“E certamente Dike sorprenderà artefici e testimoni di menzogne” (Eraclito)
Non credo che molti obietteranno se dico che Ezra Pound fu uno dei più influenti poeti del ‘900, genio audace, uomo di immensa cultura, acuto critico d’arte, di musica, di letteratura, spirito dalla versatilità rinascimentale e di eccezionale tempra morale. Ma solo in un’enciclopedia del futuro si potrà forse giudicare con imparzialità anche il valore e il senso della sua condotta politica. Per noi, vincolati a ineludibili e contingenti paradigmi culturali, questo è impossibile. Troppi pregiudizi e ombre di follia gravano ancora sulle visioni e sulle scelte politiche di Pound.
Si può supporre che la cosiddetta ‘liberazione’ gli sia parsa come un trionfo del Male e una sventura per l’umanità, e questo nonostante che gli artefici di quella vittoria maligna fossero i suoi stessi connazionali. “Questo dimostra che era pazzo”, diranno i benpensanti, con un sillogismo ovvio per loro ma non certo per Pound. Gli mancava infatti quella luce che a noi viene da un pensiero svettante e monolitico, come un faro che ci guida, indicandoci dove stavano in passato il bene e il male, la verità e la menzogna (e a maggior ragione dove stanno oggi).
Sta di fatto che i ‘liberatori’ lo chiusero in una gabbia di ferro e cemento di un metro e mezzo, sotto il sole cocente, illuminata di notte dai riflettori, e ve lo lasciarono per tre settimane. E dopo questa strana terapia, più idonea a indurre la pazzia che a curarla, lo internarono per dodici anni in un manicomio criminale (ma Pound dirà poi che tutta l’America è un manicomio). Storia emblematica della nostra difficoltà a capire dove stia la vera pazzia in questo mondo. E su questo dilemma potrei arrovellarmi all’infinito.
In sostanza, Pound riconosceva nella “civiltà dell’usura” – legata alla finanza internazionale e alle grandi banche – il Male che scorre come una linfa velenosa nella moderna storia occidentale. Denunciava i piani di dominio mondiale di una cupola plutocratica, i cui effetti nefasti erano visibili nel progressivo e insanabile indebitamento degli Stati, nella perdita delle sovranità nazionali, nell’impoverimento dei popoli, nella corruzione dei costumi e delle culture.
Per i ‘liberatori’ tali idee indicavano una schizofrenia paranoide, un’aberrazione dell’intelletto (oggi si direbbe: “complottismo”). Inoltre, tragica aggravante, Pound vedeva nel fascismo il baluardo, la vera ‘resistenza’ contro l’imperialismo del denaro. Per i sacerdoti della ‘verità storica’ questa era pura blasfemia, e il bestemmiatore andava punito, anche se grande poeta. Del resto, storia e poesia sono antiche nemiche. Fatta di verità la poesia, di opportunità politiche la storia. La poesia è constatazione, la storia è manipolazione.
Anche nella società in cui viviamo è fatto obbligo d’aderire ad alcuni principi o miti fondanti, direi midollari – come la democrazia, la libertà, l’antifascismo – indipendentemente dal loro concreto attuarsi nella prassi sociale. La nostra cultura è una cerimoniosa ostensione di feticci. Questa forzata condivisione di tipo etico-teorico si riflette in una certa omogeneità del pensiero, dei giudizi storici, delle valutazioni politiche ecc. L’obiezione è concessa se sfiora l’epidermide del sistema e non pretende di andare più sotto, toccando i nervi e le ossa. Nel caso si osi penetrare più a fondo, si viene bloccati da un’immediata reazione censoria, come da fisiologici anticorpi.
Vengono ammesse solo quelle critiche di per sé inoffensive, che non turbano l’assetto generale, utili a liquidare alcune tensioni e a creare la sensazione di un dibattito liberale, di un democratico ‘pluralismo di idee’. Ma se esprimono una reale contestazione, si impedisce alle idee e alla loro potenziale carica contagiosa di uscire da uno stato di marginalità e di aver libero corso.
