L’arte di femminile sembra avere solo il genere del sostantivo, ma così non è, scovare nella cantina bottiglie pregiate di Arianne baciate dalle Muse è impresa orfica nei cunicoli delle grotte resi inaccessibili dai luoghi comuni farciti di ignoranza.
L’arte si studia al maschile nei libri dei testi liceali, la Giuditta che uccide Oloferne di Artemisia Gentileschi celebre più per lo stupro subìto dallo “smargiasso” Agostino Tassi che per il suo talento, sopracciglie nere saldate, baffi e flebo negli autoritratti di Frida Kalho, la pruriginosa bisessualità nella pittura decó di Tamara De Lempicka, nient’ altro. Ad una mia allieva assegnai una ricerca sul tema delle sorelle Anguissola, lei tapina scoprì che non erano una famiglia che allevava capitoni, ma sei sorelle artiste del pieno ‘500. Ne restò assai sorpresa ma fiera d’orgoglio femminile nell’aver constatato che l’arte non ha genere ma pregiudizi; aveva superato il ponte levatoio del castello rosa, tutto adesso c’era da esplorare. Poi c’è quel clichè del fascismo solo mascella virile con la donna chiusa a far da chioccia nel pollaio di numerosa prole per la Patria. Ti scorrono le immagini del film “Una giornata particolare” del compagno Ettore Scola, neppure il gay perseguitato resiste al fascino della Loren tutta curve, casa e famiglia in camicia nera. C’ è venuto in mente di lanciare un sasso nello stagno sonnolento, tanto per incresparne quel brumoso specchio, perciò questa s’intenda come una provocazione cui seguiranno altre.
LINA ARPESANI
Dal cuore i versi, dal cielo le stelle:
voci di sogno e cenni di speranza
di là dal tempo: fratelli e sorelle,
come si pare a la lor somiglianza.
Lina è milanese, nata il 13 aprile del 1888 da una famiglia colta e benestante dell’alta borghesia meneghina, dopo la Maturità, nel 1905 come Carlo Carrà, si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Brera, ne uscirà nel 1910. Frequenta il corso di pittura diretto da Cesare Tallone ma ama ancor più la scultura, un genere quasi precluso ad una donna. Vuole misurarsi in entrambe le discipline e per imparare il mestiere di bottega frequenta lo studio di Eugenio Pellini in via Curtatone ( vicino a Porta Romana) rimasto intatto dal 1903 grazie alla cura dei nipoti. Eugenio era un “ tardo scapigliato” lombardo, amava il vero, l’autentico delle piccole cose quotidiane, vissute con comunione intima, metabolizzate a tal punto da aprirci squarci di riflessione esistenziale. Socialista della prima ora, partecipò ai moti dello stomaco del 1898 a Milano, rifugiandosi, per non essere arrestato, in quel di Varese. Fu scultore d’arte funebre e ritratti, meno fortunato con le opere pubbliche a ragione del suo orientamento politico come dell’ostracismo de “l’Angelo della morte” Renato Bistolfi. Lina da lui apprende i segreti di scalpellare il marmo, fondere il bronzo, modellare eìil gesso, cuocere la creta. Le scarne biografie riportano la frequentazione dell’Arpesani anche dello studio dell’emiliano Giuseppe Graziosi artista poliedrico assai attivo a Firenze ma docente di Plastica all’Accademia di Brera dal 1915. Il gancio tecnico-semantico alla modellazione restava il torinese Medardo Rosso artista di spicco della scultura scapigliata, antiaccademica, sfociata, con lui, nell’impressionismo luminoso delle sue cere. L’altro titano era Auguste Rodin per la sua capacità di plasmare l’argilla come carne vera dei suoi soggetti in contrasto con le superfici levigate, neutre, della scultura accademica, per entrambi i temi d’ispirazione venivano dall’esperienza sensibile, dalla realtà viva. Diceva quel meneghino di Michelangelo Merisi detto ( per vecchio errore anagrafico) Caravaggio:” Prendo in prestito dei corpi e degli oggetti, li dipingo per ricordare a me stesso la magia dell’equilibrio che regola l’universo…”.
