“Fu tra gli Arditi… che cominciai a staccarmi dalle pagine dei miei libri preferiti, di poesia, d’arte, di critica, di ricerche filosofiche, accatastati nella cassetta d’ordinanza a conforto delle stremanti attese delle trincee” (Giuseppe Bottai, “Vent’anni e un giorno”)
Ci sono, nella memorialistica squadrista, ma con riverberi anche nella narrativa, e persino nella saggistica, dei topos sui quale vale la pena di soffermarsi, per capire lo spirito dei protagonisti e del tempo.
Essendo fuor di luogo pensare che chi scriveva si fosse “passato parola” o ci fosse stata una diffusa opera di copia-incolla, l’unica spiegazione possibile è che tali elementi di comunanza, presenti in testi di Autori diversi nello stile, lontani nella collocazione geografica e scritti a distanza di tempo tra loro, raccontassero la realtà, o, perlomeno la realtà come la vissero i mussoliniani.
Questo è il secondo elenco.
I “COVI”
“Nella guerra tra il camion e la Casa del Popolo è il primo che deve vincere e vincerà” scriverà, col senno di poi, Angelo Tasca nel suo “Nascita e avvento del fascismo”, prendendo amaramente atto di come erano andate le cose nel quadriennio rivoluzionario del fascismo.
Sta di fatto che gli squadristi introducono, nel confronto politico, la variante del “movimento”, che non è eredità di una guerra che era stata “di posizione”, ma appartiene alla scelta elite degli Arditi, che muovevano dai loro accantonamenti nelle retrovie, conquistavano a colpi di bomba e pugnale le trincee nemiche, e facevano ritorno alla sede, lasciando il campo alle fanterie.
Ovvio che, con questo presupposto, avere sedi al limite del fastoso (come non di rado, soprattutto nelle città, sono quelle di Partiti, Leghe e Sindacati di sinistra) sia un controsenso, confermato anche dalla facilità con la quale, a mezzo del sapiente uso di due latte di benzina, esse vanno a fuoco.
Ai neroteschiati basta poco, perciò, pochissimo.
In tutta Italia, molte squadre hanno la loro prima sede o luogo di riunione nelle abitazioni di qualche aderente o nelle salette di un caffè. Così avviene, per esempio, a Firenze, con il Gambrinus, o a Milano, dove la Randaccio si riunisce in una saletta del Boeucc, in via Silvio Pellico.
A Nord come a Sud, è questo il modo per risolvere sbrigativamente, almeno all’inizio, il problema della sede. A Savona i locali superiori del caffè Chinese vedono le prime adunanze fasciste, a Vicenza succede lo stesso al caffè Garibaldi, a Padova il luogo di raduno è lo storico caffè Pedrocchi, a Ferrara la “Celibano” viene costituita al caffè Mozzi, dietro la piazza del Duomo, mentre a Reggio Calabria le iscrizioni si fanno presso il caffè Commercio.
E ancora: a Pistoia, i primi squadristi, “padroni” solo del centro cittadino, si riuniscono al caffè Centrale, a Fidenza, il primo punto di ritrovo viene scherzosamente battezzato “bar del manganello”, mentre a Perugia, a fine marzo del 1921, non trovando nessuno disposto ad ospitarli, i fascisti requisiscono i locali dell’Accademia dei Filedoni, circolo di giocatori, e vi si stabiliscono.
La potemmo avere (una sede ndr) finalmente, da un fabbricator di giacchette, che ce la cedè in affitto. Una stanza al primo piano nello stabile posto in via Cavour al n. 29.
Arredamento: un cartello in tela pitturato da me su ordinazione di Galardini, Lascialfare, Carbonai e Moroni, con iscrizione ”Fasci italiani di combattimento e Avanguardia studentesca”.
Un tavolo, due sedie, e , pardon, un ritratto di… immaginate un po’? Lenin, niente meno, posto in un canto in posizione orizzontale e che aveva onorifica funzione di sputacchiera.
