Io so che i lettori di “Ereticamente” sono persone dotate di un acuto spirito critico, e immagino che qualcuno di loro storcerà il naso già davanti al titolo, infatti in buona lingua italiana con il valore di soggetto si dovrebbe dire “essi”, mentre “loro” si usa nei casi obliqui, e usarlo come soggetto è colloquiale e al limite dialettale, ma il motivo per cui ho scelto qui quest’espressione è il riferimento alla locuzione “noi e loro”, infatti, quelli a cui vorrei dedicare ora la mia attenzione, sono “loro”, i nostri avversari politici.
Viviamo in un’epoca mediatica, cioè un’epoca di amnesia generalizzata. Gli psicologi hanno da tempo chiarito il fatto che il bombardamento mediatico a cui siamo quotidianamente sottoposti ha finito per formare quella che è chiamata la mentalità reattiva; in poche parole, la perdita della capacità di riflettere, assimilare le informazioni, ognuna delle quali fa una fuggevole comparsa nella memoria dei più, il “quarto d’ora di notorietà” profetizzato da Andy Warhol, per essere subito sostituita da altro. È dunque importante che chi conserva il privilegio della memoria ne dia testimonianza.
“Loro”, i nostri avversari, avevano le idee chiare (le avevano). Io appartengo alla generazione nata negli anni ’50, e mi sono trovato ad affacciarmi alle prime esperienze con l’universo politico negli anni della contestazione, nel ’68 e dintorni; le cose a quel tempo erano chiare, terribilmente chiare: il movimento storico era destinato a portare le masse al potere, a far trionfare un mondo e una società egualitari. Non che in tutto il movimento “democratico” e “socialista” mancassero fratture e divisioni profonde e insanabili, né la tendenza a frammentarsi in conventicole una più fanatica e litigiosa dell’altra, tuttavia tutti, dai socialisti e socialdemocratici più moderati ai gruppuscoli extraparlamentari più esagitati ed estremisti, partecipavano a una visione comune: la storia come lotta di classe destinata a culminare nel trionfo delle classi lavoratrici secondo lo schema disegnato da Marx nel Capitale e nel Manifesto. Ciò in cui differivano, erano piuttosto i mezzi per realizzare questo sogno meraviglioso: la via rivoluzionaria o quella riformista, la salvaguardia o l’abolizione dello stato e del sistema politico democratico-rappresentativo-borghese.
Noi le idee chiare – diciamolo pure – non le avevamo, reagivamo d’istinto, sentendo la puzza di marcio che si nascondeva sotto questo quadretto idilliaco.
Le obiezioni che si potevano muovere erano tante e tali che c’era da stupirsi di come costoro non ne fossero minimamente sfiorati (facendo l’errore di supporre che fossero perlopiù animati dalla stessa buona fede che caratterizzava noi): “Proletari di tutto il mondo unitevi”, ma non era invece evidente come, almeno nella variante comunista, questo internazionalismo fosse pesantemente sfalsato a favore del mondo sovietico e slavo, ignorando ad esempio la tragedia subita dalla nostra stessa gente nella seconda guerra mondiale con il martirio delle foibe? Non era forse evidente che quel “socialismo realizzato” che si intravedeva al di là della Cortina di Ferro non era altro che un mostruoso sistema di tirannidi?
In particolare per me studente da poco approdato alla scuola superiore era poi chiaro che distruggendo la scuola selettiva e meritocratica, costoro stavano distruggendo un importante strumento di promozione sociale, che la scuola egualitaria “modello Barbiana” avrebbe potuto distribuire solo titoli di studio ridotti a patacche svalutate.
L’elemento nazionale, l’appartenenza etnica, poi, si potevano davvero porre in non cale per ridurre tutto alla meccanica della lotta di classe? Al fondo del cosmopolitismo internazionalista non c’era una semplificazione davvero brutale?
Quello che non volevamo, ciò in cui ci sentivamo in dovere di combattere, era molto chiaro, ma non altrettanto ci appariva l’elemento positivo da contrapporre ad esso. Patriottismo nazionalistico o spirito europeo? Integralismo cattolico o visione neo-pagana con suggestioni desunte da Nietzsche e da Evola? Un ideale di società strutturata in categorie sociali o “sinistra nazionale” sul modello della socializzazione della RSI? Ci mancava quella visione di fondo comune, sia pure nelle differenze, che “loro” avevano.
C’era poi un altro elemento che non era subito evidente, e di cui siamo diventati consapevoli poco per volta.
Ricordo un’assemblea studentesca di molti anni fa, nella quale presi la parola ricordando la tragedia delle foibe. Fui immediatamente zittito, e un mio interlocutore esclamò:
“E il genocidio degli ebrei, allora?”
