Il tema delle sovranità è la questione centrale dell’epoca in cui viviamo, anche se la percezione che ne hanno i nostri connazionali è confusa e alterata dalle menzogne del sistema politico, economico e mediatico. Il fondatore della scienza politica moderna, Niccolò Machiavelli, aveva chiaro che senza il controllo dell’apparato militare e della circolazione monetaria non ci fosse potere. Una questione da troppi ignorata, ma dalle dimensioni immense, è quella delle riserve d’oro italiane, che ammontano a 2.452 tonnellate e sono al terzo posto nel mondo. Alle quotazioni correnti del metallo giallo, il controvalore in euro è di almeno 75/80 miliardi. Le domande fondamentali sono almeno tre: dove sia custodito l’oro, chi ne abbia la proprietà, a che cosa può servire.
Le risposte sono drammaticamente negative per il nostro popolo. Negli ultimi mesi, alcuni deputati sono riusciti a visitare i santuari-caveaux della Banca d’Italia. I fatti sono i seguenti: solo circa 1.200 tonnellate si trovano a Palazzo Koch, storica sede di Bankitalia, meno della metà. La proprietà, giuridicamente, è in capo alla stessa Banca, che, repetita iuvant, è un organismo privato, sia pure investito di funzioni pubbliche, partecipante della Banca Centrale Europea, ed i suoi azionisti sono le maggiori banche “italiane”, tranne uno striminzito 5 per cento in mano all’INPS. Le virgolette poste sull’aggettivo italiane riguarda il fatto che tutte, diciamo tutte, le banche interessate hanno importanti azionisti esteri, in alcuni casi sono controllate da istituti stranieri, a partire dai due giganti Unicredit e Intesa San Paolo. Anche la Banca detta d’Italia, che alcuni ancora chiamano banca “nazionale” è quindi eterodiretta, ed i suoi domines sono il gotha della finanza mondiale.
Quanto all’uso o alla funzione della riserva aurea, le cosiddette autorità finanziarie affermano che essa “costituisce un presidio fondamentale di garanzia per la fiducia nel sistema Paese”. Due osservazioni: poiché Bankitalia fa parte dell’Eurosistema, la garanzia si estende agli altri Stati che fanno parte dell’Eurozona, il che pare quanto meno improprio; se poi occorre garantire attraverso l’oro il “sistema Paese”, orribile espressione sinonimo di Italia, chi, se non lo Stato, deve detenerla ed eventualmente deciderne un utilizzo, attraverso governo e parlamento? Eh no, poiché , dicono lorbanchieri, la riserva è nostra, è della sacra istituzione di cui è governatore Ignazio Visco. Ebbene, questo è il punto: le riserve auree sono indiscutibilmente proprietà del popolo italiano nella sua continuità storica, di cui la banca di emissione (ormai ex, il potere è di BCE) è solo uno strumento tecnico.
Due righe di storia: la Banca d’Italia nacque nel 1893, per volontà governativa a seguito dello scandalo della Banca Romana. Le furono conferite, insieme con i poteri di emissione, circa 150 tonnellate d’oro, provenienti per la metà dalle casseforti delle banche regnicole dei deposti Borbone. Non dimentichiamo che la quantità di moneta emessa, oggetto principale dello scandalo del 1893, era legata al possesso di riserve in metallo prezioso. Dopo la seconda guerra mondiale, e varie vicissitudini e trasferimenti che determinarono la perdita di 25 tonnellate, la riserva aumentò sino all’attuale consistenza, nell’ambito della proprietà pubblica dell’istituto di Via Nazionale, attraverso le banche di interesse nazionale di cui alle leggi bancarie del fascismo.