Alla costruzione del cartello detti tutta la mia capacità pittorica, al ritratto tutta la mia forza di stomaco ! (1)
Per un fatto di affezione, o più probabilmente per la mancanza cronica di fondi, tale situazione sarà destinata a protrarsi per molto tempo, anche in una città come Roma, destinata ad essere, dopo l’ingresso in Parlamento della pattuglia fascista e dopo la trasformazione in Partito, il cuore pulsante del Movimento:
I locali di via Laurina erano troppo angusti ed infelici, c’era la necessità di una sede più vasta, se ne parlava, si facevano proposte, ma non c’era denaro per pagare fitti molto alti; solo nei mesi avanzati del ’22, il Fascio romano ebbe una sua sede vasta, seppure di fortuna, a via degli Avignonesi, quasi all’angolo con via Quattro Fontane, in uno scantinato che era stato utilizzato quale sala biliardi. Con dei tramezzi in legno furono predisposti degli sgabuzzini per gli uffici, mentre restava libero un salone rettangolare, dove ormai regolarmente ogni sera confluivano decine e decine di giovani. (2)
Peggio vanno le cose in periferia:
E, nel primo pomeriggio di quel 20 settembre 1922, chiuse le dimostrazioni udinesi, Mussolini mi disse all’improvviso: “E adesso andiamo a Pordenone”… Feci appena in tempo ad avvertire qualche amico annunziando la visita improvvisa, e, quando arrivammo, Mussolini volle subito visitare la nostra sede, che egli certamente pensava fosse, alla vigilai della conquista del potere, una di quelle sedi già decorosamente allestite; ma, con sua grande sorpresa, egli venne accolto in una grande vecchia e piuttosto malandata cucina. Era la sede del Fascio, e quando sortimmo e ci trovammo in mezzo ad un grosso nucleo di cittadini in attesa, Mussolini disse ad alta voce parole che rimasero incise nella memoria di tutti: “Mi piace questa vostra povertà francescana” (3)
Nelle sedi improvvisate e spartane, nell’attesa dell’azione, si amalgamano gli elementi socialmente più diversi. Commercianti, studenti, professionisti ed operai, con una nuova gerarchia che non deriva né dal ruolo sociale né dalla ricchezza dei singoli.
A Grosseto, per esempio, il primo segretario politico sarà un muratore, mentre tra gli aderenti vi saranno commercianti, studenti, il farmacista, e perfino un professore universitario.
La squadra ha i suoi riti, e la sede il suo nome (in genere “covo”), copiato dal precedente milanese, dove il diritto a chiamarsi “covo nr. 1” e “covo nr. 2” se lo contendono la sede degli Arditi e la redazione del Popolo d’Italia.
Locali in genere modesti, come si è accennato, ma che hanno una funzione rilevantissima:
E ci accorgiamo che questo buco (la sede della “squadra” ndr) fa da mescolatore, amalgama gli elementi socialmente più disparati, studenti con operai, commercianti con professionisti; unisce e smussa diaframmi tra le classi, che difficilmente in altro modo potrebbero essere eliminati. poi ci si tratta tutti col “tu”, come se fossero mill’anni che ci si conoscesse…
Abissi dovevano esistere, per esempio, tra il “Pascià” e Francesco, che pure discutevano fitto fitto nell’angolo. Abissi morali, abissi di educazione, di ambiente, eppure la violenza fatta persona dell’uno, tozzo, sanguigno, con un sacco di nastrini sulla divisa di Ardito, che accusavano in lui il vero “homo d’arme”, sembrava legare con la figurina sottile del figlio unico cresciuto nella bambagia e viziato dalla coccolatura del parentado. Abissi pure tra il professore di matematica – quello che mi aveva firmato la domanda nell’ormai lontano 1920 – sempre in mezzo alle nuvole, raffinato, esteta alla Oscar Wilde, e quel tanghero del tabaccaio di sotto ai portici, di Beppe, lavandaio, cialtrone, che intontiva col suo vociare sguaiato. (4)
LE BURLE
Al gusto della sfida si aggiunge quasi sempre quello dello sfottò ai danni degli avversari, che ha un nobile precedente fiumano nel noto caso del “cavallo dell’Apocalisse”, nell’aprile, del 1920, quando i legionari sono riusciti a sottrarre alle truppe regolari che assediano la città 46 cavalli ben pasciuti.