(a quel tempo non si usava ancora l’espressione “olocausto”, resa poi popolare dal romanzo di Gerald Green).
Io all’epoca non conoscevo a fondo le tematiche revisioniste, e le obiezioni che si possono muovere a questa imputazione attribuita ai vinti per coprire le atrocità commesse dai vincitori durante il secondo conflitto mondiale, ma confesso che non riuscii a replicare (cosa che forse mi impedì di finire come Sergio Ramelli, quelli erano i tempi!), tanto l’obiezione mi parve assurda e priva di logica. Come poteva un delitto giustificarne un altro, anche visto che tale genocidio di sicuro non era minimamente imputabile alle popolazioni italiane della sponda orientale adriatica?
MI sfuggiva l’aspetto “religioso” di tale replica che si rifaceva a quella mentalità che il nostro grande Gianantonio Valli ha così bene tratteggiato definendola “holocaustica religio”.
Detto in poche parole, un semplice raffronto di numeri che ci fa vedere che i bombardamenti terroristici condotti durante la seconda guerra mondiale da parte degli alleati contro le popolazioni civili (fra cui, non dimentichiamolo, due olocausti nucleari contro il Giappone), le stragi compiute dall’Armata Rossa contro le popolazioni tedesche inermi (donne, vecchi e bambini), l’assassinio deliberato in seguito a patimenti e torture di un numero enorme di prigionieri di guerra, i morti nei gulag comunisti, i massacri di civili italiani compiuti dai partigiani titini, gli eccidi compiuti anche dai “nostri” partigiani comunisti fino a ben dopo la conclusione del conflitto, sorpassino di gran lunga nel loro insieme il numero delle vittime attribuite al presunto olocausto, è una constatazione che non deve servire a nulla (anche se è ovviamente meglio che la gente non sappia, abbia quanto più possibile una visione deformata della più immane tragedia della nostra epoca), queste sono morti “banali”, e accostarvi il presunto olocausto è una “banalizzazione”, perché la colpa realmente imputata alla parte soccombente della seconda guerra mondiale in realtà è il sacrilegio, l’aver alzato le mani su coloro che si ritengono, e che gli abramitici di varia specie psicologicamente coartati ritengono il popolo santo, il popolo sedicente eletto.
Era la prima volta che mi scontravo con il fatto che l’antifascismo non è un pensiero razionale, ma ha un sottofondo irrazionale e stregonesco senza il quale diventa incomprensibile.
Tuttavia restava il fatto che nel complesso quella portata avanti allora da “loro” aveva l’apparenza di una visione forte e ben salda, confortata dalla profezia dell’avvento finale della “società socialista” senza classi, mentre il nostro appariva un reagire dettato più dall’istinto che dalla ragione. Sicuramente, soffrivamo di molte cose, a cominciare dal fatto che era come muoversi in un territorio in gran parte sconosciuto senza né mappa né bussola, anche perché gran parte del ceto intellettuale cresciuto sotto il fascismo era transitato armi e bagagli nel campo avverso, la sinistra aveva inglobato tutte le “teste pensanti” o poco via.
Bene, se guardiamo a come appare ora la situazione a quarant’anni di distanza, il cambiamento appare sconcertante. Noi oggi vediamo una sinistra che dopo aver messo tra i cimeli del passato la lotta di classe ed essere diventata genericamente “democratica”, si presta a fare da sgabello alle politiche più antisociali del capitalismo finanziario internazionale, e in primo luogo del suo proposito più torbido e criminoso, l’attuazione del piano Kalergi, la distruzione di etnie e popoli per imporre dovunque un caotico marasma multietnico.
Sarà forse il caso di ricordare che proprio il PD italiano, in quanto erede diretto del PCI, il maggior partito comunista dell’Europa occidentale, dopo la scomparsa della casa madre sovietica e dei regimi a essa collegati, è oggi il più accreditato interprete di quella visione del mondo. Ebbene, Valter Veltroni, fondatore e allora segretario del PD, ebbe a dichiarare che “la lotta di classe non esiste”. È come se un papa avesse proclamato che i vangeli sono un falso.
Allora dobbiamo chiederci dove sono andate a finire quelle “idee chiare” con cui un tempo stentavamo a reggere il confronto. Sicuramente, il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 ha radicalmente cambiato le carte in tavola non solo riguardo agli scenari geopolitici internazionali, ma anche riguardo alle concezioni ideologiche, tuttavia questo crollo apparentemente improvviso e tutto ciò che ne è conseguito hanno rappresentato soltanto una tappa nell’allontanamento e verrebbe da dire nel progressivo tradimento della classi popolari e lavoratrici da parte della sinistra, quel fenomeno che è stato più volte indicato come la mutazione genetica. Io a questo argomento ho già dedicato quattro articoli sulle pagine di “Ereticamente”, e ora non mi ripeterò se non in estrema sintesi.
