I
Se ci accontentassimo dell’esterno, seppur penetrante, bagliore di una battuta, non coglieremmo, forse, il suggerimento più potente dal possibile rovesciamento di un paradigma.
Infatti è stato sempre dal recto, come è forse naturale e corretto che avvenga, almeno fino al punto terminale in cui i dati di visione si confondano in una irrisalibilità assoluta con i dati di realtà (e viceversa), che la questione, utriusque militiae, è stata percepita ed affrontata. Il paradigma del recto d’altronde costituisce la trama evidente della texture, (1) quella leggibile e quindi più legittimamente investigabile. Il che non significa che non sia valido, tutt’altro… ma ci soccorre ciò che dicevamo in altro contesto: “…connessione inevidente è superiore all’evidente…”. (2) Ovvero che una migliore lettura possa passare attraverso il rovesciamento del paradigma usuale, e quindi anche tramite il verso, ed in tal modo permettere una migliore sorta al nostro cuneo di profondità, lungo i vari strati difensivi di dyneema, che riserva l’apparecchiatura mondialista… In alternativa ad un’interpretazione solo astratta, impersonale ed astorica, o ad una legata unicamente a procedure sperimentali, storicizzate o dello stretto significante (…che potrebbero rivelarci, al meglio, i significai immanenti dei miti e non certo le costanti immateriali degli accadimenti storici), tutte comunque derivanti da una disposizione sostanzialmente dicotomica, avvertita od inconscia, la penetrazione per via progressiva, non esclude dall’origine ed anzi include l’origine come una qualità spaziotemporale del sempre possibile. (3) E senza l’origine ogni nostra interpretazione sarebbe abbandonata al caotico sovrapporsi degli eventi. In questa nostra visione la vigenza dell’origine si salda alla consapevolezza del tempo ellittico con il proprio presente/eterno che non è solo la classica antico/occidentale/orientale distanza rammemorante, ma la costante presenza a vacuità e destino, inessenti a maya, con un’ermeneutica stoica del tragico, sempre implicata nei misteri, (4) ove negazione/affermazione sono, sia pur per un sentiero ben difficile, sempre transitabili.
Il recto corrisponde in sintesi non alla realtà, ai dati di realtà alla mercé dei dati di visione (e viceversa – e la “mercé”, etimologicamente, ne è ottimo esempio…) quanto proprio alla rappresentazione pur necessariamente complessa che noi poniamo in essere partendo da un’antecedente supponibile sistemazione del reale tramite gli strumenti logici assoggettati alle pulsioni illogiche che ci governano. Nel caso di trovarsi di fronte allo “scontro di civiltà”, l’investigazione nostra (e di chiunque altro) parte prevalentemente dal composito schema interiore, ove sappiamo bene (od almeno dovremmo saper bene) d’agire sulla base di una sperimentata (e sperimentabile) previsionalità, di tutta la nostra sensorialità (visus, tatto…). Solo susseguentemente, nella casualità di specie, possiamo apportare variazioni conseguenti e comunque fortemente relazionate all’incrocio tra disposizione presuntiva (=visione, qui non sicuramente in una accezione esperienziale profonda… ché, di contro, verrebbero infatti messe in campo, in quasi tutti i magisteri spirituali, forti differenziazioni e potenti alternative) e dati di realtà… In tali magisteri è comunque sempre ribadito l’accoppiamento qualificante del recto e del verso, che non rimangano quindi due posizioni isolate e quindi incapacitanti, vissute magari a partire da un’ancor prima prelogica antinomia, per procedere oltre il pur necessario dover essere e per cercare il massimo di verità attingibile…
Se invece fosse questo lo schema dominante e quindi a seconda della nostra postura ideologica e caratteriale, noi rispondessimo necessariamente, in prima istanza, con riflessi ad essa del tutto condizionati, spesso, a noi medesimi apparendo, ogni tipo di apporto, riflessione e conclusione non immediatamente o direttamente congruenti con questa primaria visione, un superamento, uno scavalcamento, addirittura una deviazione… questo avverrebbe persino quando, pur partendo dall’inevitabile usuale postura, si compisse una massima possibile concettualizzazione, restando sempre però sostanzialmente da una parte della texture…
In un universo del tutto despiritualizzato, ove il disperato ultimativo appello di Nietzsche all’alba del passato secolo, ha consumato nel suo verso e nel suo recto, tutta la speranza utopizzata dell’occidente, in un destino tragico, (5) impedente ormai – se non in condizionalità del tutto marginali – un ben improbabile operante cambio, non si dà che scontro, non è ipotizzabile altro scenario, e vincerà poi alla fine in questo scontro d’inciviltà chi in questa despiritualizzazione potrà compiere (come al solito) per primo il passo definitivo (il portarsi all’estremo girardiano), sino al punto d’usare la forza più completa ed assoluta, ovvero l’arma anche provvisoriamente risolutiva. (Ad esempio l’arma del pensiero unificante tecnologizzato, l’arma atomica, bionica, quella dello spreco/umano – anche suicida – ed altre ancora potenziali).