Costretti, però, a fare un passo indietro per la reazione governativa che minaccia di bloccare gli invii del grano indispensabile alla popolazione, devono procedere alla restituzione. Col benestare di d’Annunzio, che ne farà oggetto di un suo celebre discorso, mandano indietro, allora, i 46 ronzini più macilenti che riescono a trovare in città, realizzando un’epica beffa ai danni degli assedianti.
Non sarà da meno Guido Keller, che a novembre, alla vigilia della ratifica del trattato di Rapallo, con un gesto clamoroso, volerà su Roma e lascerà cadere fiori con simbolici messaggi sul Quirinale e sul Vaticano, mentre su Montecitorio lancerà un “arnese” di ferro smaltato con alcune rape legate al manico. Il messaggio di accompagnamento, in questo caso, dice: “Guido Keller. Ala. Azione nello splendore. Dona al Parlamento ed al Governo, che si regge col tempo, con la menzogna e con la paura, la tangibilità allegorica del loro valore.”.
La canzonatura squadrista, in qualche occasione, può anche essere preventiva e arrivare per lettera. Al Segretario comunale di Cismon, all’immediata vigilia della marcia su Roma, viene indirizzata pubblicamente una lettera che dice:
Chiarissimo signor Segretario comunale di Cismon… vuole accettare un nostro consiglio ? Faccia fagotto e se ne vada… La cooperativa rossa non si muove, il magazzino comunale sta tirando le gambe come una rana decapitata; insomma, tutto è fallito, persino la sua dorata rivoluzione… la vita è bella, caro amico, è meglio goderla allegramente , specialmente ora che la… luce non viene più dall’Oriente e il sole dell’avvenire è diventato quello del passato, anzi è appassito… E, soprattutto, buon viaggio, senza possibilità di ritorno. Già, se lo ricordi bene… i fascisti cismonesi. (5)
Egualmente ironica è la lettera (che peraltro ripete un modello standard) che Dino Perrone Compagni, Segretario regionale dei Fasci toscani, indirizza, il 6 aprile del 1921, al Sindaco del “rossissimo” Comune di Roccastrada. Il ras della Toscana la mette un pò sul ridere, non potendo prevedere il tragico risvolto che prenderà, dopo l’agguato sovversivo con tre vittime fasciste, la successiva spedizione:
Al Sindaco del Comune di Roccastrada,
dato che l’Italia deve essere degli Italiani, e non può quindi essere amministrata da individui come voi, facendomi interprete dei vari amministrati e di cittadini di qua (di Firenze ndr) vi consiglio a dare entro domenica 17 le dimissioni da Sindaco, assumendovi voi, in caso contrario, ogni responsabilità di cose e persone. E se ricorrerete all’Autorità per questo mio gentile e umano consiglio, il termine vi sarà ridotto a mercoledì 13, cifra che porta fortuna.
