Quando è nato l’imperialismo americano? Gli storici sono concordi nell’indicare una data: il 1823, quando l’allora Presidente degli Stati Uniti d’America, James Monroe, affermò solennemente la “dottrina” che da lui prese il nome. In verità, la cosiddetta Dottrina di Monroe fu di fatto un documento di politica estera – dal sapore chiaramente intimidatorio – diretto ai governi europei, diffidati dall’ingerire nelle questioni delle Americhe (del Nord e del Sud); questioni che il governo di Washington pretendeva essere di propria esclusiva competenza.
Nel tempo, le veline della propaganda a stelle e strisce hanno ammantato di nobili ideali anticolonialisti la Dottrina di Monroe. Ma, in realtà, si trattava solo di una manifestazione di prepotenza, diretta principalmente a sostituire lo storico colonialismo europeo nell’America Latina con il nuovo colonialismo yankee, certamente più predatorio e – nonostante le apparenze – più liberticida del precedente.
L’Europa accettò quel diktat senza fiatare (pur essendosi in piena epoca colonialista), e così gli Stati Uniti furono lasciati liberi di sottrarre il Texas al Messico, di instaurare un protettorato di fatto nell’America Centrale e Caraibica, e di installare nell’America del Sud tutta una serie di governi-fantoccio, civili o militari che fossero. Da allora e fino ai nostri giorni, i pochi oppositori realmente pericolosi sono stati abbattuti da provvidenziali golpe (come l’argentino Peròn) o strangolati dagli embargo (come il cubano Fidel Castro).
Ma quel che non veniva compreso dall’Europa dell’Ottocento (e stendiamo un pietoso velo sull’Europa di oggi) era che, alla pretesa di incontrastata supremazia USA sul Continente americano, non faceva riscontro un parallelo disinteresse per le vicende del Vecchio Continente. Anzi, una volta ricostituito lo storico legame di sostanziale complicità con la madrepatria coloniale (l’Inghilterra) gli Stati Uniti presero ad ingerire sempre più pesantemente – per interposta nazione – negli affari europei.
L’obiettivo primario della politica americana era – ed è tutt’ora – la possibilità di accedere liberamente al ricco mercato europeo, inondandolo con la mole della loro produzione agricola, dei loro manufatti industriali e – non ultimo – dei loro capitali. Quando, accampando una propaganda “ideologica” smaccatamente bugiarda, gli USA decisero di intervenire nella Prima Guerra Mondiale – e quindi di interferire violentemente negli equilibri europei – un Presidente sommamente arrogante come Woodrow Wilson ebbe l’impudenza di esplicitare questo progetto, enunciandolo a chiare lettere nel 3° dei sui famosi “Quattordici Punti”: «Soppressione, fino al limite estremo del possibile, di tutte le barriere economiche, e creazione di condizioni di parità nei riguardi degli scambi commerciali fra tutti i paesi che aderiranno alla pace e si uniranno per il mantenimento di essa.» Era una chiara richiesta di ciò che ai nostri giorni si chiama “globalizzazione”; e che, oggi come ieri, ha il solo scopo di favorire sfacciatamente l’economia americana a detrimento di quella europea.
Allora l’operazione non riuscì, perché tutte le nazioni europee – pur continuando a litigare fra loro – furono concordi nel non offrire il collo alla mannaia del boia. Tuttavia, le ingiustizie di Versailles e degli altri trattati di pace furono propedeutiche allo scoppio di una nuova guerra mondiale. E, ancora una volta, gli Stati Uniti intervennero a gamba tesa nelle cose europee, determinando con la loro potenza economica pure l’esito del nuovo conflitto.
Tuttavia, neanche questa volta Washington riuscì ad imporre le sue regole al mondo intero. E vennero perciò gli anni della “guerra fredda”, una sorta di terzo conflitto mondiale (ancorché non dichiarato) con il quale gli USA misero alle corde e poi definitivamente sconfissero lo scomodo alleato della guerra precedente, la Russia sovietica.
