“Perché io sono letterato squadrista, forse l’unico che possa vantarsi di tale qualifica” (Marcello Gallian scrive a Mussolini, novembre 1936)
Ci sono, nella memorialistica squadrista, ma con riverberi anche nella narrativa, e persino nella saggistica, dei topos sui quale vale la pena di soffermarsi, per capire lo spirito dei protagonisti e del tempo.
Essendo fuor di luogo pensare che chi scriveva si fosse “passato parola” o ci fosse stata una diffusa opera di copia-incolla, l’unica spiegazione possibile è che tali elementi di comunanza, presenti in testi di Autori diversi nello stile, lontani nella collocazione geografica e scritti a distanza di tempo tra loro, raccontassero la realtà, o, perlomeno la realtà come la vissero i mussoliniani.
Questo è il primo elenco.
LA SPEDIZIONE
Il momento più significativo nell’attività dei componenti della controsocietà delle squadre è quello della spedizione, attesa con ansia, consapevolmente temuta, arditamente vissuta.
La narrazione delle spedizioni (spesso chiamate “gite”, a conferma del carattere gioioso che esse hanno, almeno finchè non sopravviene la temuta imboscata) si articola su tre distinti momenti. Alla partenza, che vede spesso una laboriosa scrematura per età, esperienza ed armamento posseduto, segue l’azione vera e propria, che alterna momenti di tensione ad altri di scapigliato attivismo, senza che, quasi mai ci siano vittime, anche per la pronta fuga degli avversari. Tutto finisce con il viaggio di ritorno, che diventa il momento più pericoloso, perché è proprio allora che scatta l’agguato, dopo che i sovversivi del luogo si sono riuniti ed organizzati nelle adiacenti campagne.
Contro il camion si rivolge così la fucileria, dal riparo delle siepi e degli alberi, e più raramente delle finestre di qualche casa colonica, che ha per primo bersaglio il conducente, così da fare degli uomini, sbalzati fuori dallo sbandamento e dal rovesciamento del mezzo, facili vittime della violenza di gruppi numerosi, con non rara presenza femminile.
Quando ci saranno i morti fascisti, scatterà la successiva rappresaglia, in un inestricabile groviglio di violenza destinato a lasciare il segno.
La partenza è in genere preceduta da una preparazione approssimativa, grossolana e improvvisata (Sarzana rappresenterà l’esempio più drammatico di questa faciloneria fascista). Il viaggio è sempre all’insegna di un nervosismo vigile, stemperato appena da qualche scherzo tra gli occupanti il mezzo, così come lo svolgimento conosce – insieme alla distruzione di cose e immobili (sedi socialiste, Leghe etc) – anche momenti ludici.
A Roccastrada, nel luglio del 1921, gli squadristi improvvisatisi camerieri offrono il caffè in piazza ai paesani, utilizzando la macchina “sequestrata” al circolo socialista, a Trecate, un anno dopo, improvvisano un ballo nelle strade con le contadine, sempre utilizzando una “preda bellica”, rappresentata in questo caso da un pianoforte trovato nella sede leghista. Prassi comune è poi la distribuzione gratuita dei generi ammassati nella Cooperativa, che, però, al ritorno dalla provvidenziale fuga nelle campagne, i vecchi proprietari si faranno restituire, non senza aver prima impartito qualche bastonatura agli incauti che hanno approfittato della “offerta”.
E’ il rientro, quando l’adrenalina dei camionati comincia a tornare a livelli accettabili, che si rivela il momento più favorevole alla sorpresa avversaria. Sorpresa vile ma micidiale, come teorizza il deputato socialista polesano Dante Galliani, nel concludere i suoi comizi col solito refrain: “Mettetevi dietro una siepe e sparate, quando vedete i fascisti!”.
Protagonisti di parte fascista sono gli uomini, ai quali, però, si aggiunge, fin quasi a farsi persona anch’esso (al punto di essere chiamato con nomi “umani”), il camion. In genere si tratta di malmessi 18BL presi alle aste del “fuoriuso” militare. Più raramente sono automezzi ceduti in prestito “orario” da camerati e simpatizzanti (non di rado “convinti” con maniere spicce), e, in casi estremi, regolarmente noleggiati (talvolta anche nella variante pullman).
