Pubblichiamo di seguito uno stralcio della prefazione di Giovanni Sessa al volume di Alessio de Giglio,Lo Stato Interiore, il destino di Evola dopo Evola, Solfanelli, Chieti 2021, pp. 304, euro 16,00.
L’aforisma nietzschiano che dà il titolo a questa nostre brevi note, Tutto ciò che è profondo ama la maschera, ci pare sintesi esemplare del percorso esistenziale-speculativo di Julius Evola, e allo stesso tempo dei contenuti di questa monografia di Alessio de Giglio, dedicata al filosofo romano. Libro intenso, lungamente pensato, partecipato e vissuto dall’autore, non solo in termini meramente intellettuali.
L’autore, peraltro, è molto chiaro: esplicita fin dall’ incipit la ragione che lo ha indotto a scrivere, Lo Stato interiore. Il destino di Evola dopo Evola : “Dopo Evola, infatti, anche Evola non può più essere lo stesso”. Questo libro si inserisce in una congerie teorica complessa, che ha spinto molti autori ad interrogarsi sull’evolismo del nostro tempo, sull’evolismo nella società liquida o postmoderna . Tale esigenza è ben rappresentata, tra le altre, dall’opera di Aleksandr Dugin, Teoria e fenomenologia del soggetto radicale, un tentativo di tradurre l’ “uomo differenziato” teorizzato da Evola in Cavalcare la tigre, nella realtà storico-spirituale contemporanea. Si possono avanzare distinguo e differenze rispetto alla proposta del filosofo russo, ma nulla si può obiettare al fatto che il mondo nel quale viviamo ci solleciti a ri-pensare Evola e, quindi, a porci il problema di cosa mai sia “Evola dopo Evola”. Tali stimoli teoretici possono, peraltro, aiutare a diradare il timore, espresso da de Giglio, che Evola: “sia destinato a rimanere incompreso”, cosa comunque possibile in quanto egli fu: “antifascista nel fascismo, nemico della massoneria amico di massoni, filosofo della razza non razzista […] alchimista senza oro”. Per la vulgata critica corrente e a causa dei suoi mascheramenti e depistaggi, Evola fu tutto e il contrario di tutto, un enigma per se stesso e per noi. Per tal motivo le pagine di questo volume invitano, innanzitutto, a: “difendere le idee di Evola da Evola”.
Inutile dire che tale atteggiamento potrà sconcertare, lasciare perfino allibito qualcuno. Innanzitutto i “poveri di spirito”, che troveranno in queste pagine ragioni atte a mettere in crisi le false certezze letteraliste, bassamente scolastiche, a cui sono adusi. L’immaginetta Evola, preconfezionata dall’intellettualmente corretto (di cui sono parte integrante tanto i “destri” quanto i “sinistri” che hanno derubricato, sic et simpliciter, il filosofo ai ruoli di fascista, di razzista, di pericoloso esoterista, insomma di cattivo o buon maestro) non è sostenibile di fronte ad una interrogazione filosofica stringente, filologicamente corretta e documentata, come quella che si appalesa nel libro di De Giglio.
Ad una esegesi seria, onesta nelle intenzioni come nelle conclusioni, l’esperienza evoliana si presenta con il tratto della “fiamma inesausta”, mai doma, incapace di stasi, tanto che l’immobilità a cui Evola fu costretto per decenni, dopo il bombardamento viennese del 1945: “potrebbe essere intesa come il segno inversamente enigmatico della sua inquietudine”. Evola è iperbole, nomadismo spirituale: alterità e singolarità non normalizzabili dal logos del tempo presente, e da quanti (troppi), si sentano impropriamente inattuali á la page. Per questo, oltre i cliché ermeneutici prodotti ad uso e consumo di oramai improbabili “sezioni” di partito, de Giglio ci invita sommessamente a tornare: “Ad aver paura di Evola e a non trattarlo come un oggetto mansueto”.