La sua privatizzazione fu conseguenza degli scellerati, criminali accordi del panfilo Britannia, presenti Andreatta, Carlo Azeglio Ciampi ed il giovane allora dirigente di Goldman & Sachs Mario Draghi, ma le banche azioniste, comprate per poco più di un tozzo di pane, non hanno mai acquisito ufficialmente la proprietà dell’oro. Fortunatamente, per statuto, non possono disporne, come del resto neppure i sedicenti proprietari, ovvero l’istituto privato di diritto pubblico (un ircocervo!) Banca d’Italia. Non vi è dubbio che l’oro è stato acquisito con il sacrificio di molte generazioni di italiani, e che dunque la proprietà deve essere restituita al nostro popolo.
Giulio Tremonti riuscì a far approvare una legge, la 262 del 2005, che stabilisce la proprietà pubblica di Bankitalia. Legge inapplicata, come tante altre del nostro incredibile Stato, ed il perché è piuttosto evidente, e si può riassumere nell’avviso scritto sui tram di una volta: non disturbare il manovratore.
Disturbiamolo, invece, lanciando una campagna civile morale e patriottica prima che politica perché sia restituito al legittimo proprietario, noi, l’oro che è simbolo del sudore di milioni di italiani. Prima ancora, occorre sapere ufficialmente dove si trovi e perché sia lì la metà abbondante del tesoro, che, ricordiamolo, nelle nostre mani potrebbe cambiare il corso della storia economica nazionale, e forse anche ristabilire la sovranità economica della Patria. Probabilmente, la maggior parte è in America, presso la Federal Reserve, altri lingotti dormono nei forzieri della banca centrale svizzera e della Bank of England. Le spiegazioni ufficiali fanno sorridere, verrebbero forse credute nelle prime classi elementari: si afferma che la custodia in varie casseforti avrebbe ragioni di sicurezza e di cautela rispetto ad instabilità politiche ed economiche.
La realtà è ben più grave: innanzitutto, esiste ancora quell’oro? Quali furono, e sono, i motivi della sua esportazione? C’entrano forse clausole indicibili del trattato di pace con le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale? Chi, ed a quali condizioni ha titolo per chiederne, o pretenderne il rimpatrio? Esiste un recente caso, in cui la Germania (leggasi Bundesbank) ha chiesto ed ottenuto dagli Usa la restituzione di parte della sue riserve. Analoghe richieste di restituzione provengono, per la Francia, da parte di Marine Le Pen. Troppi segreti si celano attorno all’oro, anzi all’ “oro fisico”, come lo chiamano nel mondo di carta della finanza speculativa. La Cina sta rapidamente aumentando le sue disponibilità, ed ha inaugurato quest’anno un mercato di metalli preziosi denominato in yuan a Pechino, la stessa Russia sta cautamente procedendo ad acquisti.
Qualunque motivazione abbia portato il nostro oro lontano dall’Italia, forse venduto, forse dato in pegno, è comunque da considerare criminale ed i responsabili, in tempi seri, sarebbero chiamati a rispondere di alto tradimento. C’è anche chi sospetta che l’oro sia stato prestato più volte, generando illegalmente un interesse che, su somme così ingenti, sarebbe comunque una cifra assai importante, oppure che sia stato oggetto di spericolate manovre per manipolare il prezzo del metallo sul mercato.
Insomma, un altro furto, quello del millennio, a danno di tutti noi. Quel che colpisce profondamente è il disinteresse della classe politica, ma la spiegazione non è tanto difficile: chi tocca i fili muore. Ne sa qualcosa il governo italiano di centro-destra, pessimo ma legittimo, oggetto di un colpo di Stato per motivi finanziari del 2011. Tremonti chiedeva gli Eurobond, sgraditi a Francoforte, Berlusconi ipotizzava forse di uscire dall’euro, si accordava con Putin, il novello Gengis Khan e con Gheddafi, prima statista rispettato, poi nemico pubblico franco- britannico. Agli italiani, però, potrebbe interessare conoscere la storia di 80 miliardi di euro (ma la somma è destinata a salire) spariti dalle loro mani.