Un mix abbastanza vario, come si vede, che in qualche caso si rivela una trappola. Infatti, saranno proprio i documenti di noleggio, regolarmente firmati da Arpinati in qualità di responsabile del Fascio, a portare il popolare Leandro in carcere, per “responsabilità oggettiva”, dopo che la spedizione su Pieve di Cento (alla quale lui non partecipava), l’8 marzo del 1921, si era imprevedibilmente conclusa in maniera drammatica, con la morte di una donna affacciatasi alla finestra.
Resta, comunque, il 18 BL il più comune mezzo di trasporto:
Dalla fine dl ’20 a tutto il ’22, furono di gran moda in Italia, specie fra la gioventù, alcuni oggetti caduti ormai totalmente in disuso. Fra essi, si notava un macchinone fragoroso, a nome camion, che nulla potrebbe avere a che fare con l’odierna buicche.
Capace di contenere una quantità immensa di gente in camicia nera, ma non mai quanta desiderava di montarci, aveva la messa in moto a manovella, e richiamava spesso Diciotto BL. Amava molto il fascismo, e lo serviva, senza null’altro chiedere che un po’ di benzina e di olio. Infiammatosi d’amore per una vaga donzella chiamata Spedizione Punitiva, s’unì con essa in vincolo di matrimonio, e quando quella morì, il povero camion, vinto dalla disperazione, si mise a trasportare legnami, balle di gesso e altro materiale. Un giorno del 1924 la Spedizione Punitiva ritornò su questa terra, e, per qualche mese, il camion filò con lei il vecchio amore.
Egli si rammentava sempre di aver trasportato in quell’epoca all’Abbadia San Salvatore molti baldi giovanotti che andarono là a salutare il duce, e a fargli atto di dedizione e di affetto. Quando ricorda quel giorno, il povero camion non può frenare una lacrima sul ciglio del carburatore. Agonizza ora in un buio garage, consumandosi d’odio verso l’infame buicche e si duole che i giovani l’abbiano tradito per quella civettaccia straniera.
Muori in pace, vecchio camion, e non te la pigliare ! Chi ti conobbe e potè apprezzare la tua fede fascista disinteressata e pura, non ti dimenticherà mai, e tu vivrai nell’affetto e nella memoria di tutti gli squadristi.
“Il camion, benché non sia scicche, è più fascista della buicche” (1)
A bordo dell’automezzo, generalmente scoperto, raramente “attrezzato” con qualche panca, ma più spesso all’impiedi, proprio come gli Arditi in tempo di guerra, una ventina di giovani, armati alla carlona, che devono fare i conti anche con un pericolo di nuovo tipo, sconosciuto ai loro predecessori al fronte:
I fili di ferro tesi attraverso la strada, a tagliar le teste, quelli non ci fanno più paura. Con quelle due sbarre di ferro che ha combinato Gambotto davanti all’autocarro, e sopra, come le hanno le autoblindate, i rossi possono tendere fra due alberi anche un cavo di teleferica, noi lo si taglia in due ! (2)
Più di rado, quando la spedizione è diretta verso un centro più grande, servito da linea ferroviaria, la cronica mancanza di mezzi suggerisce l’uso del treno, previa colletta per pagare (non sempre, però, talora si viaggia a ufo) i biglietti, e le inevitabili liti con il personale di bordo le cui simpatie sovversive sono note:
Se le partenze avvenivano in treno, allora i fascisti diventavano la “gioia” dei viaggiatori. Perché, il più delle volte, non tardava ad echeggiare lo squillo assordante del campanello d’allarme, e il treno si fermava in piena campagna, per qualche scaramuccia con gli avversari e relativo scambio di cortesie…
Nell’andata vi era la delizia dei preparativi con abbondanza di pronostici, più o meno ottimisti. I quali preparativi erano del pacifico viaggiatore bastevoli per conoscere le attrattive e le sorprese d’un vero viaggio d’avventure. Non mancava mai la lite con il sovversivo racimolato nel fondo di qualche scompartimento, con il lettore troppo assiduo di giornali “infetti”
Il ritorno, poi, era ancora più movimentato. Nell’andata occorreva esser cauti per non correre il rischio di non giungere alla meta, al ritorno, invece, il compito era stato assolto, e i fascisti potevano pure imbastire qualche “numero fuori programma”.
