (per i Traci simboleggiavano la nobiltà o la schiavitù).

Il re tracio preferiva essere in continuo movimento a capo del suo seguito armato, per esercitare un controllo militare, politico ed economico su tutto il suo territorio. Infatti, i re normalmente non avevano una sede fissa, ma disponevano di molte residenze fortificate oppure di cosiddette città reali. La città del re includeva in genere una cittadella, con depositi per alimenti e per armi, luoghi per ricoverare il bestiame e botteghe destinate alla lavorazione del metallo prezioso.

Gli edifici principali erano quelli destinati al culto, e si trovavano nel complesso del palazzo.  Situati in boschetti sacri, alcuni santuari presentano un altare centrale talvolta limitato a una grande pietra. Sulle montagne quei santuari risultano ancora più primitivi, sempre costruiti su rocce e in funzione di sacrifici cruenti, con piscine e canali per la raccolta e il deflusso del sangue delle vittime nella terra”.

. Non sarebbe certamente il caso di trascurare la splendida Età del Bronzo nordica e baltica, soprattutto in considerazione della circostanza che abbiamo il piacere di avere come relatore ospite di questo corso, certamente più illustre del sottoscritto, l’ingegner Felice Vinci, di cui è nota l’ipotesi che proprio questo mondo nordico sarebbe stato il reale scenario delle vicende raccontate nei poemi omerici, e mi permetto a questo riguardo di citare un brano tratto dal suo libro Omero nel Baltico:

Proprio nell’area circostante l’Orrdalsklint sono state rinvenute tracce antichissime della presenza umana, databili addirittura al 6000 a. C. (e accuratamente ricostruite sul posto)…Forse meno suggestivo ma altrettanto importante, è la constatazione che nel territorio di Aland si riscontrano tracce specifiche dell’epoca che ci interessa : in particolare in un’altura nel nord dell’isola è stato individuato un sito fortificato (“Fornborgen”) risalente all’età del bronzo, su un lato del quale sono tuttora visibili i resti di antiche mura formate da grosse pietre sovrapposte” (pag. 224).

L’archeologia ci attesta la grande fioritura dell’età del bronzo nel nord dell’Europa, in particolare in Scandinavia e in Danimarca; ma pensiamo anche alle splendide spade ritrovate nell’area di Salo, non lontano da Toija, ora esposte al Museo Nazionale di Helsinki (…) In tale periodo questa civiltà aiutata dall’accrescersi del commercio, si sviluppò fino ad un’altezza mirabile, la quale supera indiscutibilmente per i suoi prodotti, per la nobiltà della forma e il gusto dell’ornamentazione degli oggetti bronzei, la corrispondente civiltà del bronzo della Germania meridionale e occidentale, e attesta l’alto tenore di vita dei suoi rappresentanti. Si costruisce un’industria stabile e altamente progredita della fusione del bronzo. In particolare, è da sottolineare il fatto che l’arte della fusione raggiunse una perfezione tale che solo le più squisite opere della civiltà egeo-micenea possono reggere al confronto.

E con questo materiale i popoli di allora riuscivano a fare cose straordinarie: la ricchezza delle forme degli oggetti di bronzo germanici era stupefacente: c’erano spade preziose, ornamenti pregiati, dischi cultuali incrostati d’oro, fermagli, fibule, elmi, scudi, collari e persino completi nécessaires con rasoi e attrezzi per la cura di unghie e orecchie. Già millecinquecento anni prima dell’arrivo dei Romani, nelle terre del nord vi erano condizioni di vita e di civiltà tali da poter essere paragonate soltanto alla civiltà greca dello stesso periodo. Chiunque abbia visitato le sale del Museo Nazionale di Copenaghen dedicato all’età del bronzo non potrà che condividere tale affermazione. (pag. 242 -243).

[L’archeologia] nordica ha da tempo rilevato singolarissime correlazioni tra le manifestazioni dell’età del bronzo in Scandinavia e le coeve civiltà mediterranee. Ci riferiamo in particolare ad uno straordinario monumento funerario ritrovato nei pressi di Kivik (Svezia meridionale): si tratta di un imponente tumulo di pietre di forma circolare, del diametro di ben 75 metri denominato “Bredadror”, contenente un sarcofago, lungo circa 4 metri, costituito di lastre di pietra squadrate su cui sono incise figure sia umane sia di animali od oggetti stilizzati come asce o ruote: il tutto si presenta a suggestivi accostamenti con analoghi reperti dell’area sia egea sia del Vicino Oriente. Sull’argomento fa testo un recente studio del prof. Klavs Randsborg, Kivik Archaeology and Iconography: esso inizia con la storia del ritrovamento, a partire dal XVIII secolo e la descrizione dei reperti (capp. 1-5); seguono i parallelismi nel contesto nordico-scandinavo (capp. 6-9) e, infine si analizzano in dettaglio le figure graffite sulle lastre della tomba (cap. 10), accostandole tra l’altro alle immagini del sarcofago cretese di Hagia Triada (cap. 11) e alle stele delle tombe di Micene (Appendice).

Emergono insomma tra questo grande tumulo svedese e le opere dell’età del bronzo egea analogie sconcertanti, che già in passato avevano colpito gli studiosi, al punto da indurre uno studioso dell’Ottocento ad attribuire la costruzione della tomba addirittura ai Fenici. Va notato che il Randsborg procede in questi accostamenti con grande cautela, dopo aver avvertito che “Other allusions are left to the reader”, (“altre allusioni vengono lasciate al lettore”). Ciò è ben comprensibile: le affinità tra un fenomeno macroscopico come la tomba di Kivik e le coeve civiltà mediterranee appaiono affatto inspiegabili, a meno di ammettere un radicale cambiamento di prospettiva (…).

