In traduzione italiana uno dei testi classici in argomento
I primi studi che introdussero in Occidente la filosofia del Buddhismo Zen, rendendola intellegibile anche a lettori dalla mentalità e dalla visione del mondo assai diversa da quella di un bushi, un guerriero in senso tradizionale, sono senza dubbio le opere di Daisetsu Teitaro Suzuki, da tempo disponibili nel catalogo delle Edizioni Mediterranee, nonché il fondamentale libro di Kaiten Nukariya, La religione del samurai. Filosofia e disciplina Zen in Cina e Giappone, nelle librerie in prima edizione italiana per i tipi della stessa casa editrice (per ordini: ordinipv@edizionimediterranee.net, euro 22,50). Curatore del volume è Riccardo Rosati, yamatologo e museologo de “il Borghese”. La sua presentazione arricchisce il testo e contribuisce a contestualizzare gli aspetti fondamentali delle analisi di Nukariya, come del resto l’Appendice del libro che propone un ulteriore scritto dello studioso giapponese, L’origine dell’uomo(Gen-Nin-Ron).
Il libro fu scritto dall’autore, docente presso l’Università Keio Gijuku ed il Collegio buddhista So-to-Shu di Tokyo, nel 1913. Nonostante sia trascorso ormai più di un secolo, nei suoi aspetti essenziali mantiene ancora oggi una straordinaria giovinezza spirituale. Del resto l’eminente studioso nipponico, fin dall’introduzione, chiarisce a beneficio del lettore le sue reali intenzioni “L’obiettivo di questo libro consiste nell’illustrare le differenze che segretamente distinguono la concezione Mahayana della vita e del mondo da quella Hinayana” (p. 26). Si tratta delle due principali scuole buddhiste, alle quali va aggiunto il “veicolo” Vajrayana, che divenne religione consolidata in Tibet verso il X secolo. I primi capitoli presentano, pertanto, una ricostruzione storica della diffusione del “Grande Veicolo” in Cina e Giappone e si soffermano, in particolare, sull’origine indiana dello Zen, sulla sua introduzione in Cina (Chan) e sul successivo diffondersi nel paese del Sol Levante. In tale trattazione spesso emerge la vicinanza di Nukariya al Confucianesimo, la filosofia morale cinese che, rielaborata originalmente in Giappone, produsse la cultura samuraica. Altra aspetto significativo che, ne siamo certi, il lettore accorto rileverà da sé, è l’ulteriore intenzione esplicita dell’autore: presentare lo Zen, non solo come “religione dei samurai”, ma quale Via universale che avrebbero, quindi, potuto seguire anche gli occidentali moderni, al fine di lasciarsi alle spalle il disastro del tempo presente.
Il libro non poteva non colpire uno spirito inquieto come Julius Evola che, mostrando anche in questa circostanza una non comune vocazione a sprovincializzare la cultura italiana, ne parlò in termini elogiativi sulla rivista Augustea il 1 marzo del 1942. A suo dire il volume chiariva come la religione del samurai non si limitasse a dissertare “… su verità trascendenti, ma indicasse le vie per sperimentarle direttamente” (p. 11). Infatti, i valori etici dello Zen si sposavano perfettamente con quelli della tradizione samuraica per la presenza, in entrambi preponderante, dei momenti dell’azione e della vitalità. Nakariya, in molti luoghi del testo, suggerisce il curatore, “propone… una interpretazione della religione in perfetta sintonia con alcune qualità evoliane dell’ uomo differenziato” (p. 13). La disciplina del monaco Zen poco differisce, in quanto centrata sulla “povertà onesta”, sul sacrificio incondizionato di sé, sul perseguimento e la realizzazione nella dimensione interiore dell’egemonikon, dalla Via del guerriero. In forza di ciò, lo Zen permeò di sé la cultura e il quotidiano in Giappone, dalle belle arti alla cerimonia del tè, dall’architettura alla pratica del giardinaggio. Tiene molto l’autore, e in ciò ebbe la condivisione di Evola, a sottolineare che se gli occidentali, attraverso versioni edulcorate del buddhismo, se ne erano fatti l’idea di una filosofia della passività e della rinuncia, al contrario lo Zen li avrebbe liberati da tale errore esegetico, radicatosi in Europa con l’opera di Schopenhauer.
Lo Zen non si fossilizza sulla dogmatizzazione dei testi, giungendo addirittura al rifiuto della scrittura considerata mezzo e non fine “Nel momento in cui riconosciamo la luna e godiamo della sua benevola bellezza, il dito non ha più alcuna utilità” (p. 17).La filosofia del Novecento ha fatto propria, negli esponenti di maggior rilievo, tale posizione. Si pensi al testo “non scritto” di Blanchot ed Emo. Il testo sacro, nella prospettiva Zen, è scritto nel “cuore e nella mente”. Lo scrive nel proprio percorso realizzativo chi si ponga sulla Via. Lungo tale iter, si comprende prima di ogni altra cosa che l’illusione consiste nel distinguere la realtà dalle apparenze. Infatti, la realtà esiste esattamente come apparenza, il cosmo è un grande sutra “Per vent’anni ho cercato la Luce:/Primavere ed autunni si sono susseguiti;/Da quando ho visto i fiori di pesco, /non ho più alcun dubbio su nulla” (p. 89). Anche Evola, nelle opere del periodo filosofico, sostenne in modo altrettanto esemplare che la verità in fondo non è che errore potenziato e che l’errore non è che una verità depotenziata, invitando alla diffidenza nei confronti del principium firmissimum, d’identità, che “paralizza” gli opposti.
Nella lettura dello Zen di Nukariya emerge un altro aspetto particolarmente apprezzato da Evola. La concezione polemologica e attiva dell’esistenza, in Grecia testimoniata da Eraclito. Lo sforzo mirato a superare le avversità, il contrasto sia interiore che esteriore, preserva e potenzia l’energia vitale. Al contrario “la cosiddetta società civilizzata ha totalmente dimenticato il senso stesso della lotta” (p. 19).
Quando l’autore discute dei rapporti di apparenza e di realtà, si serve positivamente di ampia strumentazione speculativa, sia orientale che occidentale. E’ rispetto ad altre tematiche che forse nei suoi confronti, è opportuno utilizzare l’ espressione di cui Evola si servì per descrivere D. T. Suzuki “un Orientale che sa troppo di cultura occidentale” (p. 21). Ci riferiamo al tentativo che spesso si evince dal testo: voler accondiscendere ad ogni costo a tesi e posizioni tipicamente occidentali. In particolare, l’autore è sempre attento a voler “dimostrare” in senso scientista le argomentazioni presentate, e ciò lo induce a difendere addirittura l’evoluzionismo. La cosa ha certamente poco a che fare con la filosofia dell’azione, cui si richiamerà lo stesso Mishima, e con il pensiero Zen. Abbia inoltre contezza il lettore che, oltre ad essere un’ottima summa della filosofia Zen, il libro è un utilissimo strumento storico. In esso, infatti, Nukariya presentò come assolutamente valido il modello politico sociale e religioso del Giappone del periodo Taisho (1912-1926), nel quale egli visse. Momento storico nel quale il paese del Sol Levante era sospeso tra Tradizione e avvento della modernità.
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