Questo allontanamento è cominciato all’atto stesso della rivoluzione d’ottobre, quando la tirannide bolscevica, una delle più feroci e accentratrici della storia, è stata gabellata come la realizzazione dello stato “dei lavoratori”, e una seconda tappa non meno importante è rappresentata dal ’68, quando la sinistra ha arruolato fra le sue fila un nutrito nugolo di rampolli dei ceti alto-borghesi che sotto l’etichetta “rossa” hanno continuato a perseguire i loro interessi, a cominciare, si intende dalla distruzione della scuola selettiva e gentiliana che poteva permettere ai più capaci figli delle classi subalterne di mettersi in concorrenza con loro, e tutto il resto non è stato che una conseguenza.
“Loro” avevano le idee chiare, oggi navigano in una notte profonda, e non riescono neppure a chiedersi perché le classi popolari europee mostrino nei loro confronti una crescente disaffezione, ma l’unico “rimedio” che vi hanno trovato è l’importazione a man bassa di finti profughi dal Terzo Mondo per crearsi un “proletariato alternativo” senza tenere minimamente conto dei danni che ciò infligge alle classi popolari e lavoratrici delle rispettive nazioni.
Oggi possiamo tranquillamente affermare che la sinistra è la peggior nemica delle classi lavoratrici.
Semmai, ciò che occorre veramente chiedersi, è come sia possibile una simile cecità, ma anche in questo caso la risposta non è per nulla misteriosa, e risiede in una stortura profondamente insita nella mentalità di sinistra o “democratica”, l’idea che un essere umano e ciò che fa di lui quello che è, sia soltanto il dato ambientale-appreso, trascurando del tutto o negando i fattori innati, biologici, genetici, etnici; da qui l’illusione che un figlio di extracomunitari cresciuto da noi, allevato secondo gli standard “occidentali” diventerebbe un “nuovo italiano” (o francese, o britannico, eccetera), cosa che si è rivelata del tutto falsa, laddove invece l’immigrazione ha portato il Maghreb e il Congo dentro Roma, Parigi, Londra, Bruxelles.
La tendenza a considerare un fatto biologico fondamentale come un mero dato culturale, non si applica solo all’etnia, ma anche al sesso e alla sessualità, altrimenti non si capirebbero né l’assurdità dell’ideologia gender né il mistero di una sinistra che sposa “i diritti dei gay” e contemporaneamente “l’apertura” verso culture ferocemente omofobe come quella islamica senza cogliere la contraddizione della cosa.
Da dove viene questa fondamentale astrattezza della sinistra che rende le sue idee inapplicabili al reale, anche questo non è un mistero insondabile: la contrapposizione natura-cultura a essa cara e la svalutazione della dimensione naturale, è semplicemente un ricalco della contrapposizione cristiana corpo-spirito e della corrispondente svalutazione della dimensione corporea. La sinistra odierna è figlia del “bolscevismo dell’antichità”, della sovversione originaria operata due millenni or sono, che ha portato all’estinzione la spiritualità autoctona dell’Europa, e non è davvero un caso che le Chiese cristiane, quella cattolica in primis, siano oggi schierate a fianco della sinistra nel sostenere l’immigrazione, precisamente allo scopo di procurarsi un “gregge” di fedeli alternativo alla crescente laicizzazione della mentalità europea. Anche in questo caso, dietro il mantello caritativo c’è sostanzialmente ipocrisia interessata.
Mi rifaccio a un concetto che devo avere già espresso. Noi quando abbiamo iniziato la nostra militanza politica non potevamo sapere fino a che punto avevamo ragione, perché le conseguenze più esiziali della sconfitta dell’Europa (non solo dell’Asse ma anche dei Paesi nominalmente vincitori) nella seconda guerra mondiale, l’attuazione del piano Kalergi e l’attacco alla sostanza etnica dell’Europa, hanno cominciato a manifestarsi con chiarezza soltanto dopo la fine del lunghissimo stallo imposto dalla Guerra Fredda.