L’esordio pubblico di Lina avviene nel 1909 alla Famiglia Artistica milanese, associazione fondata nel 1873 per valorizzare il promettente Parnaso degli artisti della Madunina, lei continuerà ad esporvi le sue opere, senza soluzione di continuità fino al 1919, affrontando soggetti apparentemente minimalisti legati al mondo dell’infanzia, della maternità, alla ritrattistica con sensibilità davvero femminile nel cogliere i piccoli sentimenti, ci ricorda tanto Giovanni Prini.
Nel biennio 1910-11 espone alle rassegne d’arte presso il palazzo della Permanente della città ambrosiana e nel 1913 all’Esposizione Internazione Femminile di Belle Arti al Parco del Valentino a Torino, rassegna sponsorizzata dalla rivista “Donna” diretta da Nino G. Caimi giornalista con le antenne ben tese a captare i segnali del movimento femminista internazionale. A Milano la selezione per le esposizioni era filtrata dall’Associazione Femminile per l’Arte della latinista Anzoletti perché era doveroso separare il grano dalla pula del dilettantismo pur favorendo, nel giudizio, i lavori ispirati alla tradizione lombarda. La critica al contrario aveva già preso sotto braccio le novità emergenti nel panorama artistico dell’Associazione, lodando in modo elegiaco le opere della pittrice Rosa Menni e delle scultrici Lina Arpesani e Thea Casalbore nelle quali si leggeva già quell’ andare oltre il modello stilistico di riferimento.
Un salto di qualità si ebbe nel 1912 con la fondazione di un sodalizio di sole donne il Lyceum Femminile promosso e finanziato dalle signore dell’alta borghesia imprenditoriale meneghina. All’interno della nuova associazione fiorì poi nel ‘14 la Federazione Artistica Femminile Italiana che elesse Lina Arpesani consigliera del quadrunvirato direttivo. Lo scopo era quello di promuovere esposizioni riservate solo alla creatività in rosa; già il 23 marzo dello stesso anno fu inaugurata la prima mostra in via Borgonuovo a Milano. Però la giuria tecnica, selezionatrice delle opere, era composta da soli uomini, che controsenso! Ammisero alla vernissage solo sei artiste, cinque nel campo della pittura ed una soltanto in quello della scultura Lina Arpesani per l’appunto.
Durissime le critiche di Margherita Sarfatti, non ai lavori, ma alla scelta di separare l’arte maschile da quella femminile costruendo, con il Lyceum, un “vagone per sole signore” quando la lotta delle donne, al contrario, richiedeva l’abbattimento delle barriere per il raggiungimento dell’ assoluta parità dei generi senza distinzione. Scriveva in proposito “ Le donne che hanno coscienza del proprio lavoro e del proprio valore, non temono di cimentarsi accanto agli uomini- le altre stiano a casa o vi ritornino: tanto di guadagnato per tutti e per tutte”. Lina accetta la sfida d’essere artista a tutto tondo in un ramo, la scultura, dove un pomo non vuol dire niente, ci si misura sempre con il corpo umano, è lì il cimento vero diversamente dalla pittura.
Nel 1916 una sua scultura in cera policroma Dolorosa fa mostra di sé nella sala IV all’Esposizione d’Arte degli Alleati tenutasi al Palazzo della Permanente di Milano, altre due opere Poema nuovo e Duetto sono nel catalogo vendita opere d’arte della Famiglia artistica di Milano. All’Esposizione nazionale di Belle Arti presso l’Accademia di Brera presenta la scultura Saluto al sole in Catalogo nella sala IV. Nel 1920 partecipa, per la prima volta, alla prestigiosa Biennale di Venezia con un altorilievo di sottile erotismo il Vincitore, lo stile non è più scapigliato, ricorda la plasticità di Rodin, aggancia il ritorno all’ordine del dopoguerra caricandosi di simbolismo proprio dell’Art decó, è un soffio di liberazione dall’eredità del realismo fine Ottocento. Lina scopre il levare al posto d’ aggiungere, semplifica le forme in sintonia con il nuovo vento che si respira in Europa, il recupero della classicità miscelato con le esperienze delle avanguardie. Uno dei riferimenti è Aristide Maillol, scultore francese folgorato dalla statuaria greca studiata in un viaggio nell’Ellade del 1906. La diatriba nelle arti è sempre la stessa: mimesi del reale o creazione pura, copiare la Natura o produrne un’altra distinta, di pari dignità. Un’eresia per chi legge queste righe: Picasso percorre la strada di Policleto, Boccioni quella di Skòpas, classico il primo anticlassico il secondo, la sintesi fu tentata da Mario Sironi in pittura, da Arturo Martini nell’arte di Dio.