Dino Perrone Compagni, piazza Ottavianio 1, Firenze. (6)
C’è poi la cronaca minuta di tanti episodi che colorano la memorialistica. Eccone qualche esempio
- A Pisa, dopo una spedizione dei fascisti fiorentini che vogliono contrastare l’insediamento del nuovo Consiglio Provinciale: “Sono certo che negli archivi della prefettura pisana non esiste il verbale di quella adunanza, poiché potrebbe intitolarsi: “Deputazione provinciale rossa, adunanza del giorno tal dei tali, Presidente: Le Prenda; Consiglieri: Le Prendiamo; Ordine del giorno: Schiaffi” (Bruno Frullini, Squadrismo fiorentino)
- A Firenze, nel corso di un’incursione contro una sede socialista: “Il nostro camerata Pacilli agitava una vecchia rivoltella e stava nel mezzo di strada a rischio di prendere qualche colpo. Ad un tratto, il povero Pirro Nenciolini gli grida, con la sua caratteristica voce nasale: “Pacilli, getta la bomba !” Egli si volta, ed agitando la rivoltella ormai scarica, risponde: “O icchè ho da buttare, se un ce l’ho” Al che Nenciolini replica: “Buttala lo stesso, perdio!” Pacilli prese delicatamente una di quelle cose che i cavalli sogliono fare e lasciare nel mezzo della strada e la lanciò contro una casa dalla quale sparavano. Abbiamo avuto anche noi i nostri Cambronne!” (Bruno Frullini, Squadrismo fiorentino);
- A Milano, nell’anniversario della distruzione dell’Avanti, un gruppo di Arditi decide di festeggiare nella sede di via Cerva. Al termine, uno si attacca al telefono e chiede della redazione dell’Avanti: “Pronti…” “Pronti…” “Chi parla?…” “Barbiani, dell’Avanti…” “Ciao, sono Bruschetti…” “ah, ciao, stai bene? Che c’è di nuovo?…” “C’è che quelli di via Cerva … non so… ma c’è una confusione…” “Sappiamo, sappiamo, ballano, cantano, si divertono…” “Sai, Barbiani, non vorrei facessero come un anno fa…” “Cosa? Come un anno fa ? Ah ! Siamo pronti noi…” “Proprio pronti ? …” “Prontissimi…” “E allora vegni subit con l’orinari…” (Edmondo Mazzuccato, Da anarchico a sansepolcrista);
- A Bologna, dopo che il Segretario della Camera del Lavoro Bucco, interrogato in Questura sulla presenza di molte armi nella sede sindacale, non ha saputo fare di meglio che dire che uno sconosciuto le aveva consegnate a sua moglie, gli squadristi se ne vanno cantando: “Il fortunato è Bucco / Che mangia e non lavora – Il fortunato è Bucco / Che mangia e non lavora – E quando è nei pasticci / Ci mette la signora” (su L’Assalto, giornale del fascio di Combattimento bolognese).
I CANTI
Nella vita delle squadre, il momento comunitario ha un’importanza fondamentale. Stare insieme rinsalda la fiducia reciproca e l’affetto che andranno a dare corpo al nuovo concetto di “cameratismo”, e saranno essenziali nel momento del pericolo, sia esso per una spedizione che per la difesa da un agguato.
Si condividono, però, anche momenti fatti di gioia, allegria e canti.
Nel “Disegno di un nuovo ordinamento dell’esercito liberatore”, non ha forse scritto d’Annunzio che: “Il Legionario non può dirsi compiuto se non sia esperto nel cantare… nel sonare”?
E alla musica non ha forse intitolato la decima Corporazione della “Carta del Carnaro”?
Il canto è un elemento essenziale della liturgia fascista. Le canzoni contribuiscono potentemente a quell’amalgama di sacro e profano che è alla base di questa nuova pratica, basata sulla fusione del tema religioso e di quello politico.
Via libera ai canti, quindi, ogni volta che capita, e nelle circostanze più diverse.
Sono, in genere canti allegri, pieni di gioia e inni alla vita, spesso poco più che stornellate che si fanno tristi solo quando c’è da commemorare un camerata caduto. La più nota fra queste ultime, al punto di subire diversi adattamenti, a seconda della vittima, fino a quando, durante la RSI, sarà dedicata a Ettore Muti, è quella riferita a Giovanni Berta:
Hanno ammazzato Giovanni Berta / fascista tra i fascisti
Vendetta sì vendetta / farem sui comunisti
Dormi tranquillo Giovanni Berta / dormi tranquillo il sogno
Ti vendicheremo un giorno / ti vendicheremo un giorno
La nostra Patria è l’Italia bella / la nostra fede è Mussolini
E noi vivremo di un sol pensiero / quello di abbattere Lenin (7)
Di contro, canzoni e stornellate allegre ce ne sono moltissime: campanilistiche (“Se non ci conoscete, guardateci la mano, noi siamo gli squadristi che vengon da Milano”), arditesche (“Bandiera nera, color di morte, sarà più forte, sarà più forte”), irridenti (“O tu santo Manganello, tu patrono saggio e austero, più che bomba o che coltello, coi nemici sei severo… Di nodosa quercia figlio, ver miracol opri ognor, se nell’ora del periglio, batti i vili e gli impostor… Manganello manganello, che rischiari ogni cervello, sempre ti sarai sol quello che il fascista adorerà”), e così via, all’infinito.