Notiamo che graffiti rupestri, sul genere di quelli incisi sulle lastre della tomba di Kivik, sono tipici di tutta l’età del bronzo nordica. Essi sono incentrati su tre principali soggetti di interesse: navi e navigli, agricoltura e bestiame, armi e combattimenti singoli”.

Abbiamo visto che il livello di civiltà dell’Europa antica è in genere gravemente sottovalutato da quanti sono ipnotizzati dal miraggio orientale, che ci sono inoltre buoni motivi per attribuire all’Europa piuttosto che al Medio Oriente numerose scoperte importanti che hanno segnato il passaggio alla civiltà: dall’allevamento bovino, alla scoperta dei metalli, alla misurazione del tempo, forse all’agricoltura. Una scoperta fondamentale, che segna il trapasso dalla preistoria alla storia documentata e rende più sicuro l’incivilimento umano, perché la conoscenza può passare da una generazione a un’altra e da un’epoca, da una civiltà a un’altra per una via meno labile, meno soggetta alle deformazioni della memoria della trasmissione orale, è certamente l’invenzione della scrittura, però anche riguardo a questa invenzione occorre dire che nella realtà le cose sono un po’ diverse da come di solito vengono raccontate.

Cominciamo con il distinguere le scritture alfabetiche da quelle non alfabetiche. Queste ultime, che rappresentano le forme più antiche, non hanno raggiunto la divisione della sillaba in vocale e consonante, e possono essere ideografiche, cioè ogni segno esprime un concetto, oppure sillabiche, ogni segno sta per una sillaba, un suono. Di fatto la maggior parte delle scritture non alfabetiche, come i geroglifici egizi, i caratteri cuneiformi, la scrittura cinese, quella giapponese, sono una mescolanza fra le due cose. Lo svantaggio rispetto alle scritture alfabetiche è evidente: esse richiedono centinaia di segni contro la ventina che occorre conoscere per esprimere ogni concetto in un qualsiasi alfabeto. Per questi motivi, fin quando e là dove sono rimaste in uso, il saper leggere e scrivere è stato perlopiù patrimonio di una casta specializzata di scribi.

L’invenzione dell’alfabeto è perlopiù attribuita ai Fenici, ma in effetti l’alfabeto fenicio sembra essere una semplificazione della scrittura demotica egizia (il “corsivo” di uso comune rispetto alla complessità dei geroglifici), resa possibile dal fatto che nelle lingue semitiche non sembra importante avere segni per rappresentare i suoni vocalici. Il problema di questo tipo di scrittura è la sua ambiguità: scrivo CN, potrebbe voler dire cane, cena, cono, Cina. Vediamo ad esempio la Bibbia il cui originale è scritto in alfabeto ebraico, immediatamente derivato da quello fenicio, perlopiù la si interpreta come un testo religioso, ma qualcuno, ad esempio Mauro Biglino, l’interpreta come una storia di UFO.

La vera invenzione dell’alfabeto, con la divisione della sillaba in consonante e vocale e l’introduzione degli spazi fra le parole, il metodo semplice e pratico che usiamo ancora oggi, rimasto sostanzialmente invariato da due millenni e mezzo, è stata opera dei Greci. La fissione della sillaba, ha detto qualcuno, è stata un’invenzione d’importanza paragonabile alla fissione dell’atomo.

Non solo, dunque l’alfabeto va considerato un’invenzione europea piuttosto che mediorientale, ma è sul nostro continente, non nella Mezzaluna Fertile o in Anatolia che troviamo i più antichi esempi di scrittura conosciuti in assoluto. La storia non è recente, ma pare che finora sia stata avvolta da un muro di silenzio, un coverage nemmeno si trattasse di un segreto militare.

Nel 1963, l’archeologo romeno Nicolae Vlassa, scavando nel sito di Turda in Romania appartenente alla cultura nota come Vinca, portò alla luce delle tavolette coperte di segni che per il loro aspetto inconsueto chiamò “di Tartaria”, anche se con i Tartari non hanno nulla a che fare. Non solo si dovette riconoscere che esse erano esempi di una scrittura vera e propria, ma fu chiaro che altri segni analoghi trovati su reperti della stessa cultura, fin allora scambiati per semplici motivi decorativi, lo erano del pari, e questa è la maggiore sorpresa, i reperti della cultura Vinca erano di almeno mille anni più antichi dei più antichi pittogrammi sumerici conosciuti, ritenuti fin allora la più antica forma di scrittura.

Oggi si riconosce che questa scrittura, diffusa nell’area danubiana, era patrimonio di una cultura il cui livello civile è stato sicuramente sottovalutato, indicata come cultura o civiltà del Danubio, ma tutto ciò non è arrivato né sui libri di testo né in qualche modo al grosso pubblico, sebbene non è che di tempo dal 1963 a ora non ne sia trascorso.

La civiltà europea si segnala per la sua originalità e creatività fin dalle sue più remote origini, un’eredità della quale non possiamo che essere fieri.

Fabio Calabrese

NOTA: Nell’illustrazione, a sinistra il mausoleo di Teodorico a Ravenna, con la sua sorprendente cupola monolitica, al centro, particolare di un affresco etrusco, a destra, traci in una pittura greca.

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