Ci sarà tempo per valutare le conseguenze delle elezioni europee del 9 giugno, le ricadute italiane, le dinamiche dell’UE e l’influenza sul quadro internazionale. Per ora ci limitiamo a osservare la fragorosa sconfitta dell’asse franco – tedesco che governa l’Unione da decenni; l’evidente contrarietà dei popoli d’Europa al bellicismo antirusso; lo spostamento a destra non clamoroso ma progressivo, consolidato nel tempo, delle opinioni pubbliche. Su tutto rileviamo l’inutilità di un parlamento che non legifera e non decide, lo scollamento crescente tra governi, classi dirigenti e popoli segnalato dall’astensione (in Italia superiore al cinquanta per cento) e dal successo – in qualche caso l’irruzione – di nuove forze politiche.
L’arretramento delle forze politiche tradizionali – socialisti, popolari, liberali – è generalizzato, benché disomogeneo, poiché molto diverse sono le culture dei vari paesi. Le sconfitte di Macron in Francia e di Scholz in Germania sono tuttavia troppo clamorose per non diventare storia. L’asse dei bellicosi e dei guerrafondai non trova consenso: un dato confortante. Prosegue il processo di scomposizione valoriale: più conservatori i ceti popolari, più progressisti quelli elevati, metropolitani. Anche l’atteggiamento nei confronti della guerra è cambiato rispetto al passato: non più destre bellicose e sinistre pacifiste. Il fosco linguaggio delle armi appartiene al centrosinistra liberal, ideologia dei dominanti. Un esempio è un incredibile titolo di Repubblica nell’ anniversario dello sbarco alleato nella Seconda guerra mondiale: Kiev, la nuova Normandia. Alle armi contro l’Hitler del Cremlino.
Incoraggiante è il successo del partito di Sahra Wagenknecht, intellettuale tedesca “rossobruna” che oltrepassa il sei per cento da zero. La Wagenknecht, autrice del best seller Contro la sinistra neoliberale, ha proposto provocatoriamente ai partiti di governo – socialdemocratici, verdi e liberali – di formare un battaglione di politici e dei loro figli, se vogliono la guerra. Avanza, sino a diventare la seconda forza in Germania, Alternative fuer Deutschland, nonostante censure e persecuzioni legali. Capiremo nelle prossime settimane se la batosta di Macron, l’ex enfant prodige della casata Rothschild, diventerà disfatta alle elezioni legislative francesi, o se funzionerà ancora il riflesso pavloviano che oltralpe chiamano repubblicano, l’union sacrèe anti Le Pen.
Tra le grandi nazioni, solo l’Italia conferma il consenso al governo in carica. Due milioni e quattrocentomila preferenze per “Giorgia” – piacciano o meno – significano qualcosa. Gli effetti Vannacci e Salis – uguali e contrari – tengono in piedi Lega e sinistra radicale, mentre cambiano gli equilibri a sinistra; avanza il PD (anche per merito di candidature molto popolari) e crolla il Movimento Cinque Stelle. L’unica stella rimasta è Pasquale Tridico, il padre del reddito di cittadinanza. Desta ilarità la sconfitta degli ultrà di Stati Uniti d’Europa (brrr…) capitanati dalla Bonino, a cui non serve la manforte di un Renzi ingrigito. Stecca anche Calenda: due galletti diventati capponi nello stesso pollaio, alle prese con l’opacità di una proposta politica che non oltrepassa il recinto dei ceti riflessivi e abbienti. L’autentico voto conservatore nella palude degli interessi.
Innegabile la Waterloo dei sedicenti “antisistema”. Relegata al prefisso telefonico la strana coppia Rizzo – Toscano (penalizzata dall’assenza nella maggior parte delle circoscrizioni) arranca Michele Santoro, la cui lista pacifista e “laburista” era forse troppo poco ideologica – quindi non attraente – per l’elettorato più schierato a sinistra, che ha preferito AVS. Comico l’esito della lista di Cateno De Luca (Libertà) ferma a un umiliante 1,3 per cento, nonostante l’enorme numero di simboli e movimenti inseriti nel contrassegno. Doppia constatazione: la confusione cromatica, il guazzabuglio incomprensibile allontanano l’elettore, e molti simboli sono risultati solo la proiezione egolatrica di aspiranti leader di cartavelina. Personaggi in cerca d’autore, o di una poltrona. Come capiva in anticipo ogni persona sensata.
