Di Franca Poli
L’inverno freddo e il gelo, la neve e il ghiaccio delle distese sterminate nelle steppe russe, ho davanti questa immagine e penso a cosa debbono aver provato gli italiani che si sono trovati prigionieri nei lager di Stalin dopo aver scelto di partire pensando di andare in paradiso e aver incontrato invece l’inferno. Un inferno taciuto e negato per anni dalla storia ufficiale e dal partito comunista italiano che nella persona di Togliatti, e non solo, si è reso complice e in alcuni casi artefice di tanto dolore per i suoi “compagni”.
Quando l’Unione Sovietica era ancora considerata la terra promessa dei lavoratori di tutto il mondo, alcune centinaia d’italiani si erano trasferite volontariamente in Russia fra il 1920 e il 1935. Quelli del primo momento furono spinti dal richiamo esercitato dalla vittoriosa rivoluzione d’ottobre, negli anni successivi vi si rifugiarono per sfuggire al regime fascista e altri ancora furono inviati dal “centro estero” del PCI clandestino per seguire corsi di educazione politica o per lavorare nei vari organismi del Comintern, l’Internazionale comunista. I fuoriusciti approdavano nel paese del ”socialismo reale” credendo ingenuamente di trovare la patria ideale, ma spesso trovarono la morte.
Quella di cui voglio parlare, è una storia alquanto originale diversa dalle migliaia di altre che si sono sentite raccontare sui gulag e sulle persone che vi sono state rinchiuse, perché è più completa e ricca di particolari in quanto narrata direttamente da uno dei due protagonisti.
Nella Masutti, nata a Brescia nel 1918 era figlia di un comunista italiano che, emigrato a Mosca, si era portato dietro l’intera famiglia. La ragazza, aveva solo sedici anni quando al Club degli immigrati Italiani a Mosca, conobbe Emilio un giovane di Torino. Lui era vivace, intelligente, pieno di brio e lei se ne innamorò a prima vista. Emilio Guarnaschelli era un entusiasta, partito per Mosca nel 1933 all’età di 22 anni, scrisse al fratello Mario pochi giorni dopo il suo arrivo che l’accoglienza era stata ottima, che aveva trovato innumerevoli possibilità di lavoro, che aveva partecipato con altri lavoratori e studenti al corteo del primo maggio e faceva nella sua lettera la celebrazione del sistema sovietico: “sono tante le cose da dire, appena torno ti scriverò un romanzo(…)insomma non puoi farti la minima idea di quanto il proletariato sia forte qui, la mia non è esaltazione, credimi. Ho rimarcato tante cose che mi convincono della giustezza della politica leninista-staliniana…”
I due ragazzi si frequentavano al circolo e fuori e, col passare del tempo, nonostante gli entusiasmi politici di Emilio si andassero affievolendo, lei riusciva sempre a divertirsi in sua compagnia. A ben guardarsi intorno, si era accorto il giovane comunista di quanta ingiustizia sociale si potesse scorgere: in giro si sentiva solo puzza di cavolo bollito, era facile trovare vicino ai luoghi dove vivevano gli emigrati prostitute che si vendevano per fame e a offrirsi non erano solo popolane, ma anche signore delle classi abbienti oramai spodestate, dedite loro malgrado a quel servizio così “borghese” ma praticato ben volentieri anche dai più proletari. I nuovi arrivati a Mosca, convinti di essere approdati nella terra promessa non si rendevano conto di quanti ragazzini senza casa e famiglia vivessero per le strade prive di ogni assistenza, razziando quello che trovavano per nutrirsi. A chi chiedesse chi fossero era risposto, dagli accompagnatori, che erano figli di Kulaki che, avendo rifiutato la collettivizzazione delle terre, giacevano in miseria. Altra anomalia era di scoprirsi derubati dei bagagli, lasciati tranquillamente incustoditi, quando si era stati assicurati che nel paese del socialismo non esistevano ladri. I ladri c’erano eccome e pure i mendicanti, ma la risposta era sempre la stessa “sono nemici del popolo”. Emilio, con la sua viva intelligenza, nonostante avvertisse queste dissonanze era ancora un “puro”, un entusiasta e faticava a prendere nota che, dopo un po’dal suo arrivo a Mosca, non era più consentito al circolo esprimersi liberamente e a volte faceva battute considerate dai presenti addirittura pericolose. Battute alle quali prima tutti ridevano e dopo invece dissentivano seriosi e preoccupati. Erano iniziate le purghe di Stalin e, dopo aver epurato le alte sfere, la “cistka” raggiunse livelli più bassi e anche gli emigrati europei. Dall’1dicembre del1934, il club degli italiani agli occhi del NKVD si trasformò in un covo di spie, traditori e collaborazionisti del nemico e iniziò così la “disinfestazione” o, per meglio dire, la mattanza indiscriminata. Una sera al circolo, durante una riunione Emilio, con lo spirito che lo contraddistingueva chiese “Compagno maestro, cos’è l’orizzonte?” la risposta più che seria fu: “E’ una linea immaginaria e irraggiungibile” la sua battuta fu pronta: “Grazie maestro. Ora capisco perché il compagno Stalin dice che il socialismo è all’orizzonte!”.