Lo spostarsi della sinistra che ha rinnegato “il socialismo” e la lotta di classe, su posizioni “liberal” ha avuto come parallelo la scomparsa delle destre liberali “classiche”, per la ragione molto semplice che “le riforme” (che poi significano sistematicamente riduzione dello stato sociale e dei diritti acquisiti in secoli di lotte) per il potere mondialista è più comodo farle fare a governi di sinistra che le classi lavoratrici continuano ancora a percepire erroneamente come “dei loro”, piuttosto che a governi di destra che incontrerebbero resistenze e ribellioni insormontabili. Oggi “le destre” (ma questo termine non significa più molto) sono soprattutto identitarie e populiste, e trovano la loro base soprattutto in quei ceti lavoratori che oggi la politica della sinistra sta maggiormente danneggiando. Gli schemi “classici” di destra elitaria e sinistra proletaria oggi sono letteralmente capovolti o hanno perso del tutto significato.
Il fatto che sinistri e “democratici” usino l’aggettivo “populista” come un insulto dimostra precisamente che stanno sempre più perdendo “la presa” sulle masse popolari. Riguardo al fenomeno del populismo, esso è stato analizzato da vari collaboratori di “Ereticamente”, e posso ricordare anche un mio articolo di qualche anno fa, Euroscettici e populisti, ora sarà il caso di limitarsi a un accenno il più sintetico possibile.
Non occorre essere grossi esperti di etimologia per sapere che “democrazia” è un termine che deriva dal greco che significa “potere popolare”, e allora, se dovessimo prendere questa definizione alla lettera, resterebbe davvero un mistero come mai “il populismo” sia una specie di summa di tutto ciò che i democratici aborrono e schifano.
In realtà svelare l’arcano non è difficile: semplicemente la definizione di “potere popolare” e anche tutte le altre che chiamano in causa “i diritti umani” e “le libertà civili” nella concretezza delle cose non si attagliano minimamente al tipo di regimi oggi diffusi nel cosiddetto mondo occidentale che passano sotto il nome di democrazie. Nella realtà dei fatti, quelle che noi oggi chiamiamo democrazie non sono altro che feudi o proconsolati del dominio statunitense sull’Europa e su altre parti di questo sciagurato pianeta. Il recente inquilino della Casa Bianca, più abbronzato e più incauto di coloro che l’hanno preceduto, non molto tempo prima di concludere il suo secondo mandato aveva dichiarato che “Il grado di democrazia di un Paese si riconosce dal grado di amicizia verso gli Stati Uniti”.
“Amicizia”, naturalmente, è un vocabolo del lessico orwelliano, se si ha la presunzione di chiamare amicizia un rapporto dominatore-sottomesso.
Quanto al consenso popolare, in realtà non ha molto significato al di fuori di una politica intesa a tutelare, proteggere, far crescere il popolo-nazione come entità etnica, storica e culturale (cioè l’esatto contrario di quella delle attuali democrazie), non è mai stato difficile indurre la plebe ad applaudire il tiranno di turno, lo è meno che mai nella nostra epoca di plagio mediatico. Libertà civili e diritti umani, sappiamo bene che non esistono per gli oppositori del sistema, per chi vuole rimettere in discussione la leggenda olocaustica o per chi denuncia il piano Kalergi, sappiamo che esistono leggi che proibiscono addirittura di pensare queste cose in regimi che hanno la faccia tosta di proclamare astratti principi di libertà nelle loro costituzioni.
Forse, ciò che la democrazia in realtà è, lo svela meglio di tutto un commento che mi è capitato di raccogliere su facebook a proposito della Brexit, la decisione estremamente razionale e giustificata del popolo britannico di liberarsi dalla trappola della UE. Un (o una) tale di sinistra commentava che “per fortuna” la nostra costituzione (“la più bella del mondo”) “ci protegge” dalla possibilità di prendere una decisione simile, perché vieta il referendum sui trattati internazionali. A parte il fatto che la UE non è altro che una trappola dalla quale sarebbe meglio uscire al più presto, questo ci dà l’esatta misura del modo in cui i democratici considerano il “popolo sovrano”: un’accozzaglia di bambini deficienti bisognosi di essere guidati per manina.
Quando si ha l’occasione di parlare con qualcuno che appartiene alla “generazione del ’68” e che ha militato nei movimenti “rossi” che pullulavano a quel tempo, soprattutto se questa persona non conosce le nostre convinzioni politiche – e di persone di questo genere lavorando nel mondo della scuola, ne incontro quotidianamente – si scoprono persone disilluse e amareggiate che hanno visto i loro ideali inseguiti per decenni svanire come chimere, scoppiare come bolle di sapone, questo sempre – naturalmente – parlando di coloro che hanno seguito queste utopie in buona fede e non ne hanno tratto in un modo o nell’altro un profitto personale.
Noi sappiamo invece che la nostra lotta, la lotta per la difesa dell’identità etnica dei popoli europei, è appena iniziata.