Quando mi sarò deciso d’andarci, in paradiso ci andrò con l’ascensore di Castelletto, nelle ore notturne, rubando un poco di tempo al mio riposo. Sono versi di Giorgio Caproni, poeta livornese, genovese d’elezione. Castelletto è un quartiere collinare della mia città, dignitoso e composto, pieno di alberi secolari e palazzi borghesi dell’epoca in cui Genova era una grande città con un’anima, non lo sfigurato paesone di oggi. Andare “in “Castelletto è un’abitudine antica dello scrivano, un viaggio dell’anima di prossimità. Questa volta no, è stata una tortura, il disvelamento, la scoperta di essere lo straniero, come Meursault nel romanzo omonimo di Albert Camus. Straniero, cioè estraneo.
Era bello l’ascensore di Castelletto della mia fanciullezza, per Caproni il tempo della maturità, dell’amore compiuto per “la mia città dagli amori in salita, Genova mia di mare tutta scale e, su dal porto, risucchi di vita. “ Un largo vano di specchi e legno lavorato, l’addetto in divisa che azionava una leva e, lento, il manufatto con l’odore del bosco portava lassù, sulla spianata di ciottoli e alberi da cui lo sguardo abbraccia la città che vive di sotto, prossima e insieme altra, a sinistra il monte di Portofino e i quartieri moderni, in mezzo il centro, grattacieli e campanili, la torre del teatro, la cima quadrata del duomo con la bandiera, la croce di San Giorgio, e giù, tanto vicini da toccarli, i palazzi nobiliari di Strada Nuova, testimoni del perduto splendore della Superba.
Davanti, il porto vecchio, la stazione marittima e in fondo a destra l’agile mole rosata della Lanterna. Strano nome per uno dei fari più potenti del mondo: solo qui, portati a minimizzare tutto, potevamo dare un nome tanto umile al simbolo di una vocazione al mare, alla sua promessa di infinito. In un terso giorno di dicembre, andare in Castelletto significa riannodare i fili, tornare alle radici. E invece no. Ogni piazza cittadina è un mercatino natalizio, fiere compulsive del consumo di cose modeste, cibo e abiti soprattutto, monili di un artigianato residuo, alpini con il cappello a distribuire vin brulé, persino, nel mercatino intitolato a San Nicola nel centro della city, uno spazio per bambini con animali “veri”, caprette, asinelli, la rappresentazione di una fattoria. Finzioni senz’anima.
Non si scampa: la forma-merce è dappertutto, e ha preso il posto, religione momentanea, rito provvisorio di masse imbacuccate, del Natale di ieri, in cui si ricordava un inizio- “quella” nascita- e si celebrava un’identità, una comunità, una vicinanza conviviale. Adesso, almeno così pare a me, è solo allegria di naufraghi. E’ cambiato tutto, anche l’ascensore di Castelletto. Sdoppiato in due cabine più piccole, con l’interno a imitazione dell’elegante boiserie di una volta. Non si sale più in paradiso, ma al piano superiore, pigiando un bottone, come in un condominio qualunque. La giornata è meravigliosa. Dalla spianata, bastione di un pezzo di città borghese e demodé, austero come la gente di ieri, la vista, nel limpidissimo meriggio invernale, arriva a ponente sino a Capo Noli e oltre. In alto, si vedono le cime innevate delle Alpi Marittime, è già Piemonte, lassù. Meraviglia di turisti: scattano le fotocamere degli smartphone, l’oggetto devozionale dei nostri anni. Qualcuno tenta il selfie estremo: se stesso con il doppio sfondo del mare e della neve sui monti, così luccicante e vicina da toccarla, nel nitore dopo la tramontana.
Per la prima volta, non mi sono emozionato. Sono svaniti tutti i ricordi: prima, ogni luogo, ogni monte e ogni pietra del panorama ne custodiva uno. E’ calato un velo sugli occhi, un appannamento della volontà e dello sguardo. Tutto ciò che è lì, le persone, la città lì sotto, i palazzi che sembrano appesi al colle, in cui il portone è sul tetto, l’alternarsi di case, monti e mare, ciò che ho visto e amato sin da bambino, non c’era più, irriconoscibile, informe. D’istinto, ho sbattuto più volte la palpebre. Perché non vedo? Ho invocato Santa Lucia, protettrice degli occhi, come da bambino quando andavo dall’oculista e avevo orrore del quadro bianco con le lettere nere. Poi, ho capito: non volevo vedere, la mia era una reazione di difesa, lo straniamento di chi non riconosce più luoghi, volti e persone, non comprende più il tempo e il mondo. Contemporaneamente estraneo, straniero, esule, superstite.
E’ come se nella domenica limpidissima di dicembre, in alto, sul belvedere da cui si abbraccia un vasto panorama di natura e città, luogo dell’anima di una vita intera, all’improvviso il cielo avesse messo a nudo un malessere, un’incompatibilità sino ad allora latente, la condizione di chi non più vuole capire e vedere. Come il bambino che copre gli occhi con le mani per cancellare ciò che gli fa paura.