Così lo “scontro di civiltà” è speculare sia in occidente che in oriente, sia nel recto che nel verso. Sia nella sua probabilissima deriva che nella sua improbabile inconclusione. E’ questo che è speculare, non l’affermazione o la negazione della sua “esistenza”. Perché tale “esistenza” implicherebbe un giudizio di valore assoluto (lo sforzo sincero d’approssimazione alla visione spirituale), che non può essere implicato partendo da poli opposti e solo da quella base d’appercezione e di discernimento che è governata dal valore relativo. Per tutti noi di quest’epoca, il valore relativo, anche se negato in assoluto (nella sua lettura estremista, sia confessionale che laica) è ormai diffusamente la cifra globalista e per non cedere ad esso si dovrebbe fuoriuscire definitivamente dal circuito della pura appartenenza schematica unidimensionale (materiale), per entrare in quella di una identità che, appunto, tutte le tradizioni sapienziali pongono oltre il circuito mondano, in una alterità però che non è attingibile se non in particolari condizioni, da limitate forze e non certo quindi con un’immediata potenzialità civile o sociale. Nella deriva inarrestabile imperano il recto ed il verso, l’uno nella prevedibilità, l’altro nell’utopia, isolati (per intrinseco statuto, agiscono uno prevalentemente solo verso l’esterno, l’altro solo verso l’interno), a guida della nostra fenomenologia e non i cosiddetti pensieri razionali sulla sua supposta o negata “esistenza”, se essi s’affermano solo a partire da una delle facce del problema e senza poter investigare la nostra umana natura più profonda ed articolata. Pertanto potremmo persino dirci che è probabilmente inutile operare in profondità sommersi come siamo da uno scenario definito e guidato dalla pesanteur, ove al massimo, si può rimanere integri singolarmente, od in ben limitati nuclei ed operare di conseguenza in termini, sempre doverosi e dignitosi, ma persuasivamente testimoniali e quasi unicamente a futura memoria…
A tal punto però, dobbiamo, per la bontà minima del nostro procedere, riepilogare recto e verso (sempre a partire, beninteso, dalla superficie).
Recto: l’occidenteliberaldemocratico, a trazione statunitense, vede nel fenomeno (soprattutto) dell’islamismo radicale (ma non solo), una minaccia ed una garanzia assieme, proporzionate alla relativa disposizione ideologica, rispetto al proprio stile di vita. Comunque la minaccia consiste nella negazione, appunto, di tutto il suo stile di vita. Dai più volgarmente compiaciuti partecipi del degrado spirituale/comunitario sino ai più ferventi ed apparenti antagonisti al sistema, troppi, in occidente, accettano il paradigma dell’irreversibilità del sistema liberaldemocratico medesimo e troppi persino nella sua deriva paranoicamente finanziarista ed usurocraticamente antipopolare. La garanzia per le élites mondialiste è che, finché tale minaccia esiste e viene, in modo eteronimo ed autonomo, garantita (ed accresciuta), ne è sostenuta la corrispettiva sopravvivenza, nei termini sostanziali d’una riassicurata perduranza. In carenza di un costantemente rinnovato nemico assoluto, la legittimazione del potere, così come pur si è ormai potentemente andato strutturando nei decenni, tenderebbe inevitabilmente a perdere di presa, a decadere, più o meno velocemente, nel vortice della propria medesima, peraltro pervicacemente perseguita, sostanziale mancanza di senso…
Verso: l’orienteexoccidentalizzato, a prevalente pulsione islamista, qualsiasi siano i presupposti storici, le ragioni causali, i credi confessionali, le socialità post-tribali e le confuse istanze di fuoriuscita dalla pervasiva illusione occidentalista (che aveva formato di sé anche quel campo almeno negli ultimi due secoli di storia mondiale), vede nelle proprie società l’isolamento del non-senso autoctono che ha via via ceduto al fallito senso allogeno. Vede altresì nelle primarie società occidentali, contratte, nevrotiche, ipocrite e del tutto materialiste, ove il sostitutorio individualismo di massa nella società ormai medicalizzata e la fragilità sociale sempre più accudita come la denatalità ed altri infiniti fattori di disgregazione comunitaria ed identitaria sono divenuti paradossalmente l’unico condiviso collante, il tutto gestito in consapevolezza ed affanno dai burattini politici del finanziarismo neocolonialista, l’insopportabile nemico assoluto, speculare al proprio stesso fallimento, ove s’incista tutta la frustrazione e l’instabile (…rileggi le cosiddette primavere arabe) domanda di presente e futuro.