A destra – usiamo per comodità termini che rappresentano poco la realtà – il successo di FDI e lo stesso exploit di Vannacci sembrano confermare la sostanziale adesione – con sfumature che non intaccano la sostanza – degli elettori di quell’area all’agenda europea e atlantica. Polverizzato il dissenso conservatore, assente Indipendenza di Alemanno, sepolto senza rimpianti il radicalismo di destra chiuso nel passato, ridotta al silenzio ogni tendenza antieuro e anti UE, restano solo macerie. Di qualunque orientamento, la galassia antisistema rafforza l’esercito del non voto, diventato maggioranza aritmetica.
Che fare, allora? Chi trovasse la formula giusta, avrebbe davanti a sé praterie elettorali, negate a capetti improponibili, quasi sempre gatekeeper, ossia finti avversari del sistema, creati per tenere a freno un dissenso vasto, probabilmente maggioritario, ma privo di un denominatore comune. Le troppe delusioni prodotte da chi aveva incarnato le varie anime dell’opposizione al sistema rendono diffidenti. Nel caso italiano, nessuna offerta politica era davvero antagonista: nessun accenno alla fuoriuscita dalla gabbia dell’euro, nessuno metteva in discussione l’UE o la Nato. Nessuna alternativa al modello socioeconomico liberal liberista: in quasi tutta Europa, i sedicenti socialisti sono semplici progressisti d’accordo con l’Agenda 2030, le privatizzazioni, le teorie gender e la mistica dei nuovi “diritti” individuali e sessuali. Le destre non liberali ottengono consensi su programmi economici, sociali, finanziari e culturali alternativi, rivendicano sovranità e avversano il modello egemonico americano, poi – conquistati i voti, qualche volta responsabilità di governo – si accucciano mansueti ai piedi del padrone. Panorama simile dall’altro lato, dove la devozione per i diritti “civili” ha distrutto ogni rivendicazione sociale e la parola socialismo viene raramente pronunciata.
Se questo è il catalogo, ovvio che ogni tendenza non adattiva, antagonista in termini di principi, interessi, visione della vita, non trovi rappresentanza. Strana democrazia che non rappresenta e addirittura vanta la rinuncia alla sovranità nazionale, come il presidente Mattarella che ha evocato una inquietante “sovranità europea”. I più si rifugiano nel non voto, nell’indifferenza, nel rancore. Altri votano per chi ritengono il meno peggio, o per dispetto, in odio all’avversario. Tipico l’appello della sinistra a votare contro la destra, ma abbiamo ascoltato esponenti di destra assicurare senza rossore che “il peggior governo di destra è migliore del governo migliore di sinistra”. Opposte tifoserie appostate nelle curve ultrà, con vuoti sempre più larghi.
Si è tentati di pensare che sia l’anno zero. Non è vero: il consenso reale del sistema è basso, la distanza tra chi governa – élite o oligarchie – e i popoli sono immense, crescenti quanto le differenze di reddito, prospettive, diritti reali. Bisogna attrezzarsi per recuperare un’egemonia culturale (e di comunicazione) saldamente conquistata dall’avversario. Non è solo questione di idee e programmi. Serve un salto di linguaggio, di comunicazione, un approccio che proietti all’attacco, non in difesa di una Fortezza Bastiani che nessuno più attacca perché è stata abbandonata, come nel Deserto dei Tartari di Dino Buzzati.
Viviamo nell’era del vuoto, teorizzata da Gilles Lipovetsky in un saggio che vendette un milione di copie in Francia, assai influente in molti paesi e pressoché ignorato da noi. La politica è cambiata molto meno della società: per questo non ne intercetta linguaggio, novità, tendenze. È vecchia nelle parole, nelle forme e nei mezzi di comunicazione prima ancora che nei programmi, intercambiabili e incomprensibili soprattutto alle generazioni più giovani. Chi riesce a mutare d’accento, chi sa rivolgersi a una parte della società indifferente, dormiente, in tutt’altre faccende affaccendata, coglie nel segno. Talvolta diventa fenomeno mediatico. È il caso, in Italia, della giovane youtuber romana Pubble, dall’umorismo intelligente e tagliente, nazionalpopolare, capace di rovesciare i luoghi comuni e diventare un’influente bussola politica.