Nella rideva di queste sue spiritosaggini, ma era rimasta l’unica a farlo. L’atmosfera nel club era diventata irrespirabile e si viveva nel sospetto, ognuno doveva rispondere non solo del presente, ma anche del passato. Per essere messi in dubbio bastava anche una “vecchia amicizia” o frequentazione con qualcuno, a torto o ragione, giudicato “nemico del popolo” e il destino era segnato. Un’antica adesione, una cena con un amico della corrente considerata “deviazionista”, significavano la visita alle prime luci dell’alba della NKVD. Al club si tenevano periodicamente morali sedute collettive durante le quali a turno si facevano confessioni comuni di errori politici di cui ci si pentiva e si chiedeva venia. A presiedere questi “riti” era Paolo Robotti, cognato di Togliatti che divenne il “castigatore” di tanti italiani innocenti. Quando a causa di un’intemperanza di troppo fu il turno di Guarnaschelli di fare il mea culpa egli, sentendosi completamente estraneo a ogni forma di dissidenza, si confermò totalmente fedele al partito e all’ideologia per la quale aveva dovuto lasciare la sua città ed emigrare prima in Belgio e poi finalmente in Russia dove stava partecipando alla costruzione dello stato socialista.
L’ingenuo ragazzo pensava dopo il suo accorato discorso di meritare addirittura un applauso e invece gli fu rimproverata da Robotti la sua infelice battuta sull’orizzonte. Un sacrilegio, un peccato imperdonabile perché in Russia, al contrario che in Italia quando si diceva “scherza con i fanti e lascia stare i santi”, per santi s’intendevano le alte sfere del Cremlino.
Dopo quella serata, nel gennaio del 1935, Emilio venne arrestato e gli venne offerta una scelta: chiedere di essere rimpatriato e in quel caso sarebbe stato “espulso” con l’accusa di nemico del popolo, o prendere la cittadinanza sovietica e avrebbe pagato la sua colpa con tre anni di esilio. Il giovane da comunista “duro e puro” quale si sentiva scelse, secondo il suo onore, di affrontare la pena e fu condannato, senza nemmeno un processo farsa, a tre anni di esilio in una località sperduta oltre il circolo polare artico. Fu condotto a Pinega distante 1300 km da Mosca. Lasciato, in mezzo alla strada, nel cuore della notte, senza abiti pesanti con una temperatura di 35 gradi sotto zero. Gli fu elargito in via anticipata il primo sussidio mensile spettante a un esiliato: 5 rubli “il prezzo di tre chili di pane” scriverà Emilio al fratello Mario col quale intrattenne per tutto il tempo trascorso in esilio, un rapporto epistolare che consentì poi di ricostruire la sua allucinante storia. Ad aiutare il ragazzo, i primi tempi fu una vecchietta anch’essa esiliata a Pinega, da tanto tempo oramai, con la sola colpa di essere figlia di un ingegnere che, prima della rivoluzione, era stato socialdemocratico. La giovane Nella, più innamorata che mai, quando lui le comunicò la sentenza dell’esilio rispose senza esitazione “Saremo felici anche in Siberia” e dopo qualche tempo andò al mercato a vendere qualcosa di personale per comprare scarpe, calze e tabacco da portare a Emilio. Non si era arresa, lo avrebbe raggiunto come aveva promesso e, nonostante il divieto del padre che, per ovvi motivi, si era unito al coro di deplorazione che aveva accompagnato l’allontanamento di Emilio, Nella affrontò un lungo viaggio in treno, poi in battello e infine in slitta diretta a Pinega. Quando arrivò a destinazione stanca e infreddolita Emilio emozionato, la abbracciò, si tennero stretti per frenare le lacrime e il suo più grande rammarico fu di non poterle offrire nulla: “Pensai che Nella avesse certo bisogno di cibarsi, di pulirsi, ma io non avevo nulla da offrirle. Nulla ho detto e mai come in quel momento soffrii per la mancanza di…cosa? Di tutto perdio!” scriveva ancora Emilio al fratello Mario.