Perché, però, l’oro continua ad essere tanto importante per gli uomini e gli Stati, anche adesso che non esiste più la riserva obbligatoria, abolita da Nixon il 15 agosto 1971, e che gli usi industriali dell’oro non giustificano la corsa al metallo color del sole? Da un punto di vista metastorico, ne dette una spiegazione molto suggestiva Mircea Eliade, il grande studioso rumeno delle tradizioni e delle civiltà tradizionali, nel seguente passo: “L’oro non appartiene alla mitologia dell’homo faber ma è una creazione dell’homo religiosus; questo metallo cominciò infatti ad assumere valore per motivi di natura essenzialmente simbolica e religiosa. L’oro è stato il primo metallo utilizzato dall’uomo, pur non potendo essere adoperato né come utensile né come arma. Nella storia delle rivoluzioni tecnologiche – cioè nel passaggio dalla tecnologia litica alla produzione del bronzo, poi all’industria del ferro ed infine a quella dell’acciaio – l’oro non ha svolto alcun ruolo […] E tuttavia, dai tempi preistorici fino alla nostra epoca, gli uomini hanno faticosamente perseguito la ricerca disperata dell’oro. Il valore simbolico primordiale di questo metallo non ha potuto essere abolito malgrado la desacralizzazione progressiva della Natura e dell’esistenza umana”.
Più prosaicamente, il mercato dell’oro resta elemento centrale del mondo economico, ed è dominato, manco a dirlo, dalla finanza, in particolare da quella legata alla galassia Rothschild. L’oro è il bene rifugio per eccellenza, ed i nostri anni tempestosi di conflitti e uragani economici lo rendono ancora più appetito. Dal punto di vista mineralogico, nell’ultimo quarto di secolo le quantità estratte sono state ampiamente superiori ai nuovi filoni scoperti: anche l’oro, dunque, viene sfruttato in misura maggiore di quanto ne rimanga disponibile.
Il vero choc, però, è quello relativo al suo mercato. Centro del business è Londra, ed il suo London Bullion Market, di cui sono soci Barclay, Deutsche Bank, Société Generale, HSBC e Scotia Mocatta, fondato da un Rothschild nel 1919. Cinque persone, rappresentanti delle entità citate, ne fissano due volte al giorno il prezzo in dollari ad oncia troy (31,1035 grammi). La gran parte delle transazioni avviene over the counter, cioè fuori dai canali ufficiali e in qualche misura controllabili, per cui la manipolazione dei prezzi e l’illegalità è sospetto costante. Ogni cinque giorni la finanza muove sulla piazza londinese certificati legati all’oro, futures, derivati e tutte le altre pirotecniche invenzioni dei signori del denaro, per oltre 15 milioni di once, che è la produzione annua di quell’entità esoterica che è l’”oro fisico”. Circolano per il vasto mondo, dunque, pezzi di carta legati all’oro in quantità infinitamente superiore al fino realmente esistente.
Anche qui, scommesse sul nulla gestite da biscazzieri in grisaglia, aggiotaggio, insider trading e tutto il resto. I croupier fanno girare la pallina a Londra due volte al giorno per conto dei soliti noti, ma il tavolo verde non c’è ed i giocatori da spennare sono al buio. Inevitabilmente, in condizioni di instabilità politica, crisi economica e deflazione monetaria, il prezzo dell’oro aumenta. Come negli altri settori, si scambiano promesse, previsioni, possibilità. Di oro vero, fisico, poco o nulla. Poi qualcuno scuote la tovaglia e il banco, più ancora che al casinò, vince sempre.
Probabilmente, sino al punto di rapinare senza un fruscio l’oro dei popoli depositato nelle banche che un tempo si chiamavano centrali e nazionali, compresa quella che ha il nome dell’Italia.
Dobbiamo ribellarci, ed almeno sapere e capire, oppure la schiavitù è il nostro normale destino, di cui siamo artefici e colpevoli, come si dicono Bruto e Cassio nel Giulio Cesare di Shakespeare, o come già intuiva la pratica saggezza romana populus vult decipi, il popolo vuol essere ingannato, per cui, proseguono i nostri progenitori, lo si inganna. I Rothschild conoscono bene la lezione, i loro colleghi altrettanto.
Noi paghiamo il conto.
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