La festa del nemico oligarchico, della politica venduta o connivente continua, ma esiste qualche fenditura; il vuoto non è più totale, qua e là si intravvedono i segnali di un mondo che scricchiola, i prodromi di un cambio di paradigma, unica speranza di arrestare il declino della civiltà, ma anche di principi, interessi, bisogni che nessuno più rappresenta. Un segnale arriva dalla Spagna, nazione per molti versi sorella della nostra. L’orgia progressista non è certa terminata, la timidezza dei suoi avversari continua a rendere difficile un’inversione di marcia, ma le elezioni europee permettono un cauto ottimismo. Non tanto per il sorpasso del centrista Partito Popolare ai danni dei socialisti, e neppure per l’arretramento contemporaneo degli alleati di governo, la maggioranza Frankenstein composta, oltreché dai socialisti, dalla sinistra radicale e dai separatisti baschi, catalani e galiziani di destra, centro e sinistra.
La novità non proviene dalle famiglie politiche tradizionali, ma da un gruppo sconosciuto sino a qualche settimana fa, ignorato da TV e giornali, trascurato dagli istituti demoscopici, privo di sedi e finanziamenti, praticamente senza una vera classe dirigente. Solo nell’ultima settimana si è percepito che qualcosa cresceva nella rete e nei social media, Instagram, Tik Tok e nei canali Telegram che si andavano formando, mentre X di Elon Musk (in barba alla conclamata libertà che ostenta) sospendeva gli account per discorso dannoso”, harmful speech. Il fenomeno si chiama Alvise, pseudonimo del fondatore e frontman, Luìs Pérez Fernàndez, trentenne esperto di comunicazione giovanile, maestro nell’utilizzo dei nuovi media, capace di parlare in maniera diretta, semplice e senza mezzi termini a una platea di seguaci (i follower) che si ingrossa di giorno in giorno.
Già collaboratore di partiti moderati (Ciudadanos, Uniòn Progreso y Democracia, praticamente scomparsi) si è messo in proprio e ha fatto centro al primo colpo. Organizzatore di riuscite proteste contro il governo Sànchez, inviso alle destre tradizionali, visto come il fumo negli occhi dalla galassia progressista, è riuscito a trovare le quindicimila firme per partecipare alle elezioni europee (dieci volte meno che in Italia!) e ha ottenuto oltre ottocentomila voti, il 4,6 per cento, portando se stesso e due semi sconosciuti sodali a Bruxelles. Non ha potuto concorrere al voto come Alvise (la legge spagnola vieta denominazioni personali) e ha avuto un’altra idea geniale. Ha chiamato in gran fretta il suo movimento Se ha acabado la fiesta (La festa è finita), un’espressione idiomatica nota a tutti gli spagnoli, di evidente significato. I suoi sostenitori si chiamano “scoiattolini” (ardillitas) ha scelto un cromatismo inedito in cui predomina il marrone scuro e un simbolo molto significativo per il popolo del web, la maschera di Guy Fawkes, rivoluzionario del XVII secolo, simbolo di Anonymous, il movimento decentralizzato di attivismo hacker noto per attacchi informatici contro imprese e istituzioni governative.
Le idee di Alvise, con la consueta sbrigativa spocchia di chi vede contestato il suo potere, sono impropriamente classificate come di estrema destra. Non è così. Si tratta, eventualmente, dell’emersione “politica” del fenomeno letterario, mediatico e culturale cyberpunk, la tendenza che negli ultimi quarant’anni ha riformulato il rapporto tra letteratura fantascientifica e immaginario tecnologico, influenzando le controculture e i movimenti che usano Internet come strumento di contestazione e di critica sociale.
L’analisi del fenomeno Alvise merita un approfondimento, per capire se si tratta del colpo fortunato di uno spregiudicato pirata delle reti sociali o se segna un punto di inflessione, un’opportunità nel mondo dell’attivismo antagonista che non trova una linea condivisa, una mappa concettuale e un programma in grado di insidiare il sistema, un gigante dai piedi di argilla che nessuno, finora, ha saputo scalfire. Ne parleremo nella seconda parte dell’elaborato.