A questa massima egli si attiene. E’ a volte sferzante, duro, tranchant nei confronti di alcune posizioni evoliane, utilizza l’aforisma, in particolare nel capitolo, Antologia, dove mette in scena nei confronti del pensatore dell’idealismo magico, una vera e propria esegesi “del martello”, finalizzata a far emergere dalla scorza superficiale dell’evolismo, la linfa vitale sottostante. In ultima istanza, Evola è, per il nostro autore, fondamentalmente un educatore, lemma che, non casualmente, Nietzsche utilizzò per indicare il ruolo giocato da Schopenhauer nella cultura d’Europa nel secolo XIX. Ma de Giglio, nonostante i continui distinguo, è fedele ad Evola financo nella prosa che, spesso, come il lettore potrà apprezzare, è costruita come quella evoliana su immagini evocative.
Quindi, prima di addentrarci nell’analisi di altri aspetti di questo interessante lavoro, vogliamo ribadire che la relazione apparentemente conflittuale dello studioso con Evola, in realtà è squisitamente dialogica e perciò erotica, animata com’è, all’interno, essa stessa da tensione iperbolica. Chiunque fosse indotto, dalla lettura, a storcere il naso, prima di farlo dovrebbe ri-cordare, vale a dire riportare significativamente al cuore, al centro pulsante della personalità, un altro aforisma di Nietzsche: “Quel che si fa per amore, è sempre al di là del bene e del male” . I giudizi di de Giglio sono mossi da eros gnosico, privi pertanto di qualsivoglia bassezza moralistica. […] La fiamma mai doma, tende a consumare i suoi contenuti, in tal modo vengono spiegate le “fasi” dell’iter evoliano. In ogni caso, il cristallo di rocca inscalfibile dell’Io è, per il pensatore romano, da individuarsi nella sua capacità di imporsi su ciò che vuole negarlo. Si tratta di un ethos inteso: “quale dimora dell’essere, appartenenza ad una polis. Polis come destino di un individuo nella sua comunità”. Tale posizione spiega il repentino passaggio di Evola dalle rarefatte atmosfere dell’individuo assoluto alla Tradizione. Ma, in quanto ancora centrata sull’Io, commenta de Giglio, tale Tradizione: “è una soluzione disperata”. Nonostante ciò l’ethos trova realizzazione in una ascesi, non solo individuale ma comunitaria, centrata sull’adesione al precedente autorevole testimoniato dai miti dell’ethnos di appartenenza, nella Città e nello Stato. Al di là di quanto sostenuto da critici malevoli e disinformati, quella evoliana, sostiene l’autore con persuasività di accenti, è prassi centrata sul: “dominio e dono di sé, non violenza sugli altri”. Il filosofo non fece altro che correggere una nota sentenza schopenhaueriana: “Io sono solo. Il resto è mia rappresentazione”.
Per le ragioni ora ricordate, de Giglio suggerisce che il pensiero evoliano debba essere affrontato nello stesso modo nel quale ci si rapporta ad un quadro. Non è casuale che Teoria, lemma che compare nel titolo della principale opera teoretica di Evola, sotto il profilo etimologico rinvii all’: “evento dell’Io […] lo spettacolo o la sua rappresentazione”. Da ciò discende il tratto affabulatorio, a-concettuale, delle logicissime e “ben argomentate”, come ebbe a dire Croce, pagine di Evola, sulle quali sovente aleggia pervasiva (fortunatamente) la dimensione immaginale. Il lettore che non voglia rimanere impigliato nella tela tessuta da tanto abile ragno, deve distaccarsene, deve lascarsi alle spalle “lo stato d’animo”, la potente suggestione intellettuale e passionale al medesimo tempo che le pervade, se non vuole perdersi. Soprattutto se non vuole andare incontro all’impossibile identificazione, come più volte ribadisce l’autore, con l’esperienza iperbolica del filosofo, che non appartiene a chi si limita a leggerla. In questo caso, il lettore poco accorto continuerà a ripetere come un mantra, ciò che crede di aver appreso dalle parole di Evola, comportandosi come qualsiasi fedele. Mentre Evola, fin dalle prime pagine di Rivolta, ha posto una netta distinzione tra gli “uomini che sanno” e gli uomini che, semplicemente, “credono” . L’idea evoliana, pertanto, troverà positiva accoglienza nell’animo di quanti: “non si accontentino di essere umani. Agli altri possono bastare le canzoni, lo sport, la democrazia”.