È una gara a chi inventa e mette in – elementarissima – musica il testo migliore:
Ho avuto dei miei camerati salvati, se così si può dire, in semso di anima, dalle nostre canzoni. Vi furono giovani che, tolti la sera all’officina, diventavano i nostri migliori improvvisatori din rime, e su ogni vecchio canto nutrito di lontananza, si improvvisarono e furono tessute le canzoni fasciste.
Le provavamo nella notte, quando ci era possibile aprire le gole per gridare la passione ardita, ed ogni ritornello ed ogni verso nuovo erano l’orgoglio nostro, e li insegnavamo ai pochi camerati, li tenevamo in serbo per le adunate, quando c’erano anche i compagni di altri paesi, onde poter “fare colpo” e bandire le nuove gioiose grida. (8)
Per fare della musica occorre, però avere degli strumenti. I fascisti milanesi, nel corso dell’assalto alla Camera del Lavoro di Sesto San Giovanni, portano via come “preda di guerra” proprio degli strumenti musicali, con i quali equipaggiano la prima banda musicale (e…”d’azione”) squadrista, sotto la guida del maestro Damiani.
Le trombe diventano mezzo di offesa, non foss’altro perché “rompono i timpani” agli avversari, come ricorda divertito Asvero Gravelli, giovanissimo segretario politico del Fascio di Sesto, che non manca di sottolineare (probabilmente con sottile allusione al permanere di vivaci tendenze “di sinistra” in un Fascio prevalentemente operaio quale quello del comune alla periferia di Milano) che, però, gli strumenti si vendichino, tanto che, talvolta, cambiano ritmo, e, da “Giovinezza” passano a “Bandiera rossa”.
La prima, e più importante canzone fascista è “Giovinezza”, originariamente inno studentesco, poi canzone di guerra, e, infine, con varie versioni, inno squadrista, che piace da subito, è facile da imparare e cantare, sufficientemente ritmato per accompagnare le sfilate.
Gli avversari ne fanno delle parodie e delle trascrizioni per il loro uso, che chiamano “Bolscevismo”, “Delinquenza”, etc…
A dimostrazione, però, che quella delle parodie è una mania, i fascisti, oltre a “Bandiera nera”, rifacimento opportunamente arrangiato di “Bandiera rossa”, non di rado utilizzano anche canzoncine alla moda per adattarvi parole loro, dal richiestissimo “Manganel”, che ha i ritmi di “Abat Jour”, a “Misiano”, che ricorda “Apaches”.
Molto popolari, perché ancora più facili da intonare, sono poi le notissime “Allarmi” e “Me ne frego”, quattro parole in rima, simili a quelle strofette ritmate che non di rado, per un’offesa più “cruda” all’avversario se ne infischiano di finali di parole e metrica.
Ma non importa. In fondo è un gioco anche quello, l’occasione di canzonare gli altri e canzonarsi a vicenda, che aiuta a non pensare alla morte sempre in agguato.
NOTE
- Bruno Frullini, Squadrismo fiorentino, Firenze 1932, pag. 13
- Alfredo Signoretti, Come diventai fascista, Roma 1967, pag. 128
- Piero Pisenti, Una repubblica necessaria (RSI), Roma 1977, pag. 27
- Mario Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano, Roma 1980, pag. 85
- In: Mario Passuello-Nevio Furegon, Le origini del fascismo a Vicenza, Vicenza 1981, pag. 174
- In: Hubert Corsi: Le origini del fascismo nel grossetano, Roma 1973, pag. 150
- Questa la versione riportata in: Asvero Gravelli, I canti della rivoluzione, 1926, pag. 128
- Asvero Gravelli, cit., pag 16
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