Dal 1920 al ‘24 Lina parteciperà a tre edizioni consecutive della Biennale di Venezia, è presente in catalogo anche alla I biennale di Roma del 1921 celebrativa del cinquantenario di Roma Capitale, nello stesso anno è alla Mostra della Federazione artistica lombarda presso la Galleria di Lino Pesaro. Nel ‘22 espone Crisalide alla prima Primaverile Fiorentina al palazzo S. Gallo. Nel 1925 arriva il primo riconoscimento internazionale, le viene riservata una sala tutta per lei all’Expo di Parigi, trampolino per le seguenti mostre personali a Liverpool, Londra e nella Ville Lumiére. In Italia ferve il gruppo Novecento Italiano diretto dalla Vergine rossa Margherita Sarfatti che ignora la componente femminile, strano a dirsi per una pasionaria femminista, ma rimasta fortemente critica verso quel gineceo dalla Federazione Lyceum bollato da ghetto di mammole subalterne all’uomo. La strada in arte è forgiarsi uno stile ancor meglio se coniugato a una sintassi innovativa rispetto al manierismo di chi usa la tecnica del copiato restandosene comodo in pianura senza aggredire la roccia delle vette. Lina infatti si denuda, strada facendo, degli insegnamenti presi, via il maestro Pellini e il medardismo, via la plastica realista di Rodin, l’ ombroso simbolismo di Bistolfi, l’approdo, negli anni ’30, è allo stile Arpesani sintesi complessa del suo viaggio ricco di tappe intermedie fino all’agognata Itaca.
Arturo Martini, ecco proprio lui, ci appare come l’altro marinaio di questa rotta, le bocche socchiuse tra stupore e respiro, la magrezza della materia liberata d’ ogni scoria inutile, il simbolismo dell’immagine rimanda culturalmente alla “avanguardia classica” del nostro Novecento nella quale c’è De Chirico, la monumentalità dell’ex fabbro Libero Andreotti, di certo non il Futurismo.
Negli anni ’30 partecipa con continuità alle mostre al palazzo della Permanente a Milano, organizzate dal Sindacato Fascista degli Artisti, nato nel ’29, lo farà fino al 1939 vigilia dell’entrata in guerra.
Alla Triennale milanese del 1933 Lina espone la Vittoria Fascista realizzata in lega autarchica di alluminio e argento detta anticorodal. L’opera fu pubblicamente elogiata da Mussolini, ottenendo grande successo di pubblico e di critica anche per l’innovazione del materiale studiato in collaborazione con un gruppo di architetti. Purtroppo questa scultura, nel dopoguerra, subì l’umiliazione della potatura con l’asportazione dello sconveniente fascio littorio, per questo abbiamo scelto di riprodurla dall’articolo di Roberto Papini sulla Quinta Triennale di Milano. Ispezione alle arti. Anno 1933, foto di Crimella M. – Milano. Il colosso di Arpesani è una rappresentazione allegorico simbolica della divinità alata della vittoria, sacra ai romani già in età tardo repubblicana. La dea non porge palma ed alloro al termine di una battaglia, ma regge sulla sinistra il fascio littorio, antico simbolo regale di imperium, mentre con la destra saluta ad avambraccio piegato e palmo aperto, le orbite sono vuote, le labbra dischiuse, la postura è chiasmica (a braccio piegato corrisponde gamba flessa e viceversa).