I fascisti, poi, avevano il cattivo vizio di non poter riposare, neanche di notte. Cosicché passavano il tempo cantando e stonando le loro canzoni, con abbondante ripetizione di bombe a mano e pugnali, e creando chissà quali paurose visioni nei sonni beati dei viaggiatori. I quali, poco per volta, erano tutti svegli, e allora dovevano sorbirsi il racconto dettagliato della spedizione, con relativo assalto alla Camera del lavoro e bastonatura del sindaco bolscevico.
D’altronde, come si poteva fare a non ascoltare quei “bravi ragazzi”, tutti infatuati delle loro gesta e più lieti che nel ritorno da qualunque viaggio di nozze ?
Finalmente l’arrivo é vicino. Ultimi alalà. Il treno è giunto, e allora scendono di corsa, s’ordinano per tre, gagliardetto in testa, e scompaiono cantando…
Il dovere della giornata è compiuto. Alla sede, ove pochi compagni di fede attendevano impazienti, sono accolti con canti di gioia e abbracci.
Le spedizioni in provincia si susseguivano. Più simpatiche quelle eseguite sui camions polverosi. Sui quali si stava tremendamente male, ma dove si poteva fare intiero il proprio comodo, senza importunare la signora che vuol dormire, che le dà noia il fumo o che soffre d’emicrania.
Vi era, però, un inconveniente: in ferrovia si partiva in venti e si arrivava in quaranta, perché quelli in soprannumero si nascondevano in qualche bagagliaio, e comparivano solo quando non era possibile la via del ritorno, e si noti bene che quelli in soprannumero non mancavano mai; colle partenze sui camions, la cosa presentava le sue difficoltà.
Erano sempre litigi, pugilati per poter salire. E, anche quando il camion preso d’assalto era stipato fino all’inverosimile, vi erano sempre quelli col naso in aria, che protestavano perchè erano rimasti a terra, e non sapevano decidersi di tornarsene a casa. (3)
L’inventiva e lo spirito di adattamento squadrista suggerisce, ove necessario anche varianti inaspettate:
Uscimmo dal caffè che erano quasi le 22. Fuori era una nebbia umida che si poteva tagliare a fette, i vaporetti non camminavano già da ore, eravamo in pochi prima, dovevamo andare a raggiungere gli altri a Malamocco; ci avevano riferito che in una delle taverne che si nascondono nei vicoletti di quel paesuolo, si riunivano seralmente dei capi del partito comunista… Pochi eravamo armati… i manganelli dovevano bastare. Era stato necessario mettere le giacche e mascherare quanto più possibile la camicia nera.
Ma che notte… Attraversammo piazza S. Marco chiamandoci per nome, per non sperderci… Avevo voglia di scaldarmi, fremevo al pensiero che quanto prima avrei potuto dar sfogo alla mia bile contro i rossi che per poco l’altra sera non ci stendevano per calle del carbone.
Vi era il sandalo che ci attendeva. Giggi il gondoliere fischiava per avvertirci che era là ad aspettarci da un bel pezzo… ”Sarebbe meglio cambiare itinerario e giungere a Malamocco anziché da Canal Grande…”. Non aveva finito di dire che un razzo descrisse un semicerchio e si tuffò nella laguna, a breve distanza delle detonazioni raggiunsero l’imbarcazione, e poi…
Non seppi più nulla… mi son trovato qui… e lo vedi come…
“Dopo – prosegui io – tutto fu questo: un altro razzo illuminò la tua imbarcazione dove i tuoi compagni si erano nascosti. Giggi tuffatosi in acqua aveva fatto capire agli avversari che i feriti eravate molti e gli altri si erano rifugiati nell’acqua, e che, quindi, il sandalino era in balia della corrente
Intanto Giggi nuotando cercava di trascinare l’imbarcazione verso riva, ma i tuoi compagni, passato il primo momento di sorpresa, presero i remi; e, dopo averti fasciato il braccio sanguinante, si diedero ad inseguire quei briganti che, intuendo il pericolo di un rinforzo, diedero sfogo al motore e si allontanarono velocemente
“Avevano una barca a motore ?” … ”No, di più, una lancia velocissima, e si apprese più tardi che a bordo vi era persona della Camera. (4)
Quando, nelle più consuete azioni camionistiche, la meta è raggiunta, lo svolgimento assume toni apparentemente imprevedibili, ma normali per dei giovani allegri e di temperamento vivace quali sono quelli in camicia nera, accolti con favore dopo un biennio di soperchierie sovversive.