Da quella sera i due ragazzi vissero insieme in quel luogo dimenticato da Dio e dagli uomini e, sempre più innamorati, si sposarono per condividere amore e miseria sotto una capanna. Per far registrare la loro unione, dovettero pagare 15 rubli al funzionario del Soviet, la spesa per un cittadino sovietico era di tre rubli soltanto, ma un esiliato era sottoposto a questa ulteriore tassa. Emilio dovette farsi prestare il denaro per riuscire a coronare il sogno della sua Nella, anche se in una lettera poco dopo scriverà al fratello “Nella mi ha confessato di non aver rimarcato nessuna differenza…comunque siamo felici:due cuori e una capanna! E’ proprio il caso nostro”. I due innamorati vissero in una camera che era un buco infestato da scarafaggi, cimici e topi, riuscendo a nutrirsi scarsamente, rubarono un po’di fieno per fare due cuscini da poggiare su un letto di paglia, e soffrirono ogni giorno freddo e fame. Ricevere un po’ di rubli dall’Italia, quando riuscivano ad averli, perché non sempre gli erano consegnati, significava poter comprare farina, cereali e fiammiferi, cose di prima necessità. Un pacco poi era sicuramente un regalo inatteso e insperato.
“Eravamo tanto contenti che non ti dico (….) io mangiai subito un fico e Nella ha succhiato una caramella…” riusciva a scherzare Emilio davanti a un pacco ricevuto dal fratello.
Le lettere scritte furono molteplici e di diverso tenore. Il ragazzo, nonostante tutto, con la sua donna al fianco riusciva a tratti a conservare ancora lo spirito battagliero e la sagacia che tanto gli era costata. Ogni volta nelle missive parlava di sé e della situazione che stava vivendo. Alcune lettere erano strazianti e disperate, altre addirittura divertenti. I due giovani insieme erano felici contro ogni aspettativa, lui amava cantarle canzoni napoletane che a lei piacevano tanto “O sole mio, Barcarola” e altre più allegre, per rendere meno lunghe le giornate. Il fratello Mario si era preoccupato dalle notizie che riceveva da Emilio ma, allo stesso tempo, insieme ai “compagni” di Torino prendeva con le pinze quelle testimonianze che gli parevano a tratti addirittura assurde, convinto com’era che “il partito ha sempre ragione” e tendeva a incolpare il fratello, nonostante gli accorati appelli che riceveva “ricordatevi compagni, che ciò che scrivo sono solo le briciole di quello che ho visto. Ci siamo capiti?(…) Cosa fanno i trockisti? Ebbene, lo volete sapere? Per questa vostra domanda mi hanno accusato di avere relazioni con i trockisti all’estero…”.
C’è, fra le tante, una lettera, che merita attenzione in quanto vi si legge una notizia curiosa, stridente per le condizioni in cui versava il povero Emilio nel “paradiso dei lavoratori” rispetto al fratello che viveva sotto il terribile “regime dittatoriale” fascista. “Ho saputo che vai a Selice. Bravo Mario, curati e goditi qualche giorno di riposo. Ciò che mi ha sorpreso è che tua moglie dice che pagherà tutto la cassa mutua! Qui non sanno neppure cos’è. Pensa che a Mosca mi consigliarono di andare a curarmi a Kislovodosk, ma non potei farlo, perché volevano 500 rubli…” La vita insieme di Emilio e Nella continuò fra alti e bassi fino al 3 giugno del1936, quando lui fu prelevato, senza preavviso e lei lo vide, per l’ultima volta, mentre lo facevano salire sul battello a ruota incolonnato con altri prigionieri. Emilio diffuse ancora notizie di sé qualche mese dopo comunicando che era stato condannato a cinque anni di campo di concentramento in Siberia.