Questi il recto ed il verso, messi a fronte, come i mostri e gli angeli su un portale gotico… Disperatamente insieme, seppur diversi e recalcitranti, perché il modello globalista ha follemente riversato gli uni negli altri per la superba presunzione dei creatori del golem, quel pensiero unico, subdolamente feroce gigante d’argilla al servizio del vero padrone…
E dal recto e dal verso – diciamo dalla nostra postura ideologica – che è l’unica, d’altronde che, consciamente od inconsciamente, possediamo siamo costretti a subire l’opera del golem, che tutti, ci risucchierà prima o poi dentro un vortice, spazzante via, progressivamente, ogni illusione, rimedio, tentativo di controprocedura, rimanendo diabolicamente assieme, all’interno della lettura superficiale della realtà. Ma quel portale ci evoca qualcosa…
II – Maya in divinis
C’è bisogno – per l’uomo – di una forma dell’essenza (vuoto)… e quindi di una manifestazione del vuoto (shȗnyamȗrti). Allora è necessitata questa lettura superficiale, (6) anche a partire dalla superficie, mai riducibile al rango d’inutile apparenza e quindi impenetrabile all’intelligenza, ma anzi sovrabbondante di un’esperienza insostituibile, che viene fornita necessariamente (ma pur non sufficientemente) dallo stesso concreto svolgersi storico. E, d’altra parte l’Essere non appare, via per via, se non in destino, qui; non è l’altro, proprio il totalmente differenziato, anche se dell’altro, del vuoto, del ni-ente, come tra materia ed antimateria, condivide la connessione pleromatica. In tale linea di comprensione, per noi, l’intellezione accompagnata da veracità tra parole ed atti, dovrebbe però superare di gran lunga ogni intellettualismo ed ogni fideismo, fini a se stessi e che per giunta ci abbandonano alla vera sola superficie delle cose e portarci a considerare come possibile una vita meno auto condizionata, con un orizzonte che si apra nelle vie… Ma se acquisissimo questa postura unificante, questo doppio volto di Giano, allora saremmo anche in grado di considerare credibilmente l’agire senz’agire, fuori da ogni suggestione esotista, che altrimenti rischia di essere, per noi, solo un dover essere, sempre limitatamente praticabile, ma privo di esiti esterni.