Vennero, infatti, i fascisti, di mattina presto. Vennero da tutti i paesi della Chiana, a squadre, a piedi, sui camions, in bicicletta, accompagnati dalle loro fanfare e dai loro canti…
Le donne, dietro i vetri, guardavano meravigliate quei giovani che non finivano mai di sopraggiungere.
Erano bei giovanotti, i fascisti ! Con la camicia nera aperta sul collo, le maniche rivoltate sugli avambracci venati e muscolosi, il fez a sghimbescio sui capelli bruni che uscivano, simili ad un’ala nera, dando ai volti un’aria sbarazzina e nello stesso tempo marziale… Ma non era solamente il fez che attirava le donne; molti di quei giovani avevano occhi così ardenti, così pieni di fuoco, che non si potevano guardare, e da quella giovinezza si sprigionava un profumo che pungeva e attirava…
Passavano per tre i fascisti, in lunghe colonne, cantando. Le loro canzoni erano come le loro musiche, allegre, elettrizzanti; e i canti evocavano le lunghe marce al sole, i bivacchi alla luna, quando i troppi ricordi non lasciano dormire…
Le donne guardavano meravigliate, pensando: “Son questi i fascisti, gli incendiari, i sanguinari ? Possibile ?” e le più giovani ammiccavano sorridendo, e si sussurravano all’orecchio: “Senti come canta bene quel moretto ! E che bella bocca !” E più di una arrossiva dietro i vetri.
“O bella di maggio” – disse un fascista mentre passava, a una ragazza affacciata sopra
un vaso fiorito –“Me lo getti un fiore ?”
Subito una mano staccò dalla pianta il più bel fiore, e lo gettò nella strada. la domanda era stata accompagnata da un sorriso così incantevole !
Dall’alto due occhi lucenti seguirono il giovane inchinarsi a raccogliere il fiore, fissarono un po’ imbarazzati, ma felici, il maschio volto che si schiudeva a ringraziare, come una rosa al mattino, e tremarono al gesto che metteva sulla bocca del moschetto il fiore raccolto:
“Asciuga il pianto
della fidanzata
si va all’assalto
si vince o si muor. (5)
LE ARMI
La necessità di essere armati, e bene armati, ha, per i fascisti, almeno due motivazioni: la diffusa presenza di armi da fuoco (e anche esplosivi) tra gli avversari e la grande disparità numerica a loro sfavore.
In occasione delle occupazioni delle fabbriche, si sono visti, sui muri perimetrali e al’ingresso, nidi di mitragliatrici (fabbricate talora anche all’interno delle stesse fabbriche) e picchetti con fucili in spalla e cartucciere a tracolla, mentre nelle campagne ai tradizionali schioppi e fucili da caccia che non mancano in casa dei contadini, si sono aggiunte armi da guerra (moschetti e pistole) che molti hanno portato come souvenir dalle trincee.
In parallelo vi è il dato numerico, confermato dalla crudezza dei dati forniti dalle decine di migliaia di adesioni a Partiti di sinistra, Leghe e Sindacati a confronto con le poche centinaia di aderenti ai primi Fasci. La controprova –determinante dell’imporre “risolutezza” all’azione squadrista, saranno i risultati elettorali di fine novembre del 1919, delle amministrative del 1920 e delle politiche dell’anno successivo. Ancora nel maggio del 1921, infatti, a fronte dell’azione squadrista in corso, la forza complessiva della Sinistra resterà sostanzialmente immutata per la compensazione che la nascita del nuovo PCdI realizza a fronte del calo socialista.
