di Mario M. Merlino
Qualche giorno fa, nell’affollarsi di uomini e sigle timorosi di perdere l’occasione di farsi pubblicità sui giornali, ho letto l’invito, un po’ arrogante e minaccioso more solito, di chi chiedeva ‘che si racconti l’unica versione possibile della storia’. Insomma ritrovarsi a riflettere su una idea delle vicende umane lasciate non all’arbitrio (la storia quale luogo dell’assurdo) o alla libertà della ricerca (ciò che dovrebbe essere patrimonio della storiografia in quanto tale), ma profetica provvidenziale, forse hegeliana (che è un invito a cercare il senso e rendersi conto dell’ineluttabilità dei perché), di certo dogmatica e intoccabile, da casta inamovibile e indiscussa. Ed io che sono stato insegnante di storia e mi illudevo di sviluppare il senso critico dei miei alunni, mettendoli in guardia quando traevo valutazioni considerazioni giudizi personali su uomini e cose… Mi diletto, perdonatemi, con il latino: ‘Multi enim sunt vocati, pauci vero electi’ (qui, direi, si potrebbe eliminare ‘multi’ e lasciare i ‘pauci electi!’). Metto subito le mani avanti… Non vi annoierò con il piccolo mondo delle diatribe, che prendono a sfogo il sottoscritto (ho forse l’aspetto del pulcino ‘nero’ con il guscio d’uovo in testa? Nero va be’, ma pulcino mi sembra esagerato. Datemi la speranza d’essere ‘il brutto anatroccolo’ che domani, quando diventerò grande, si trasforma in cigno). Andrei troppo avanti nel disvelare l’immensa estensione della mia vanità, ho ancora delle remore, un minimo di pudore. Cosa vi credevate, miei sciocchi e cari lettori?!
Mentre, appunto, il proprietario romeno del bar mi mostrava Il Messaggero, oserei dire orgoglioso di avere un ‘cotanto’ cliente, e mi mandava nella strozza il cappuccino (un po’ di sana falsa ironia), io – ligio al dovere nei confronti del negriero responsabile di Ereticamente – scrivevo un pezzo sull’Utopia anche in funzione della conferenza a Latina del 15 marzo. Un certo Franco ha lasciato un commento e a lui, oggi, rispondo, augurandomi che non la prendiate come una cenetta a due e a lume di candela e che vi possa interessare comunque. Scrive: ‘L’Utopia l’avevano sotto gli occhi, erano gli amerindi, senza denaro, nudi e sfaccendati. Casaleggio è stato dileggiato per aver citato, solo citato, l’esempio degli Irochesi e Boscimani che lavoravano un’ora al giorno. L’avventura dell’Utopia, come Città Celeste di Pound, continua’.
Bene. Rispondo e completo con un ricordo personale. La provincia di Roma, retta da una giunta di sinistra (credo fosse intorno alla fine degli anni Ottanta) aveva invitato a tenere una conferenza Ernesto Cardenal. Con il basco in testa alla Guevara, i capelli lunghi e bianchi, gli occhiali dalla montatura spessa, ex monaco benedettino, poeta, aveva partecipato alla rivoluzione sandinista contro il dittatore Somoza, puntellato dagli Usa, ed era ministro dell’Educazione nazionale in Nicaragua. Mi trovai a passare per caso sotto palazzo Valentini e, avendo letto un articolo e relativa foto che ne tracciava il profilo umano politico culturale, curioso quanto basta entrai. La sala era spumeggiante di quella borghesia intellettuale, radicale e spocchiosa, che non può mancare di inneggiare a ‘i dannati della terra’, con la pelliccia il cellulare Repubblica in bella vista. Stava raccontando come nel suo paese avesse realizzato i ‘trabajos de poesia’, veri e propri laboratori ove chiunque poteva dedicarsi a comporre versi. Perché – spiegava – la poesia nasce anche osservando un caterpillar che strappa la terra alla foresta. E questa lezione, fare cioè poesia senza disprezzare il vissuto quotidiano, aggiungeva, l’aveva appresa da Ezra Pound. Momento di gelo, panico, colpetti di tosse e sorrisini imbarazzati. Per fortuna dei venditori del chiacchierio fazioso e fasullo stiamo sempre più avendone a noia anche se è faticoso estirparne la mala pianta…
‘Non ebbero denaro/ l’oro serviva per fare la lucertolina/ e non monete/ gli ornamenti/ che splendevano come fuoco/ alla luce del sole e dei falò/ le immagini degli dei/ e delle donne che amarono/ e non monete./ Migliaia di fucine luccicanti nella notte delle Ande/ e con abbondanza d’oro e d’argento/ non ebbero denaro/ seppero/ fondere laminare saldare incidere/ l’oro e l’argento/ l’oro: il sudore del sole/ l’argento: le lacrime della luna./ Fili chicchi filigrane/ spille/ pettorali/ sonagli/ ma non denaro’: così ha inizio il poema Economia de Tahuantisuyu, cioè dell’impero incaico. ‘La maledizione dei rapporti mercantili non investe questa civiltà, e permette che l’oro valga per gli oggetti che con esso si costruiscono e che servono ad abbellire la vita di ogni giorno… E’ evidente il legame che esiste tra questi concetti e le elaborazioni di Ezra Pound intorno all’usura’, come sottolinea Antonio Melis, ispano-americanista, introducendo proprio un’antologia di poesie di Cardenal (La vita è sovversiva).
Tanto basta, credo, in aggiunta a quanto rilevava Franco nella sua nota. E, a fondo, ‘la guerra del sangue contro l’oro’ quale incompatibilità assoluta tra stato etico e stato democratico. Il primo, infatti, ha fondamento nella ricerca dell’armonia delle sue componenti, cioè essere giustizia; il secondo si regge sulla nominale legge dei numeri, dove la volontà della maggioranza può ben accontentarsi di finalità neutre. E, per concludere, mi vengono a mente le parole di William Paterson, primo governatore della Banca d’Inghilterra: ‘Il banco trae beneficio dall’interesse su tutta la moneta che crea dal niente’. La mia mente, le mie mani, le gambe, il sudore finiscono per essere in prestito perché, a monte, un usuraio ne tragga vantaggio. Allora, se devo essere schiavo del mio stesso lavoro e perderne il valore quale creatività, cercherò di dargli il meno possibile… un’ora appunto.