Di Mario M. Merlino
Nell’organizzare delle noterelle – è prassi mettermi le piume del pavone e parlare a braccio nella ormai stonata e assurda convinzione di preservare eloquio facile fluido ed efficace, soprattutto di conservare buona memoria – in vista delle prime presentazioni del nuovo libro La guerra è finita e, come recita la quarta di copertina, ‘Ludovico e Gaetano, i protagonisti, si incontrano là dove si combattè per riscattare l’onore offeso della Patria dopo l’8 settembre del ‘43’, m’è tornato il desiderio di riproporre quanto ebbi a scrivere sulla Rivista della Cooperazione giuridica internazionale, anno 2005. Ne riporto il contenuto così come mi ritorna in mente.
Apprendo dai giornali e da uno scarno servizio del telegiornale come la Marina militare italiana, nell’anniversario dell’impresa di cui si dirà qui in breve, sessantatre anni dopo, ne ha voluto rendere omaggio dando il nome di ‘Scirè’ ad un nuovo sommergibile. Madrina del varo Elisabetta, la figlia di Emilio Bianchi, oggi novantaduenne, l’ultimo ancora in vita di quella pattuglia di valorosi. Ricordo d’avvenimento storico, di cui legittimamente il fregiarsene e di cui però s’è voluto tacitare chi ne ideò l’impresa e seppe condurla ad esecuzione e, cioè, quel Comandante Junio Valerio Borghese, forse perché si era schierato contro il tradimento del menzognero e già di per sé umiliante armistizio e catastrofica resa di fatto.
(Da mia madre, nata a New York e da quel paese riportando uno sdegno privo di sfumature e compromessi, ho imparato ad essere contro e in carne ossa e sangue prima che in riflessione storica e scelta di campo politica. Va però riconosciuto che, quando l’ambasciatore italiano a Washington, tale Alberto Tarchiani, si meravigliò che la città di Chicago conservasse una strada con il nome di Italo Balbo, autore della transvolata atlantica, e ne chiedesse la rimozione, venne ridicolizzato dal sindaco che, tra l’ironico e lo stupito, si chiese chi avesse compiuto quell’ardita impresa aviatoria).
Nella notte tra il 18 e il 19 dicembre 1941 il sommergibile Scirè, al cui comando vi era appunto il Tenente di Vascello M.d’O.V.M. (poi, va da sé, revocatagli) Borghese, si porta all’imboccatura del porto di Alessandria, alla cui fonda sono ancorate due corazzate inglesi ed altro naviglio militare e mercantile. Tre ‘maiali’, i siluri a lenta corsa ideati dal tenente del Genio Navale Teseo Tesei, con due piloti ciascuno superano la rete d’acciaio a protezione e infliggono la più pesante sconfitta nel Mediterraneo alla flotta britannica. Le cariche esplosive squarciarono le corazzate Valiant e Queen Elizabeth la petroliera Sagona e l’affiancato cacciatorpediniere Jervis.
Sei piloti ardimentosi, a cui venne assegnata medaglia d’oro. La settima si volle assegnare direttamente al sommergibile, onorando così l’impegno di tutti, il corale coinvolgimento per il conseguimento dell’esito positivo. Una impresa entrata nella leggenda, ineguagliata. Borghese la descrive in Decima Flottiglia Mas, libro in adozione e studio nelle Accademie navali di gran parte dei Paesi del mondo (credo d’aver già rammemorato come Yuri Gagarin, il primo astronauta sovietico, già ufficiale di Marina, a chi gli chiese quale libro italiano conoscesse, rispondesse senza esitazione che era quello del Comandante Borghese… Ci sono Paesi che sanno onorare l’eroismo proprio e altrui e paesi che lo temono l’aborrono lo rinnegano in linea con la stupida affermazione di Bertold Brecht).
Per l’occasione del varo, con una lettera aperta alla stampa, l’Ammiraglio di Squadra Sergio Biraghi, Capo di Stato Maggiore della Marina, ha tenuto a ricordare l’avvenimento. Ebbene: accanto ad un insieme di proposizioni di dubbia interpretazione (già la presenza di un esercito in un Paese che si dichiara, nella sua Costituzione, contrario alla guerra porta in sé qualche contraddizione di troppo), non una volta ha citato il Comandante Borghese che di quell’impresa fu animatore e guida. Timoroso, pensiamo, di dover aggiungere come, dopo l’8 settembre del ’43, Borghese appunto volle mantenere alto sul pennone della caserma di San Bartolomeo a La Spezia , il Tricolore, frettolosamente ammainato dal re e da Badoglio in fuga. Pur con un buco al centro dove, un tempo, campeggiava lo stemma sabaudo. Non si gridi allo scandalo, non si necessita. L’Ammiraglio Biraghi fa il suo mestiere, in un Paese dove la memoria collettiva è divisa (una memoria, a dir meglio, ridisegnata con zone grigie ed altre del tutto cancellate) e, di conseguenza, anche le Forze Armate rappresentano questa divisione. (E il sottoscritto ne sa qualcosa quando fu invitato a tenere una lezione di storia nella caserma dei sottufficiali di fanteria a Cesano).
Nessuno scandalo, dunque, ed evitiamo di evocare gli ormai defunti valori quali l’Onore e simili… sarebbe di cattivo gusto, non più appartenenti alla mente e al cuore, ma solo ridotti a questione di pancia… e al portafoglio e alla carriera perché la divisa è un mestiere, fra i tanti possibili, e non una vocazione, retta da un sentimento.
Mi piace, però, ricordare questo episodio, di cui fu il Comandante a farne menzione in una sera d’autunno nel suo castello di Artena. Anni dopo la fine della guerra egli e sua moglie Donna Daria, una principessa d’origine russa, si trovavano in viaggio in Gran Bretagna. Prima di rientrare in Italia furono invitati nell’esclusivo Club dell’Ammiragliato inglese. Al termine della cena l’Ammiraglio Cunningham, presidente del Club e già al comando della flotta inglese nel Mediterraneo dal 1940 al 1942, levò il bicchiere per il brindisi all’ospite, accompagnandolo con queste parole: ‘Comandante Borghese, quando sapevamo che Lei e i Suoi uomini eravate in mare, ci sentivamo dei sitting ducks (bersagli seduti che, in linguaggio marinaresco equivale ad essere sotto tiro senza possibilità di difendersi)’. Un atto di cortesia, certo, ma anche e soprattutto un atto di riconoscimento al valore e al merito. Fra avversari; fra gentiluomini. E Cunningham non poteva ignorare come Borghese avesse rifiutato l’armistizio, fedele alla parola data, accanto all’alleato tedesco nella Repubblica Sociale. Un
gesto di cortesia, un gesto d’antico ordine cavalleresco tra avversari. Insomma di stile, di quello stile che, con la sua sciocca omissione, è mancato a Sergio Biraghi, ammiraglio di questo presente…
gesto di cortesia, un gesto d’antico ordine cavalleresco tra avversari. Insomma di stile, di quello stile che, con la sua sciocca omissione, è mancato a Sergio Biraghi, ammiraglio di questo presente…
Ce ne dispiace, anzi no… perché i ‘nostri’ Capi venivano dal popolo ed erano uomini di popolo – un maestro elementare e, come avevano scritto su una t-shirt gli amici veronesi, ‘un imbianchino di Vienna’ –. Essi, nel bene (loro negato) e nel male (elevato ad assoluto), ci hanno lasciato uno stile e, ammoniva Nietzsche, ‘dove c’è uno stile, lì è passato un Capo’…
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