Dal punto di vista dell’armamento, il discorso non è molto diversamente sbilanciato a sfavore dei fascisti. Il ricorso all’acquisto è reso impossibile dalle scarse finanze (“si erano venduti gli ultimi Salgari per comprarsi i primi caricatori”, scriverà Pavolini, pensato ai giovanissimi squadristi come lui) e le disponibilità personali di residuati bellici possono poco a fronte delle masse da disperdere e fronteggiare.
Un caso come tanti altri è quello di Firenze, da dove, il 24 agosto del 1920, il Segretario Amministrativo Montanari scrive disperato alla Direzione del Movimento:
Caro Rossi,[…] per il 12 settembre, giorno della manifestazione che stiamo per fare grandiosissima, sapendo che vi sarà qualcosa per l’aria, più che altro con gli anarchici, le nostre squadre sono malamente armate…Qua ci temono perché credono che si abbia un arsenale bell’ e buono…e invece, siamo sprovvisti di tutto. Mussolini promise al nostro Galardini, quando venne a Milano, che le armi doveva in parte sussidiarle il Comitato centrale. Quanto potrete inviare sarà ben accolto: con una rivoltella di numero che ci avete inviato, ci si può a malapena suicidare…Io credo che la questione di quegli affarini sia vitale per noi. E specialmente per Firenze, dove si può armare circa ottanta soci, ma con che cosa? Capirà bene, mica tutti i fascisti possono sobbarcarsi una spesa di 100 e più lire ! (6)
La risposta di Milano, però, non sarà delle più incoraggianti:
Caro amico,[…] in quanto a quegli arnesi, il Comitato centrale non può assumersi nessun impegno verso i singoli Fasci, per intuitive ragioni finanziarie: le difese locali devono essere escogitate sul luogo. (7)
Anche per questo diventa necessario il ricorso a SIPE e Thevenot, non tanto per il danno che effettivamente fanno, quanto per il terror panico che suscitano con il loro solo esplodere, capace di fugare anche masse molto numerose.
C’è poi, terribile e fascinoso insieme, per la fama conquistata nelle imprese ardite e per il carattere di sfida personale, con i corpi a contatto che impone, il pugnale, che non è il coltellaccio da cucina del quale sono spesso armati i loro avversari, ma ambisce essere erede del “ferro freddo” dannunziano.
Valga una testimonianza tratta non da un libro, ma da un articolo di giornale, a conferma della rilevanza di tale altra documentazione, a tutt’oggi in gran parte inesplorata:
Nessuno che non sia stato giovanetto, può capire il fascino grande che avevano allora le armi sugli adolescenti… Chi non aveva invidiato… agli Ufficiali che giungevano dal fronte le grosse rivoltelle brunite appese alla bandoliera o al cinturone ? E i pugnali ? Che gola facevano i pugnali, i vecchi, rozzi pugnali degli Arditi buoni a bucare una pancia… C’era, appunto al muro, un disegno, rappresentante un Ardito nell’atto di lanciarsi nella mischia: una mano stringeva un pugnale, l’altra una SIPE. Dalla giubba spalancata si vedeva biancheggiare sul maglione nero un teschio tra due tibie incrociate.
Poi la porta si spalancò. Qualcuno ci disse: “Entrate… C’è del rischio, ricordatelo. Bisogna affrontare tutto. Vi sentite?”
Se ci sentivamo? Eccome… Una stretta maschia. Ragazzi o no, s’era ormai tutti fascisti. (8)
Se per molti ex combattenti l’arma, da fuoco o bianca, è diventata quasi un naturale prolungamento del braccio, per i giovanissimi essa ha il fascino del proibito e rappresenta il passaporto indispensabile per l’accesso alla crema delle squadre. Nelle cronache è frequente il racconto di come chi non ha altro che un nodoso bastone, venga lasciato a terra, soprattutto nelle azioni più rischiose, dalla accorta selezione dei capi.
