Oggi mi sento di nuovo dietro la cattedra, nell’aula del terzo piano, con la vetrata che riflette la luce da un fianco e, nei giorni di sole, mi costringe a volgere ad essa le spalle. In piedi. E, davanti a me, ingabbiati nei banchi, una trentina di alunni della classe terza, con le ragazze a fingersi già donne con il trucco sbavato e i ragazzi prigionieri di brufoli e modi scomposti. La classe terza che, nel liceo scientifico, equivale a sedicenni. Come dare loro la conoscenza e il piacere di accedere alla filosofia? Nella mia testa frulla Céline che ammonisce come “filosofare è solo un altro modo di aver paura e non porta ad altro che a dei vili simulacri”… Già, la paura più grande, la paura della morte perché, qualunque sia la risposta che ci costruiamo, essa non la giustifica nel nostro animo e non ne consola il tormento. «Oh no, non consolarmi della morte,/ inclito Ulisse. Ché vorrei servire/ come bifolco, per mercede, un altro,/ un pover uomo che scarso avesse il vitto/ piuttosto che regnar su tutti i morti che la morte consunse»: così si esprime l’anima del prode Achille, interrogato da Ulisse (Odissea, XI).
La poesia immortale… che importa, leggendo i pochi versi dell’Infinito, sapere chi ne trasse da sé l’ispirazione? Quel Leopardi, essere goffo e ridicolo e infelice e complessato con le donne per il fiato greve e con la vista corta e ingobbito ridotto a guardare dalle persiane socchiuse la figlia del cocchiere e sublimarne la morte precoce con la penna dopo, si intende, aver praticato con reiterato furore l’onanismo ad appagare le giovanili ondate ormonali. Ed Ettore e Andromaca alle Porte Scee, l’uomo conteso tra il compito a lui assegnato d’essere in prima fila, a comando dei soldati troiani, e gli affetti privati verso la donna e il figlio (ben dissimile, esempio tra i tanti, del generale Ambrosio che, abbandonate le truppe l’8 settembre, si giustificò che, in quei giorni di tragedia nazionale, era tutto impegnato nel traslocare se stesso famiglia arredo e quant’altro!)? Il nome stesso del poeta, Omero, nasconde l’insignificanza di colui o di coloro che si fecero cantori sì della gloria degli Achei ma non dimenticarono la pietas verso il destino dei vinti…
Eppure il verso sì si eleva oltre i marosi del tempo ma questi stessi marosi cancellano la carne le ossa il sangue di coloro che di quel verso furono immaginifici, a volte trascinando nel gorgo il medesimo nome…
Si elevino, dunque, sacre are agli dei di Grecia (“Ricordati, Critone, di onorare il dio Asclepiade con un gallo”) e di Roma davanti alla plebe e, su di esse, si offrano le interiora degli animali sgozzati o si estragga il cuore con il coltello di ossidiana dei prigionieri toltechi da donare al Serpente piumato nel lontano Mexico o si appendano ai rami del frassino antico e della robusta quercia i doni della caccia e della terra nelle inviolate foreste di celti e germani o si danzi intorno al fuoco al ritmo ossessivo dei tamburi e rivestiti di pelle di bisonte perché la mandria si offra all’arco alla lancia. E Dioniso espone allo strazio della carne il suo corpo e, nell’Eucarestia, si offre nella trasfigurazione e il banchetto sacro si consuma divorando del nemico abbattuto il fegato per acquisirne la sua forza (affascinante modo di dare al vinto dignità e valore!). Dei dal volto umano e dalla natura immortale per uomini mortali in cerca d’immortalità…
Eppure… gli dei sovente si rendono sordi e muti prendono i doni ma, in sovrano disprezzo delle vicende umane, si ritirano sull’Olimpo si celano dietro il cielo corruscato in qualche anfratto seguono altri sentieri ed altro pascolo. E ancora non è giunto il momento in cui l’uomo folle leverà, nella piazza del mercato, il grido e lancinante e fiero e disperato e, al contempo, annuncio d’altra danza e d’altro tempo Dio è morto!…
Cosa dirò, dunque, a questi nuovi alunni con cui condividerò tre anni di ore trascorse con il legame, fragile e pur vincolante, della parola? Quale sarà il (in) segno che rimarrà sulla creta a dar essa forma? E, allora, la prima mossa… il significato del termine ‘filosofia’ e perché proprio in Grecia e non altrove dove pure fiorirono grandi civiltà d’arte e sapienza. E dovrò sottacere che, dietro il suo proporsi ‘scienza delle scienze’ (ricorda Platone ne La Repubblica “noi diciamo che amar qualcosa significa, se si dice rettamente, amar tutto e non una parte sì e una parte no”), cioè un sapere universale e necessario, ci sono uomini a interrogarsi come e se vi sia una via d’uscita e di salvezza dalla morte…
E, forse, racconterò loro – per circa quarant’anni – che amare o prendersi cura del sapere è una tensione una sfida una illusione forse un inganno a cui ci votiamo perché ‘la bella battaglia’ esula dal successo, anzi sovente è ancor più bella se destinata alla sconfitta (oh, Cyrano, il tuo pennacchio ti accompagna in cielo ed è la cifra del tuo valore! E, nell’Hagakure, è scritto che ‘il vero amore è quello inappagato’…). Senza di essa, nella palude di un universo senza l’interrogante, quanta tristezza e noia e grigiore… I Greci si fecero carico della verità strappata al Sileno dal re Mida nella radura e ci regalarono, di fronte alla vanità dell’esistenza, il senso tragico e la filosofia che, a ben guardare sono le facce del medesimo conio.