Dalla luce all’ombra, a una cecità che, per un attimo, è parsa liberazione. Poi santa Lucia ha fatto il suo dovere, tutto è tornato alla vista. Nessun sollievo, solo una fiacca rassegnazione. Una voce poetica della mia terra si fa sentire in mezzo al rumore e alla luce. “E gli alberi son alberi, le case sono case, le donne che passano son donne, e tutto è quello che è, soltanto quel che è. La vicenda di gioia e di dolore non ci tocca. Perduta ha la sua voce la sirena del mondo, e il mondo è un grande deserto. Nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso.” (C. Sbarbaro)
Fatti tuoi, dirà il lettore spazientito. Perché ascoltare una mediocre storia intimista, perché raccontare un esilio interiore, un orrore o una fuga dalla realtà, segno di vecchiaia malvissuta o, banalmente, di cattiva digestione? Non so rispondere, se non ricordare che l’essenziale è invisibile agli occhi e che, purtroppo, nel baccano di un mondo unificato nello spettacolo, nel conformismo, dell’idolatria della merce, nell’attimo, non ci si può più neppure esiliare. Non si riesce neanche a passare al bosco, come il ribelle di Ernst Juenger. Anche il bosco è violato, come l’ascensore di Castelletto. Vuoi l’ombra e ti assale la luce. Non resta che la distanza, l’allontanamento, il progressivo distacco. Un desiderio di assenza per nostalgia di senso e significato.
Non voglio vedere per non prendere atto che le cose hanno cambiato nome e forma. Al muro del tempo tutto scorre e l’acqua del mare non è mai la stessa. Tutto passa e quasi orma non lascia. Frasi da passeggeri di un vagone ferroviario: signora mia, non ci sono più i valori. E neanche le mezze stagioni. No, sono io che non tengo più il passo. Il panorama che fino a ieri mi affascinava e non mi stancavo di rivedere, adesso somiglia a un quadro delle città metafisiche di De Chirico, un fondale vuoto, muto. Una location da riempire con il sorriso stereotipato del selfie da inviare agli amici virtuali.
Fate quello che vi pare, sbotto, ferito dalla luce, mangiate insetti e carne artificiale, contate con il pallottoliere quanti “generi” esistono, sposatevi tra uomini o tra donne, lamentatevi, come fa una nota cantante, del fatto che non si possono avere figli senza un uomo, applaudite lo scienziato che disprezza il passato remoto “in cui si pensava che i sessi fossero due”. Chiamate genitore uno vostra madre, vaccinatevi ogni dì, indossate maschere anche in bagno. Pirandello ci aveva avvertito: nella vita incontriamo più maschere che volti. Diventate cyberuomini artificiali, invocate il microchip e l’identità digitale, sventolate la bandiera arcobaleno di cittadini del mondo. Credete a tutte le versioni “ufficiali”, rivendicate “diritti” sempre nuovi, ballate sul Titanic sino alla fine, dopodiché chiedete la punturina e liberate Gaia dall’inquinamento umano. Non mi interessa più.
E’ stato interessante leggere un messaggio di Elly Schlein, candidata postmoderna e surmoderna alla segreteria del PD: salveremo il mondo con un pollo di gomma con carrucola. Pare si riferisse a un videogioco, ma quando non capisci più nulla, e ti manca radicalmente il codice per intendere le parole altrui, appartieni a un mondo diverso. Ho l’impressione di andare in autostrada contromano, ma chi ha sbagliato senso di marcia? O di essere a Babele, dove nessuno si intende poiché ognuno parla una lingua diversa.
Per questo, probabilmente, non riconosco più i luoghi, le parole, i modi di essere. Taci, anima stanca. Perdere la speranza è la condizione più fortunata, una volta accettata, poiché nulla ci può più toccare. E’ a suo modo, un momento di liberazione. Finalmente, non mi importa più del mondo al contrario; esaurita la speranza di cambiare le cose, non resta che tenersi in piedi tra le rovine, spettatori senz’amore e senza odio. Si vive in nonluoghi tra noncose, affascinati dall’artificiale, disciplinati soldatini del consumo. Per il filosofo tedesco Byung-Chul Han non è più possibile una rivoluzione, ossia realizzare, immaginare un cambiamento. Strano che il maggiore pensatore di Germania sia coreano, ma ha ragione. Ex Oriente, lux.
Il dominio non è più disciplinare, è il suadente neoliberismo del “mi piace”. Il pollice alzato rende la sottomissione volontaria. Han cita Kafka. ‘” L’animale strappa di mano la frusta al padrone e si frusta da sé per diventare padrone”. Consumiamo e ci consumiamo nell’illusione di realizzarci. La coazione distruttiva non viene esercitata tramite l’Altro, ma attraverso noi stessi. Docili, addomesticati, visitiamo felici i mercatini del ciarpame con la stessa fede con cui una volta facevamo il giro delle sette chiese.
L’uomo domestico dispiace al ribelle. Ma siamo davvero ribelli, o soltanto bastian contrari, riottosi, testardi? E poi, un anziano ribelle è patetico, fuori luogo, un anacronismo. Forse il mondo va benissimo e chi pensa il contrario ha contratto un virus per il quale l’unico vaccino è l’autocritica. Il virus di Don Chisciotte, il cavaliere errante in ritardo di secoli che in fondo era felice. Scopriva castelli dove gli altri vedevano osterie, superbi destrieri al posto di ronzini, principesse anziché rozze contadine, giganti dove c’erano mulini a vento. Era pazzo? Ma nessuno è più saggio, onesto, coraggioso, altruista e filosofo di lui, quando parla con la voce dell’ideale, o si getta all’attacco incurante delle sconfitte e delle conseguenze.
Chi è estraneo al suo tempo, vive da sconfitto senza rassegnarsi. Un brutto giorno non ne può più: si proclama straniero, non riconosce ciò che gli è stato familiare, prende commiato da una realtà che gli fa orrore. Chiede a santa Lucia una grazia al contrario: vedere solo con gli occhi del cuore, andare in Paradiso con l’ascensore di Castelletto e, in attesa che cali il sipario, nel sole che abbaglia, non scoprire “con triste meraviglia com’è tutta la vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.” (E. Montale).
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