Anche in “Giro d’Italia” di Alessandro Pavolini che è pur’esso in buona parte “romanzo squadrista”, vi è traccia certa di questo stato di cose. Al momento della partenza per una spedizione: “Tullio Tamburini a urla e pedate caccia dalle tre automobili chi è di troppo e chi non ha che il bastone, lo sfollagente o il rompi testa”.
Dal 1919 fino alla metà ed oltre del 1921, quello dell’armamento è un problema serio per gli uomini delle squadre. In parte vi ovvierà l’afflusso di forti quantitativi di armi da Fiume, al termine dell’impresa dannunziana, mentre resta indimostrata la tesi di un diffuso “rifornimento” ad opera di Reparti militari “amici”.
Per esempio, quando all’alba del 17 aprile del 1921, ventidue squadristi partono da Arezzo, diretti a Foiano della Chiana, per un’azione dimostrativa destinata ad avere un tragico esito, ma che nelle intenzioni deve “confermare” gli esiti di quella precedente del 12, che non ha granchè spaventato gli avversari, il “pezzo forte” del loro armamento è costituito da due fucili che il Capo-spedizione, il Capitano Giuseppe Fegino, ha sottratto all’Armeria del suo Reparto, ma che vanno rimessi al loro posto nel pomeriggio, prima che qualcuno se ne accorga.
Una realtà, quindi, quella dell’armamento, che nell’insieme è molto più modesta di quanto narreranno poi le cronache, anche per giustificare la sconfitta sovversiva.
Non è cosa, però, che preoccupi più di tanto gli squadristi, i quali, anzi, ne traggono spunto anche per fare, negli anni a venire, dell’ironia, riferendo episodi dei quali resta difficile dire quanto saranno veritieri:
Giunti vicino alla sede della Società (si tratta di una Cooperativa socialista ndr), cominciò contro di noi una sparatoria dai tetti delle case vicine. E qui è acconcio ricordare un aneddoto
Il nostro camerata Pacilli agitava una vecchia rivoltella e stava nel mezzo della strada a rischio di prendere qualche colpo. Ad un tratto, il povero Pirro Nenciolini gli grida, con la sua caratteristica voce nasale: “Pacilli, getta la bomba !”
Egli si volta, e, agitando la rivoltella ormai scarica, risponde: “O icchè ho a buttare, se un ce l’ho !”
Al che Nenciolini replica: “Buttala lo stesso, perdio !”
Pacilli prese delicatamente una di quelle cose che i cavalli sogliono fare e lasciare nel mezzo della strada, e la lanciò contro una casa dalla quale sparavano.
Abbiamo avuto anche noi i nostri Cambronne ! (9)
Pure nella Ferrara di Balbo le cose non vanno molto diversamente, come deve ammettere, tra mille precauzioni, anche un “insospettabile” autore:
L’uccisione degli avversari non era l’obiettivo delle squadre di Balbo, che, infatti, erano armate soprattutto di bastoni (il “santo manganello” della retorica fascista); le rivoltelle erano portate e usate a scopo di intimidazione e per difesa personale in casi di inferiorità numerica. Per i fascisti, uccidere un socialista era semplicemente un ”incidente sul lavoro” che andava preventivato (anche per mantenere la fama di spietatezza delle squadre, ma non cercato espressamente, perché politicamente non necessario, e, oltre un certo limite, controproducente. (10)
IL CORAGGIO E L’ARDIMENTO
Pugnali, revolver, moschetti, SIPE, Thevenot e qualche rara mitragliatrice non basterebbero, però, a risolvere lo scontro, se ad impugnarli e utilizzarli non fossero uomini “di fegato sano, di dura cervice e di pugni solidi”, come si diceva allora, non spaventati dall’inferiorità numerica.
“Trenta eravamo e per trecento fecimo” scriverà con orgoglio Pippo Ragusa nel suo “Squadrismo palermitano”, e questo del coraggio individuale o di piccoli manipoli, sarà un motivo ritornate nella narrazione squadrista.
