Nel 2008 l’elezione di Obama a presidente degli Usa fu accolta, nel tripudio di tutti i progressisti, come il segnale dell’inizio di una nuova era, perchè con l’avvento di un nero al vertice dell’Amministrazione americana le “magnifiche sorti e progressive” ricevevano emblematicamente un formidabile impulso nel nuovo mondo e da lì si irradiavano prepotentemente ovunque per realizzare, finalmente, una società di uguali e liberi, gay friendly, antirazzista, politicamente corretta, globale e prospera.
L’ubriacatura democratica è durata ben otto anni, durante i quali una spaventosa crisi, che ha travolto tutte le economie occidentali, è stata affrontata dai liberal e dalla sinistra internazionale applicando le disastrose ricette del FMI, imponendo ovunque austerità e rigore monetario, impoverendo intere classi sociali, dissanguando nazioni, falcidiando economie fiorenti e riducendo alla miseria milioni di esseri umani, mentre speculatori e finanza internazionale incrementavano i loro guadagni.
Immersa nella sua realtà virtuale, la sinistra mondialista ha ossessivamente percorso in questi anni la strada delle rivendicazioni elitarie, delle pretese soggettive e dei diritti civili di ristrette rappresentanze sociali, dimenticando completamente e accantonando la difesa dei diritti sociali e del lavoro della maggioranza delle popolazioni e dei ceti medio bassi, esposti senza riguardo ai morsi della competitività globale e all’erosione dissennata del loro tenore di vita.
Abituati a considerarsi i migliori, gli unici legittimi rappresentati e i tutori della democrazia, i progressisti hanno vissuto, perciò, come un incubo l’elezione di Trump a presidente degli Usa e non hanno saputo né voluto rassegnarsi all’esito di una consultazione che, di regola, attribuisce la vittoria alle maggioranze espresse dal popolo e non alle oligarchie che siano espressione di determinate élite.
Invece, una fatale ironia della storia, carica di presagio, ha voluto che la vittoria di Donald Trump alle presidenziali coincidesse col 9 novembre, l’anniversario della caduta del Muro di Berlino, la data che segnò l’inizio della fine dell’Unione Sovietica e del socialismo reale come sistema economico, politico e militare; e così Trump, il candidato antisistema che ha fatto saltare il banco dell’establishment americano, quello che va dagli Obama all’industria della cultura di massa di Hollywood, dai Clinton a Wall Street, da George Soros alla Corte costituzionale a maggioranza democratica, potrebbe ugualmente rappresentare l’inizio della fine dell’egemonia degli Stati Uniti nel mondo, della finanza e della globalizzazione a trazione anglosassone-occidentale.
Da qui alle reazioni sgomente e virulente il passo è stato breve. Da qui la reazione rabbiosa di tutti i media infeudati alle corporations, che in campagna elettorale s’erano compattamente schierati contro Trump (ben 100 testate giornalistiche ferocemente critiche verso il candidato repubblicano, cosa mai avvenuta nelle precedenti 44 consultazioni presidenziali americane).
Negli Usa, si sono scatenati disordini nelle strade delle città e turbe di manifestanti, in nome della democrazia, hanno violentemente rifiutato l’esito di una consultazione democratica in quanto a loro sfavorevole (mentre dietro a queste sollevazioni compariva l’ombra inquietante di Soros e la presenza di centrali appositamente costituite per sovvenzionare i contestatori stipendiati).
In Europa, le irragionevoli dichiarazioni di Jean-Claude Juncker e di Martin Schulz hanno mostrato, al di là dell’inadeguatezza dei vertici europei, come certa genia di mondialisti sia diffusa ovunque, senza speranza e tristemente uguale a se stessa a ogni latitudine.
In Italia, le esternazioni sguaiate e livorose di tutto il circo mediatico ha platealmente esplicitato la concentrazione del radicalismo snob in quegli ambiti intellettualodi egemonizzati da esponenti e teste d’uovo della sinistra salottiera e alto borghese che monopolizzano testate giornalistiche, case editrici, circoli culturali e mondo delle comunicazioni e dello spettacolo.
L’uniforme volgarità dei vari commentatori, da Gramellini a Serra, da Saviano a Severgnini, passando per Scalfari, Riotta, Calabresi, Zucconi, Botteri, Gruber, Formigli, Rondolino e altri, per arrivare fino alle farneticazioni geriatriche di un politico come Napolitano, è la conseguenza del miserabile narcisismo ideologico della sinistra e dell’ipocrita conformismo comunicativo di una casta che, invece di svolgere correttamente il proprio mestiere di informazione, svolge unicamente il ruolo di megafono del pensiero unico.
Nel caso specifico, tutta la grande stampa e le reti televisive hanno pigramente rieccheggiato le trasmissioni propagandistiche diffuse in America dalla CNN (non a caso, spregiativamente definita la Clinton National Network) supportate, peraltro, in questa mistificazione, dall’operato irresponsabile di un’intera classe politica che s’è schierata con la candidata democratica. E’ noto che il nostro Ministero per l’Ambiente figura tra i contribuenti alla campagna elettorale democratica, con un contributo tra i 101mila e il 250mila dollari alla Fondazione “Clinton Global Initiative”, mentre il presidente del Consiglio, accompagnato dal giullare Benigni, s’è esibito in una squallida manifestazione di cortigianeria e propaganda politica alla mensa del presidente democratico uscente.
“Essere alleati, non vuol dire essere allineati” ha dichiarato, con ripugnante spudoratezza, il ministro degli Esteri, Gentiloni, a commento dell’elezione di Trump, per affermare la presunta autonomia della nostra politica estera, dopo che proprio lui nell’era di Obama è stato servilmente prostrato di fronte a ogni iniziativa degli Usa e della loro longa manus in Europa, cioè la Nato.