La lega anticorodal verrà da lei riutilizzata, quasi fosse una componente del suo stile, anche in opere seguenti come “l’Angelo dell’annunciazione” del ‘35 ad ali rovesce esposto a Roma e la “Venere mattutina” presentata alla Triennale ambrosiana del ’36 che ripropone il χ di Policleto nella postura degli arti in sintonia con la Vittoria. Siamo concettualmente lontani dalla mimesis del realismo lombardo, dall’art decó di Elevazione degli anni venti, l’approdo della Arpesani è il recupero del linguaggio del nostro Quattrocento, del giovane Donatello, di Andrea del Verrocchio ma anche del tardo gotico di Arnolfo di Cambio. Arturo Martini è forse l’ultimo scultore ad aver infuso la vita nelle sue opere o almeno ha tentato di alitarla sentendosi però sconfitto, in questo, quando scrive La scultura, lingua morta. Lina si è attenuta a quanto argomentava Giorgio Vasari in merito a quest’arte assai difficile:” la scultura è un’arte che leva il soverchio della materia soggetta e la riduce a quella forma di corpo che nell’idea dell’artefice si designa “. Lei aveva compiuto questo tragitto senza l’alchimia di voler trasmutare la materia in vita pulsante, diremmo senza presunzione divinatoria, ma così semplicemente spogliando degli orpelli l’ idea del soggetto da plasmare. Ma non progettavano così anche gli architetti razionalisti?
Negli anni Trenta Lina diviene membro dell’ANFDAL ( Associazione Nazionale Fascista Donne Artiste e Laureate ) che in verità conta migliaia di iscritte, i maligni dicono per doppia convenienza, da parte del regime per placare la spinta femminista delle donne, dall’altra per acquisire visibilità nel campo minato delle arti. Un fatto è certo l’Associazione fu comunque un blocco di partenza, un’occasione da sfruttare per dare voce all’arte in gonnella. La Arpesani era un’attivista impegnata nel Sindacato, molto stimata da Giuseppe Bottai ed eletta nel ’34 Presidente del Lyceum che ha sede in via Filodrammatici. Voce forte quella di Lina non relegata nel cortile nazionale, dopo Parigi nel ’25 arriva il Grand Prix di Bruxelles del 1935 dove le viene assegnata quasi una mostra antologica, sono presenti ben trenta delle sue opere. Nello stesso anno il vecchio Lyceum milanese organizza una festa in suo onore a seguito della nomina dell’artista a socia onoraria della Royal Academy Bulington House di Londra cui si aggiunge la medaglia d’oro assegnatale da una giuria internazionale alla Triennale di Milano. E’ di questi anni la sua vittoria nel concorso per la decorazione del sepolcro della scrittrice idealista Anna Radius Zuccari conosciuta con lo pseudonimo Neera. L’opera è in marmo di Carrara, purtroppo intaccata dall’azione dei batteri come testimonia l’applicazione di Micro4Art sulla materia. Sembrerebbe un passo indietro rispetto allo stile raggiunto negli anni ’30, in realtà Lina riprese una scultura eseguita nel 1921, questo spiega il contrasto.
Prima della Guerra condivide lo studio di via Maddalena 1con una sua vecchia amica di scalpello Thea Casalbore che si spegnerà a Parigi per tumore nel 1939. Nel 1940 è a Cremona per il Premio istituito da Roberto Farinacci, la sua è una statua gigante intitolata Giovinezza. La monumentalità non era retorica di regime, almeno non solo quella, era la volontà di lasciare un segno imperituro, testimone della Storia. I bombardamenti “alleati” su Milano colpiscono i locali nel 1943 distruggendo opere ed archivio, stessa sorte dell’atelier di un grande del Novecento Anselmo Bucci. Il dopoguerra la vede rinchiusa nel baule, affronta temi sacri forse influenzata dalla religiosità trasmessale da Thea, forse per semplice anoressia di committenza pubblica, si dedica all’insegnamento di Plastica ornamentale presso L’Accademia di Brera e l’ISA F. Palizzi di Napoli.
Si spegne nella sua Milano il 9 giugno del 1974 all’età di 86 anni.
Emanuele Casalena
Bibliografia:
Eligio Imarisio, Social Science, Donna e poi artista:Identità e presenza tra Otto e Novecento, 1996
Mostra Museo del Novecento-Milano 2017
Studiolo, Galleria d’Arte di Stefano e Guido cribiori, Lina Arpesani, Elevazione, anni venti- Milano
Wikipedia. Lina Arpesani
Blog, ragazze di mezza stagione, Lina Arpesani, dicembre 2016
Arts Blog, Alluminio al Cassero di Montevarchi, dal Futurismo alla contemporaneità, Mostra del 2013
Vittorio Sgarbi (curatore),Scultura italiana del primo Novecento,Bologna, Grafis edizione, 1993