Lasciava l’indirizzo, ma alla moglie fu proibito seguirlo. I parenti ricevettero ancora un paio di missive, dove non specificava le sue condizioni, ma faceva solo un velato riferimento al rimpianto che aveva per “i bei giorni di Pinega”. Nel 1939, dopo la guerra di Spagna, il governo italiano e quello sovietico conclusero un accordo segreto per uno scambio di prigionieri. Nella lista degli italiani da liberare fìgurava anche il nome di Emilio Guarnaschelli che però non poté tornare in Patria, perché a detta della delegazione sovietica era deceduto in ospedale il 14 aprile 1939 per una peritonite. Nessuno conoscerà mai la verità, anche perché di tutta la sua storia, se non fosse stato per la testardaggine della moglie, non si sarebbe saputo nemmeno della permanenza in URSS. Nella, infatti, quando il marito le fu strappato senza che po
tesse seguirlo, fu rispedita in Italia , “espulsa”, poiché non cittadina sovietica e per un periodo rimase a Torino dal cognato, poi emigrò in Francia, dove si rifece una vita, ma non dimenticò mai il suo primo amore. Dopo parecchie insistenze riuscì a convincere il fratello di Emilio a consegnarle tutte le lettere che aveva ricevuto dall’esilio, non fu impresa facile, perché lui come tutti i “comunisti” era consapevole che se quelle lettere fossero state pubblicate, avrebbero certamente offuscato l’immagine specchiata del suo amato partito. Con preghiere e minacce Nella riuscì a ottenerle e le presentò alla casa editrice Feltrinelli per farle pubblicare, determinata a far conoscere a tutti la tragica vicenda del suo Emilio. Passò del tempo, ma non ebbe risposta alcuna, abituata a subire ingiustizie attese per alcuni anni, ma alla fine si decise a farsi restituire l’epistolario e lo presentò, nel 1979, a una casa editrice francese che pubblicò subito il libro intitolandolo “Une petite pierre”, libro che divenne un grande successo editoriale. Solo nell’82 “Una piccola pietra” fu pubblicato anche in Italia da Garzanti. Una testimonianza ancora oggi conosciuta da pochi, negata da molti, una goccia nel mare di menzogne che hanno soffocato chi ha provato a raccontare la verità”.
tesse seguirlo, fu rispedita in Italia , “espulsa”, poiché non cittadina sovietica e per un periodo rimase a Torino dal cognato, poi emigrò in Francia, dove si rifece una vita, ma non dimenticò mai il suo primo amore. Dopo parecchie insistenze riuscì a convincere il fratello di Emilio a consegnarle tutte le lettere che aveva ricevuto dall’esilio, non fu impresa facile, perché lui come tutti i “comunisti” era consapevole che se quelle lettere fossero state pubblicate, avrebbero certamente offuscato l’immagine specchiata del suo amato partito. Con preghiere e minacce Nella riuscì a ottenerle e le presentò alla casa editrice Feltrinelli per farle pubblicare, determinata a far conoscere a tutti la tragica vicenda del suo Emilio. Passò del tempo, ma non ebbe risposta alcuna, abituata a subire ingiustizie attese per alcuni anni, ma alla fine si decise a farsi restituire l’epistolario e lo presentò, nel 1979, a una casa editrice francese che pubblicò subito il libro intitolandolo “Une petite pierre”, libro che divenne un grande successo editoriale. Solo nell’82 “Una piccola pietra” fu pubblicato anche in Italia da Garzanti. Una testimonianza ancora oggi conosciuta da pochi, negata da molti, una goccia nel mare di menzogne che hanno soffocato chi ha provato a raccontare la verità”.
Qui mi basterebbe piegarmi per avere gli onori. Merde! Vi ripeto la frase che aiutò a farmi condannare “non mi piego davanti a nessun dio rosso! (frase scritta a te Mario in una lettera che mi fu sequestrata) Così stanno le cose, cari compagni. Vi devo dire l’atroce verità: ci siamo sbagliati!” . Queste parole sono il testamento di Emilio Guarnaschelli.
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