Invece, la vittoria di Trump può rappresentare una grande opportunità che può risolversi in assetti internazionali più stabili e pacifici. Una Hillary Clinton presidente avrebbe cercato di trascinare l’Europa nel solco della sua politica interventista e ultratlantica. Hillary avrebbe chiesto agli europei di intervenire militarmente in Libia, di integrare l’Ucraina nella Nato e accrescere le sanzioni e le tensioni con Mosca, di istituire come Nato una no-fly zone in Siria nella zona al confine con la Turchia, per permettere ai ribelli islamisti “moderati” e ai loro sponsor turchi di consolidare le loro forze, con l’obiettivo a medio termine di sconfiggere contemporaneamente l’Isis e il regime di Damasco, smembrare la Siria e aprire nuove vie a oleodotti per le compagni petrolifere americane. Nessuna di queste cose, però, risponde agli interessi a lungo termine degli europei, che non risolveranno mai i propri problemi economici interni e quelli di sicurezza con questo tipo di politica estera.
Al contrario, se Trump sarà coerente col programma in base a cui ha chiesto i voti, cercherà sulla Siria un accordo con Putin e chiederà agli europei di assumere in prima persona la responsabilità della loro sicurezza, cioè di elevare la loro spesa militare nella Nato spostando, peraltro, il focus della sua azione dall’antagonismo nei confronti della Russia alla lotta al terrorismo e alla gestione della crisi delle migrazioni di massa.
Trump ha pure detto in un’intervista al New York Times che se i paesi europei non vogliono partecipare come si deve ai costi della difesa euroatlantica, dovranno difendersi da soli. Questa che molti vedono come una minaccia, è in realtà una grande opportunità di rinascita per l’Europa, perché l’uscita di scena della Nato e della soffocante influenza politica americana è l’occasione per l’Europa per organizzare da sé la propria difesa, riprendendo l’intuizione di un esercito europeo che era alle origini del processo di integrazione e che poi non si fece a causa della Guerra fredda. Invece, si è preferita la sciagurata integrazione monetaria con la creazione dell’euro, i cui effetti depressivi sulle economie diverse da quella tedesca sono sotto gli occhi di tutti. Oggi sarebbe giusto sciogliere la Nato e creare uno strumento militare integrato dell’Unione Europea, col quale poi dialogare e rapportarsi con l’unica superpotenza nucleare europea non appartenente alla Ue: la Federazione Russa. La presidenza Trump potrebbe consentire all’Europa di riscrivere la storia della sua integrazione e dei suoi rapporti con la Russia. Una Ue emancipata dalla Nato e dotata di un suo sistema di difesa integrato può andare al negoziato con la Russia per la creazione di un sistema di sicurezza euroasiatico, condizione per l’integrazione economica euroasiatica che tanto bene farebbe allo sviluppo economico di Europa e Russia nonchè alle ragioni della pace.
Per quanto riguarda l’altra sponda del Mediterraneo, infatti, la soluzione non è portare la guerra a tutti i dittatori che non sono filo-occidentali o che comunque si vuole sostituire con altri (come s’è fatto con Gheddafi, la cui caduta Hillary Clinton ha fortemente determinato). Gli europei devono scegliere e cercare l’accordo per un intervento coi paesi arabi, come Egitto, Tunisia e Algeria, che hanno bisogno del nostro sostegno politico per evitare la destabilizzazione e per non essere ancora manipolati da Arabia Saudita e Qatar.
Dunque le politiche di Trump possono rappresentare l’occasione favorevole per un’integrazione europea politico-militare, contro l’integrazione fatta di moneta unica e vincoli dei bilanci nazionali che tante sciagure in termini socio-economici hanno portato ai nostri paesi. E per una distensione reciprocamente vantaggiosa fra Europa e Russia.
Trump rivedrà gli accordi commerciali internazionali e probabilmente bloccherà quelli come il TTIP, il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti. Tanti qui in Europa già piangono pensando al neo-protezionismo americano che creerà problemi alle nostre merci, ma farebbero meglio ad attivarsi per sfruttare le opportunità che si aprono a est e a sud: dalla Russia all’Iran, da un partenariato serio con la sponda Sud del Mediterraneo e coi paesi dell’Africa sub-sahariana, da cui arrivano i migranti economici, alla ricostruzione di Libia, Siria e Yemen all’indomani di una conferenza per la pacificazione e lo sviluppo mediorientale.
Spazzato via l’Isis e ridimensionate le pretese saudite e turche, l’Europa potrebbe farsi mediatrice di un accordo fra i paesi emergenti dell’area nella logica dell’equilibrio di potenza e della spartizione delle aree di influenza. E’ il caso di finirla con la finta esportazione della democrazia per fare trionfare interessi finanziari e sciovinismi nazionali, che non ci conviene e provoca, tra l’altro, destabilizzanti migrazioni di milioni di esseri umani. Una presidenza Clinton non ce l’avrebbe lasciato fare, una presidenza Trump ce ne offre l’opportunità.
Senza entusiasmi per le vicende americane, ma osservandole col giusto distacco e il realismo che devono ispirare il nostro interesse nazionale, dobbiamo preparare in casa nostra le condizioni per un avvicendamento di potere che ci consenta di sfruttare questa occasione storica: cacciamo l’illegittimo governo della sinistra e prepariamoci anche in Europa a esportare una nuova linea d’azione socio politica, identitaria e social nazionale.
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