A partire dall’ultimo scorcio del secolo scorso, infine – una volta rimasta l’unica superpotenza militare del pianeta – l’America ha iniziato la battaglia finale per la conquista dell’Europa. E lo ha fatto, anche questa volta, con falsa riluttanza, mandando avanti certi suoi alleati mediorientali o, talora, le strane “fondazioni” di alcuni iperattivi filantropi miliardari. È questo sottobosco che ha teorizzato, ispirato, armato e finanziato le “rivoluzioni colorate” americaniste ai margini dell’ex impero sovietico (Serbia 2000, Georgia 2003, Ukraina 2004, Kirghizistan 2005) e poi le “primavere arabe” del 2010-2011 (Tunisia, Libia, Egitto, Siria, eccetera) con il loro brutale sèguito di guerre civili, terrorismi, fondamentalismi, stragi e torture. Ultima espressione di questa infernale mistura è un assai misterioso ISIS, il simil-Stato cui è stato assegnato il còmpito di minacciare l’Islam sciita (Iran, Iraq, Siria, Libano, eccetera) e – attraverso una escrescenza libica – l’Europa meridionale.
Nulla di tutto questo, naturalmente, trapela dai documenti ufficiali. Anzi, apparentemente gli Stati Uniti d’America continuano a svolgere il ruolo di grandi alleati e di grandi protettori dell’Europa. Ma, stranamente, hanno impiegato tutta la loro potenza militare solo contro i regimi arabi laici che non nuocevano ai nostri interessi (dall’Iraq di Saddam Hussein alla Libia di Gheddafi), mentre hanno riservato soltanto punture di spillo contro l’ISIS mediorientale, e neanche quelle contro l’ISIS libico.
C’è poi il capitolo – pure questo misteriosissimo – dell’invasione africana (camuffata da migrazione “spontanea”) che minaccia i confini dell’Europa. Si tuona contro gli scafisti, contro i mercanti di uomini che lucrano sull’ultimo tratto di viaggio dei migranti; ma nulla si dice e, tanto meno, si fa contro coloro che – nei paesi d’origine – propagandano la migrazione verso l’Europa e organizzano le carovane che attraversano mezza Africa prima di raggiungere l’ultima tappa in Libia o in Marocco. Come mai? Forse perché, se si andasse alla ricerca degli originari input della migrazione clandestina, si potrebbe scoprire che il primo anello della catena non è africano ma – chessò – americano?
Anche qui, le mie sono soltanto opinioni, per di più “eretiche”. Ma non posso fare a meno di osservare come tante tessere comincino a trovare una loro collocazione all’interno di un vasto mosaico che va componendosi: la nascita di un terrorismo islamico dall’inconfondibile puzzo di petrolio, le avanguardie di una migrazione africana dagli effetti imprevedibili, l’agitarsi di israeliani e sauditi per frantumare gli Stati medioorientali (Iraq, Siria, Libano), la sanguinosa provocazione ukraina che potrebbe sfociare in un conflitto armato, e – ultimo non ultimo – l’aggressione della globalizzazione finanziaria contro gli equilibri economico-sociali del pianeta.
Al centro di questo mosaico, l’Europa. Tutto intorno, una gigantesca operazione militar-finanziaria che mira a destabilizzare il Vecchio Continente, a precipitarlo nel caos, a isolarlo dai suoi potenziali alleati dell’est e ad esporlo agli attacchi dei suoi nemici del sud.
Ogni tanto, qualche “voce dal sen fuggita” lascia trasparire l’ostilità dell’establishment statunitense nei confronti dell’Europa. Come i ripetuti attacchi al nostro ormai smantellato sistema sociale; un sistema che – pur se ridotto all’osso – conserverebbe ancora pericolose tracce di “socialismo”. O come i pressanti inviti ad aprire i nostri confini all’immigrazione, più di quanto non siano già spalancati.
Naturalmente, queste reprimenda non provengono ufficialmente dal governo americano, ma da centri di potere, fondazioni, comitati, think-tank, lobby finanziarie e organismi in un modo o nell’altro vicini all’intelligence; per tacere, ovviamente, di quegli autorevoli quotidiani che “fanno opinione” e che, spesso e volentieri, svolgono il ruolo di portavoce ufficiosi della politica americana “che conta”. Prendete il più autorevole di tutti, il “New York Times”, un giornalone che il è modello massimo da cui traggono ispirazione i valvassori del giornalismo politico di casa nostra. Ecco la sua ricetta per risolvere il problema dell’immigrazione clandestina: «smantellare la Fortezza Europea, aprire strade legali all’immigrazione». Gli americani, però, hanno costruito un muro anti-immigrati alto 4 metri, che corre lungo tutto il confine col Messico.
Ma torniamo al nocciolo della questione: agli americani non è mai andato giù che l’Europa si difendesse, che si facesse “fortezza”. A loro serve un’Europa “aperta”, indifesa, buonista e citrulla, magari a tal punto rincoglionita da non accorgersi di chi, dietro le quinte, manovri per asservirla ai propri scopi.