Perché poi andare alla struttura della forma, partendo dalle cose, immagini, visioni, non significa necessariamente ricreare (magari solo amplificandola oltre il prevedibile), in una sorta di parodia ritardata ed ultrapostuma del verosimile aristotelico (per giunta inconsapevolmente), la fantasmagoria d’illusionistici giochi per adulti, come in molta arte e pensiero contemporanei, perché anche un rozzo graffito di croce o labirinto può ben essere vuoto di effetti ma carico di qualità simbolica, che nelle altre si riduce (nel migliore dei casi) ad una cartografia citazionista…
Così nel proprio recto (nella propria forma), che agisce come unico punto stabile, si ha come base il fulcro della leva di comprensione, non quindi priva di realtà, in relativo, ma solo in assoluto. E vale per diversi campi. Ad esempio, nell’universo dogmatico/confessionale, due tra i principali strumenti per aprirsi dei varchi effettivi (la gnosi e la liturgia) sono i medesimi che determinano, ovviamente con diversa designazione, le chiusure e le antinomie, perché sovente, come dicono i maestri, contraddizioni estrinseche velano compatibilità intrinseche. E questo forse ci può far intuire come la chiusura antinomica, di cui dicevamo sopra, non sia affatto fruttifera. E d’altronde è risultato difficile anche per una grande civiltà come quella greca, pur capace di metter in campo uno strumento così potente come quello dialettico, capace di superare il baratro del “contro legge”, distinguere sapientemente tra illimitato e caotico, come se tutto ciò che rifluisse al di là di un preciso canone di supposta perfezione, (tutto genialmente autocostruito, seppur sotto influssi potenti dall’area minoica, egiziana, trace) fosse per condizione necessitata un rischio inaffrontabile ed insuperabile, al modo del pròblema colliano… Perché impedire o rendere difficile od ostracizzare, (che si mostri la possibilità… che esista) l’essere assieme assoluto e relativo, (destino e vuoto, tutto e nulla) come contrattamente poi rivela il credo niceno, come se il logos manifestato non potesse possedere nella propria persona, oltre la pur rivelatoria e giustificante ipostasi trinitaria, un’assolutezza organicamente priva di determinazioni, così in alto come in basso, così nel macrocosmo come nel microcosmo, inibisce la ricerca e tiene, almeno fino al riaffiorare carsico – un tempo e sempre – della mistica (dalla gnosi), tutti dietro la linea, il segno. (7) E non possiamo poi far finta che esistano solo ostracismi materiali.. (od ideologici)… esistono (sono ben esistiti) anche quelli teologici, che hanno formato di sé interi secoli e che scemano solo al procedere, (non necessariamente e corrispettivamente omogeneo, in spazi e tempi) del relativismo estrinsecamente applicato a fedi e costumi originari…
III – L’alternativa?
Così nell’attuale conflittualità internazionale qualora si volesse davvero fuoriuscire, per quanto umanamente possibile, dall’eliodromo necessitato dell’apparecchiatura globalista, dovremmo agire, in profondità, sulle stesse strumentalità con le quali abbiamo normalmente a che fare. Dovremmo, per primi, cambiare noi stessi. Ciò che ormai informa il mondo, al di là delle stesse differenze, pur sempre rilevanti, all’interno come all’esterno, tra occidente ed oriente (…ovviamente qui assunti nei termini di una generalizzazione – ed al contempo d’una specializzazione – al limite del giustificabile, se non per necessità espositiva) implica una fuoriuscita, comunque ardua e statisticamente rara ma sempre essenziale, nel (per) creare nuovi apparati di senso che possano potenzialmente sostituire quelli ove l’apparecchiatura mondialista si riveli non più in grado di governare la crescente differenza di potenziale tra verità e propaganda. Considerando poi come non sempre reversibili i collaudati apparati di controllo della stessa apparecchiatura mondialista, se non a tempo indeterminato (non dal verificabile ma…) dal misurabile o dal prevedibile. L’utilizzo della completezza tra recto e verso, quindi, costituirebbe un’opportunità prodigiosa, oltre la logica antinomica, potendo conoscere il nodo della trama, nella sua divergente e convergente capacità d’imprigionare e liberare, come il nodo di Gordio o il filo d’Arianna, come nodo di Seth o come Rem/Labrys/Tit (o nodo di Iside). (8)
Come nella fibra portentosa del dyneema esiste una base partitaria, un liccio, che guida l’onda d’urto (inevitabile) del proiettile a scaricarsi sulla maggior parte possibile della sottostante orizzontale, intrappolandola, come i kolam indiani labirinticamente fuorviano sulle soglie delle abitazioni gli spiriti maligni che volessero entrare in casa, ovvero una trama di base (tantra), che possa però anche coinvolgere i fili (sutra) soprastanti dell’ordito nel contemporaneo scarico verticale con microfratture progressivamente includenti e smorzanti, e complessivamente sulle varie fasce di compressione (comprensione), così nel nostro apparato di ricerca della verità, noi possiamo cercare di trovare l’anima, sempre più (lungo il processo del fr. 45 di Eraclito), (9) come tessuto di poteri, fra corpo e spirito. Proprio per la sua profondità, ci soccorre la struttura a fasce sovrapposte, perché è di buon senso (non solo nella sequela teurgica od ermetica, ma anche ormai in altre) credere che esista, nel mondo dell’emanato, uno schema triadico: 1/3 = trascendente; 2 = apparente; 3/1 = dissimulato. Ove, come nel mio povero esempio, il centro 2 (=l’apparente) sia comunque maya, seppur in divinis. Centralità che non ambisce all’assolutezza escludente, quindi (errore ed orrore del dogmatismo), ma solo alla pervasività relazionale ed ove ogni proprietà (ogni verità), nel rapporto triadico diversamente declinabile ed attinentemente funzionale, ma sempre con un suo fulcro stabile nel rapportarsi e rapportare, concorra alla piena della manifestazione e (partendo da questa), quindi, alla verità più intimamente da noi investigabile. (10)
Altrimenti avremo una sola prevedibile (e preordinata) direzione destinale. Non quel destino che auspichiamo, compagno indivisibile della vacuità, che ci rende liberi nell’assunzione grave di responsabilità e nel lieve sorriso della distanza, ma quel destino che ci fa servi di servi.