A Firenze diventa quasi una prova di iniziazione per l’ aspirante-squadrista la sfida lanciata, da solo, in un caffè frequentato da “rossi”, con la provocatoria richiesta di “un bel caffè alla fascista”, che viene poi sorbito tranquillamente prima di lasciare il locale, nello stupefatto timore degli avversari,
Quasi dovunque è la presenza degli Arditi, “vessilliferi del coraggio puro” ad avere, come conseguenza, lo scatenarsi di un vera e propria gara continua di ardimento. Non è escluso che più d’un caduto squadrista sia proprio la tragica conseguenza di questo stato di cose, che esclude ogni minima regola di prudenza e la sacrifica al gusto dell’azione pura, in un crescere di stati d’animo di vera esaltazione, che si alimentano da se stessi:
Giorni prima avevamo assistito ad un comizio rosso in piazza De Ferrari… Lanciarsi in tanti contro una folla come quella, sbalordirla con l’impeto, penetrarvi in mezzo per varchi aperti con la forza, punirla, umiliarla, fugarla. E poi, con la stoffa rossa di quelle parodie di bandiere, pulirsi le scarpe impolverate, tra la ridicola ecatombe dei cappelli sfondati o calpestati, dei bastoni rotti…e in quel macigno di bruttura, in quel blocco di odio acceso di bandiere scarlatte, cozzar dentro a denti stretti, muscoli nervi cuore volontà appuntati, picchiare picchiare picchiare provocar la crepa, incunearsi in essa, farla diventare fenditura ampia, e poi ancora picchiare picchiare picchiare finchè tutto intorno ribollisce, e le pagliette volano sfondate, e la gente scappa e i questurini fanno squillare la tromba. E si rimane in pochi, ansanti, quasi piangenti per la rabbia e lo sforzo disperato… in mezzo alla piazza… che ora è come una pattumiera, cosparsa dei cappelli sfondati, dei bastoni rotti, di “Avanti” strappati, di garofani rossi calpestati. (11)
Anche i futuri capi si devono guadagnare i galloni sul campo. Farinacci, “sfidato” dagli avversari a presentarsi, una sera di settembre del 1920, dopo cena, all’Aquarium, per regolare i conti, annota sul suo Diario: “Naturalmente io non posso dimostrare d’aver paura, e verso le 20,30, esco”. Ne nasceranno incidenti, con due morti, molti feriti e l’arresto del popolare squadrista.
Meglio andranno le cose due anni dopo, quando, alla sua maniera, deciderà di reagire alla notizia del ferimento di un camerata, in un paese delle provincia:
Non perdo tempo. Con l’automobile di Filippo Sperlari, accompagnato anche dal Comandante delle squadre d’azione Grisi, mi porto velocemente sul posto. La piazza di Crotta d’Adda è gremita. Non ci preoccupiamo d’essere solo in tre: fermiamo l’automobile, discendiamo e ci scaraventiamo contro la folla, menando nerbate all’impazzata.
Ci prendono più per tre pazzi che per tre fascisti, ma il risultato è miracoloso: avviene il fuggi fuggi generale. (12)
NOTE
- Mino Maccari in: Asvero Gravelli, I canti della rivoluzione, Roma 1926, pag. 203
- Guido Strumia, Venti su un autocarro, Biella 1941, pag. 88
- Emilio Papasogli, Fascismo, Firenze 1923, pag. 110
- Aurelio Maria Pizzo, “Rivoluzione, dal diario di un fascista in cammino 1920-32”, Roma 1932, pag. 44
- Adolfo Baiocchi, “Camions”, Milano 1932, pag. 9
- In: Roberto Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino 1919-25, Firenze 1972, pag. 112
- Ibidem
- Carlo Otto Guglielmino, “I ragazzi del 1919” in “La Prora” del 25 ottobre 1942, riportato in: Francesca Alberico, Le origini e lo sviluppo del fascismo a Genova, Milano 2009, pag. 111
- Bruno Frullini, “Squadrismo fiorentino”, Firenze 1933, pag. 222
- Giorgio Rochat, Italo Balbo, Torino 1986, pag. 48
- Carlo Otto Guglielmino, “I ragazzi del 1919”, cit., pag. 109
- Roberto Farinacci, Squadrismo, dal mio diario della vigilia, Roma 1934, pag. 141