La diffusione di idee divergenti e socialmente pericolose si previene con una sorta di vaccinazione obbligatoria cui, per il bene comune, ogni buon cittadino deve sottoporsi. Non per contrastare l’influenza o altri malanni fisici di cui si esagera l’importanza, ma per scongiurare una temibile epidemia di libero pensiero. Ogni Stato si impegna quindi nella lotta a questa rara patologia mentale attuando una profilassi scrupolosa – attraverso un’informazione ufficiale, una storiografia ufficiale, una moralità ufficiale ecc. – con cui sanificare sistematicamente i cervelli della gente.
Tuttavia, nonostante tutte le precauzioni prese, succede sempre che qualche mente si infetti. Ad esempio, v’è qualcuno che non condivide i sentimenti collettivi con cui anche ogni anno si celebra la ‘liberazione’. E confesso che anch’io, benché mi sforzi, non sento quei sicuri moti di commozione, gioia, gratitudine che dovrei spontaneamente provare. Resto dubbioso, perplesso. Forse perché non mi sento affatto liberato. Percepisco anzi privazioni di libertà sempre più dolorose. Ma son pazzo io nei miei dubbi, o gli altri nella loro certezza?
Pound diceva che un uomo deve avere il coraggio delle proprie idee. Se no, o non vale nulla lui o non valgono nulla le sue idee. Ma questo ci porterebbe a coltivare un pensiero autonomo e a dubitare dei dogmi della storia, di questi “bluff basati sull’ignoranza”, di queste apparenti ovvietà, rassicuranti come una fiaba più volte ascoltata. Di fatto, alla fatica di un’analisi personale la gente preferisce il dimorare in una comoda ortodossia. Ma a ogni cambio di guardia, a ogni nuovo vento di propaganda, l’ opinione pubblica è pronta a cambiar casa. E con la stessa convinzione crede ad altre favole, a nuovi catechismi.
Più che un desiderio del vero c’è negli uomini un istinto conformista e gregario. La coscienza diventa cassa di risonanza del pensiero ufficiale; un fascio di riflessi automatici, perfetti per marciare insieme, cantare all’unisono e tagliar la testa ai dubbi con luoghi comuni e parole d’ordine. Alla fine, tutti son liberi di dire ciò che pensano ma quasi nessuno è libero di pensare ciò che dice.
L’uomo moderno, abituato a cambiar abito mentale secondo le stagioni, infine non discrimina più tra fatti concreti e miti o affabulazioni del Potere. Prende per buoni gli ammaestramenti di pedagoghi accreditati pro tempore, oscillando in precario equilibrio tra ingenuità e ipocrisia. Perché, come dice Lucrezio, «quae bene et eximie quamvis disposta ferantur, longe sunt tamen a vera ratione repulsa» (“ma queste leggende, per quanto narrate con arte e ben congegnate, sono ben lontane dalla verità”).
Partecipare alla retorica del regime comporta sempre una rinuncia alla ragione e alla memoria. Non potremmo celebrare la ‘liberazione’ se ricordassimo le condizioni umilianti e vessatorie che i ‘liberatori’, applicando l’impietosa legge di Brenno, imposero ai ‘liberati’, e che questi accettarono abdicando al proprio onore, diventando di fatto dei servi. Così, mentre declamiamo i nostri ditirambi sulla libertà, dimentichiamo d’esser anche noi rinchiusi in una gabbia, in un manicomio criminale dove le terapie praticate dai medici sono i veri crimini.
Pensiamo che libertà sia scegliere da chi esser comandati, o che dipenda da un codice elettronico, da un protocollo sanitario; che non stia nella libera azione dello spirito ma nelle piccole concessioni di un Padrone, nelle apparenti deroghe alla nostra schiavitù. Illusioni che si pagano amaramente, imparando quant’è difficile liberarsi dei liberatori. In fondo, la vera pazzia è questa, credere che vi sia altra liberazione oltre quella che si conquista da sé stessi, oltre quella che nasce dalla verità.
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