Infatti se nemmeno all’oracolo di Delfi era possibile esprimersi unidirezionalmente, (e persino la parodia esperienziale che ne è stata fatta in tempi di razionalismo umano troppo umano, ci dà traccia comunque di qualcosa…) (11) ma solo tramite segno, corda, texture, vuol dire che noi siamo costretti a convivere con tale impronta, materialità, problematicità.
Ma l’orma di un cammino che perseguiamo a ritroso, la forma concreta/indefinibile del passo sacro, che ci trae verso l’alto ed il futuro, la direzione a volte ingannatrice della preda che si camuffa e delle arpie sempre pronte ad insozzare le mense, seppur sobrie o di lavoro, possono apparirci tanto inspiegabili come i fonemi originari di una lingua, oggetti sfuggenti, simboli di simboli… ecco perché il tessuto, ci aiuta… come nella fisica dei quanti la particella non è più oggetto di massa e carica ma soggetto di relazioni spaziotemporali, e così come l’affabulazione mitica uscita dalla porta dello scientismo è ritornata appieno – almeno come potente interceditrice tra addetti ai lavori e pubblico non specialistico – dalla finestra della scienza ultimissima, così l’investigabile recto e verso della nostra texture vitale ci domanda di comprendere l’invarianza e la simmetria, dinamiche cosmiche, per noi umani, in una terra e sotto un cielo non umani. (12)
Note:
1) “texture” (dalla cosmologia, alla mitologia, alla letteratura, alla grafica poligonale…), ci sollecita ad una dimensionalità ben più rilevante (3D, “realistica” e problematica), di quella bidimensionale. Nella formazione/eocazione del nostro vivere labirintico il centro, prima, è supponibile in un vuoto indistinto. Si pone, semmai, solo il problema dell’asse attorno a cui si possa sviluppare il motivo. Ciò, appunto, prima dell’iniziale crociatura (=cellula del nodo), con divaricazioni (=spiraliformi), non solo in orizzontale ma anche in verticale, che modellano la svastica di vertice e, di seguito, l’apparato esterno (=mura del labirinto). Spiraliformi perché se in una corda non si pone la corda medesima come asse, attorno a cui possa poi attorcigliarsi, non si crea per nulla il nodo. Consideriamo che il cerchio e l’ellisse, come modalità diverse ma sempre indubitabili di ritorno, rappresentano certamente più la capacità centripeta che quella centrifuga, più la costrizione che la divergenza… ma così nasce l’incrocio, sul proprio asse, ove l’asse rappresenta l’autonomia assoluta da e verso l’alto, comunque in excelsis… Pertanto il centro, è axis mundi, definito/assoluto, unico/replicabile, topico/atopico, ipostasi dinamica dello sviluppo inerente/successivo. Stabilità sul fulcro dell’asse, ma dinamicità dall’asse (=Polisemia, plurisignificatività). Prima della manifestazione non esiste né dedalo, né labirinto. E questo è più che banale affermarlo, ma non è banale riscontrare il processo di prima formazione “dall’alto/dal centro”, comunque lungo l’asse. Perché “dal basso/da fuori” non si darà mai labirinto, ma al massimo dedalo, ovvero un’insondabile/inquietante costruzione di mura impedenti sia profondità prospettiche che congetture fondate… forse solo illusionismi mentali. Ironia: tutti i dedali si possono sperimentare solo dal basso, ma tutte le grafie e le foto (ed i percorsi), si decifrano dall’alto. Tramite l’emanazione, nel dedalo che può risolversi in labirinto, si va dal nulla al segno dell’asse, poi al concreto incrocio dall’asse, deviazione, attraversamento (se in 3D, metanoia, già solo come postura, autentica, di ricerca). Dentro al dedalo, si può trovare infine il centro, (ove risiede l’asse verticale… di fuoriuscita, infatti esso può essere anche plasticamente definito con una colonna, una torre o un tempietto, che sempre s’elevano sopra il livello base), muovendosi compresi tra l’ordito esterno della materiale trama (=pareti) e la guida sottile che ci soccorre nel vuoto (=filo)… Tutte le pareti sono il dedalo, tutto il vuoto interno rappresenta potenzialmente il labirinto. Ma come nel vuoto/inevidente del dedalo si procede a tentoni, così nella trama/evidente della texture è investigabile solo una ‘superficie alla volta, perché l’evidenza prima prelude (nell’istanza del procedere) ad un’inevidenza ulteriore, sottesa ma rintracciabile. Ed il dedalo, risolto, alla fine è solo labirinto. Nelle sue spire ellittiche, pur esteticamente affascinanti, come le galassie, agisce una dimensione gravitazionale, inquietantemente non umana. Qui, invece, la vicina (comune) astrattezza (anche soccorrevole) del vuoto… due significati apparentemente opposti/inconciliabili, si svelano in sintesi.
2) S. G., “…come vacuità e destino”, NovAntico Editrice, 2014, parte IIIa, nel saggio: “…non dice, non occulta, ma dà segno…”, nota 12: “Eraclito, DK, 54: ‘connessione inevidente è superiore all’evidente’, questo passaggio logico vale più di un trattato serio sull’occultismo oltreché d’occultismo…”. La stessa evidente superiorità d’una armonia raggiunta, come nella paideia pitagorica, in Eraclito è, invece od ancor più, il suggerire la sottostante tensione di elementi non risolti e solo placati nell’apparente transeunte stato superficiale. Qui potremmo aggiungere, ma meno perentoriamente, che tra il: “non dice”, “non occulta”, a mezza strada, ovvero al centro del rapporto, il “segno”, dato, diviene la corda, del-nel, labirinto, quella non antinomica, che dà forma al labirinto come mito dei miti o dell’universo (almeno impassibile, se non feroce… sorta di dedalo, ove al centro si trova il Minotauro) e, nella medesima origine, quella che libera dal dedalo stesso come filo di arianna, proiettando il labirinto, fuori e verso le stelle, da un’iniziale spirale, all’avvolgente corrispondenza gravitazionale…
3) Vedi , in questi ultimi anni, le interpretazioni filosofiche dell’origine, sempre più originarie, di Sessa, Damiano…
4) “…di ciò che gli iniziati avevano sempre incontrato alla fine della loro metanoia ascetica: Il Principio-Infondato, la Libertà-Potenza, il Ni-ente, il Nulla di Ente. Il medesimo antiprincipio che la cultura tragica, vena carsica periodicamente riemergente nella storia d’Europa, ha indicato quale discrimine, confine invalicabile, che separa chi ha bisogno di credere da quanti ambiscano sapere.”, pag.18 del saggio di Giovanni Sessa “Julius Evola e la metafisica della gioventù” in: Julius Evola, Par delà Nietzsche, Aragno, 2015.
5) “Ce Nietzsche attend encore d’être compris. En lui sont l’alarme, l’appel au dégoȗt, à la révolte, au Grand Réveil – et à la Grande Lutte; celle où se décidera la destinée de l’Occident – devers un crépuscule ou devers une aube.”, pag. 28, di J. E., Par delà Nietzsche, cit.
6) Frithjof Schuon, Logica e trascendenza, Mediterranee, 2014. “Egli è Uno; bisogna ammetterlo veramente, e non simulare d’ammetterlo, ed ammetterlo veramente vuol dire trarne tutte le conseguenze, dallo scrupolo legalistico, fino al monismo sapienziale”(9). Nota 9): “Potremmo chiamare questo monismo anche ‘panteismo al tempo stesso trascendentalistico e immanentistico’, intendendo con ciò una prospettiva metafisica assolutamente rigorosa e pertanto integrale quale l’Advaita-Vedânta, ed accettando il vocabolo ‘panteismo’ secondo il suo senso etimologico e non convenzionalmente filosofico; infatti affermare che ‘tutto è Dio’ nel senso che nessuna realtà in quanto tale può porsi al di fuori della sola Realtà, non significa dire che Dio si riduce alla somma dei fenomeni” (pag.189). (cfr. anche il paragr.: abuso delle nozioni del concreto e dell’astratto).
7) Otto Weininger, Intorno alle cose supreme, Bocca 1923: “La religione è il rinnovamento del mondo per mezzo dell’azione, in quanto per mezzo di essa soltanto, il mondo vien considerato dal punto di vista di un assoluto valore e di un assoluto scopo, e vien con ciò spogliato del casuale, è la sua ripetizione e la sua più alta affermazione per opera della libera scelta dell’individuo, il quale dà al tutto in forza di altissima spontaneità un senso; è il proposito dell’uomo di avere un destino e di adempierlo.”, pag. 193. (…) “Il filosofo deve sapere, ed ha l’obbligo di dimostrare. Solo perciò la filosofia ha un valore superindividuale, positivo, di coltura. Gli sforzi individuali del Mistico-puro non devono venir revocati in dubbio, ma per la coltura essi non hanno alcuna importanza.”, pag. 238. Queste due brevi citazioni, affrontate, apparentemente produttrici di contraddizione, tra ciò che non può venir meno a pena di non senso e ciò che non può non ricercarsi se non secondo ragione a sottrazione d’importanza o validità, ci riconducono a: “Non vi è che una libera fede nella Logica, come una libera volontà nell’Etica. La Religione è la cosa ultima e nell’una e nell’altra. Il sapere ha solamente la logica, la volontà di conoscere l’idea di verità per presupposto; alla quale però io posso solamente ‘credere’””, pag. 194. Ove, Religione, viene intesa etimologicamente come qualcosa che collega, anche oltre il confessionalismo, inscindibilmente, l’esserci all’essere.
8) Il nodo di Seth è quello compiuto con le catene per immobilizzare Osiride, onde poterlo uccidere e tagliare a pezzi. A) L’immagine della colonna died, col nodo di Iside, o Tit, nodo per riconnettere Osiride, smembrato. B) Immagine di ‘Ren’ o “nome proprio”, “…L’idea del nome Ren è legata a quella di un ritmo ciclico o di un nodo avvolto alla corda continua del destino…”, Isha Schwaller de Lubicz, Her-bak 2, (pag.93).
9) Eraclito, DK, 45: “I limiti dell’anima non riusciresti, per quanto vai, a trovare, percorrendo ogni via: ragione così profonda ha essa.”
10) Meister Eckhart: “Dio stesso non lo penetrerà mai per un istante [il fondo dell’anima], né mai l’ha penetrato col suo sguardo, in quanto egli esiste nella determinazione e proprietà delle Persone.” (Sermone 2, ne: I sermoni, Paoline, Milano, 2002, p.106)… sarebbe forse come dire che i Greci cercavano (ad esempio nel drammaturgico svolgersi del tragico) la simmetria inevidente tra microcosmo e macrocosmo…
11) Martin Heidegger, Che cosa significa pensare, Sugarco, 1979, Vol II, pag 54: “Ogni discussione tra interpretazioni differenti di un’opera, anche di un’opera non filosofica, è in realtà una reciproca meditazione sui presupposti da cui ciascuna delle interpretazioni è guidata, è una collocazione di questi presupposti – un compito questo che si lascia stranamente sempre ai margini, nascondendolo dietro ai più generici luoghi comuni… (…) Ma si viola il senso di ogni interpretazione quando si crede che ci sia soltanto un’interpretazione incondizionatamente valida, e quindi assoluta. Assolutamente valido è, nel migliore dei casi, soltanto l’ambito rappresentativo all’interno del quale anticipatamente si colloca il testo da interpretare. La validità di questo ambito che viene presupposto può essere assoluta, soltanto se la sua assolutezza poggia su un’incondizionatezza, che non può essere che quella di una fede. L’incondizionatezza della fede e la problematicità del pensiero sono due ambiti la cui differenza è abissale”,
12) Lao Tse, Tao tê ching, V, (varie versioni): “L’Universale (Cielo e Terra) non è umano (compassionevole) Tutte le cose (prodotte) le usa come mezzi” … “Non hanno umani affetti cielo e terra: cani di paglia son per essi gli esseri” … “Il Cielo e la Terra non usano carità, tengono le diecimila creature per cani di paglia” … “La Natura e gli Dei non tengono in nessun conto i singoli esseri. Essi trattano tutti con la stessa indifferenza” … “o céu e a terra são sem amor-humano consideram as dez-mil-coisas cães-de-palha” … “Heaven and Earth is not sentimental; It treats all things as straw-dogs.”