Nella più comune accezione del termine, l’ortodossia ci richiama qualcosa di rigido ed immutabile riguardante, in primis, l’ambito di quella forma di religiosità, nell’ambito dell’ecumene cristiana, che ad oggi qualifichiamo quale “ortodossa”. I volti ieratici, le barbe fluenti, la suggestiva ritualità, sembrano riportarci ad una dimensione di immobile atemporalità, nella quale a prevalere è una dimensione esclusivamente contemplativa. Il russo Pavel Florenskij (1882-1937), sembra stravolgere tutto questo.
Coerentemente con le radici greche ed orientali del cristianesimo ortodosso, Florenskij si fa fautore di una forma di neoplatonismo, mutuata da quanto elaborato da Palamas (1296-1359), monaco del Monte Athos nell’Impero bizantino ed in seguito Arcivescovo di Tessalonica. L’idea di una interconnessione tra la sfera divina e quella terrena, allo stesso tempo accompagnata da una netta cesura tra le due è, in questa particolare versione del neoplatonismo, coniugata all’insegna della compenetrazione tra la sfera divina e quella materiale, attraverso tutte quelle energeias/energie che, quali primarie manifestazioni della physis/natura divina, si manifestano nel mondo attraverso luce, calore, etc. e che, alfine, trovano nella pratica rituale dell’esicasmo, uno dei propri momenti culminanti. Ad esser adorata non è una astratta sostanza divina, bensì la sua immagine, concretizzata nel “nomen omen” di Cristo, ripetuto ed alfine interiorizzato, attraverso una forma di preghiera-meditazione, incentrata sul punto di intersezione tra naso ed occhi, che ci rimanda direttamente a quel “terzo occhio” induista, in grado di far passare la limitata ed egoica coscienza umana, a quel superiore stato di spersonalizzazione e connessione con l’Assoluto, in quel contesto, chiamato Atman. Ma Dio non è solo un nome o un’immagine, ma molto di più.
E qui si inserisce la visione di Florenskij. Superando l’idea platonica di una rigida separazione tra la sfera divina e quella materiale, ma anzi, proclamando una loro stretta compenetrazione, Pavel Alexandrovic Florenskij, si immerge nello studio del simbolo quale particolare punto di connessione tra le due sfere, partendo proprio dall’arte e da quella sua particolare espressione data dall’iconologia. Ben lungi dall’essere astratte ed immobili espressioni pittoriche, le icone rappresentano il volto parlante del divino. I santi quali rappresentazioni ierofaniche dell’energeia/energia, divina, ci guardano e ci connettono direttamente alle sfere superne. L’Arte e l’artista si fanno, pertanto, veicolo della trasposizione della sostanza divina “ in terris”, divenendo il veicolo principe in grado di connettere l’osservatore al proprio archetipo vitale. Ma l’arte, in quanto rappresentazione visiva della realtà che ci circonda, è anche rappresentazione di ciò che a noi si manifesta, in modo incompleto, imperfetto ed illusorio. Pertanto, venendo meno al principio di non contraddizione che sovrintende a tutto il pensiero occidentale, Pavel Florensky ci mette innanzi al fatto dell’intima contradditorietà della realtà che ci circonda. Vivere ed accettare la contraddittorietà della realtà, è quanto il filosofo russo ci suggerisce, non senza, attraverso l’esercizio dell’Arte pura che attraverso la dionisiaca esaltazione dei sensi ci solleva verso le apollinee dimensioni delle forme pure, diretta espressione e manifestazione del divino.
Con Florensky l’ortodossia russa, sembra riconnettersi ai grandi motivi che da sempre animano e scuotono la vita dell’Occidente, da una parte rappresentati dalla contraddittorietà insita a quest’ultimo e che i fondamenti razionalistici non sono riusciti a scalfire granchè. Dall’altra parte e conseguentemente a quanto poc’anzi detto, una visione dell’arte e dell’estetica, atte a proiettare l’uomo in una dimensione sovrumana, grazie alla già citata capacità di queste di connettere l’individuo ai propri archetipi vitali. Quasi a voler prendere le mosse da quanto l’arte occidentale ha sperimentato con gli effetti visivi della pittura fiamminga e della pittura italiana del Rinascimento, l’arte delle icone viene portata da Florensky ben oltre il raffinato, ma pur sempre, tecnicistico ambito illusionista, nella direzione di quel pensiero magico, il cui afflato ricompare tra le spire della sorgente Modernità, lasciando intravedere all’alienato individuo post moderno, delle inaspettate vie d’uscita. Quella che sembrava essere una rigida ed ingessata espressione religiosa, ora sembra voler seguire la direzione di quel pensiero magico che ha animato la Rinascenza in Italia ed in Occidente…Pavel Florensky è stato espressione vivente di quella Grande Russia, quel Continente dell’anima, a sua figlio di quella Grande Madre che è l’Asia, da cui ha attinto a piene mani l’afflato verso una forma di romantico misticismo, espressa nell’aspirazione dei panslavisti del primo Novecento, ad uno stato di mistici, di guerrieri e di contadini. Il sogno di un superuomo slavo, andrà però a fracassarsi sugli scogli dell’ottusità marxista di Stalin che, dopo aver fatto deportare il grande studioso in un Gulag , lo farà fucilare l’8 dicembre del ’37.
Verrà così posta fine ad un’avventura umana, la cui straordinaria fecondità intellettuale, può essere tranquillamente paragonata all’eclettismo dell’esperienza rinascimentale ed umanistica nostrana. Il lascito di Florensky è lì ad indicarci una via, quella della Tradizione che, dipartendosi da un unico perno, espressione di un coacervo di motivi comuni, va poi dipartendosi in una caleidoscopica molteplicità di espressioni, tutte egualmente segnate dal lascito di una comune appartenenza. Quella ricerca interiore a carattere iniziatico che, in Occidente, assume le vesti di una vera e propria eterodossia, finendo col farsi filosofia, al di fuori dell’ortodossia religiosa, in Oriente, invece, si sviluppa all’interno di quella stessa ortodossia, quale vera e propria ricerca teosofica. E forse proprio da questo misterioso ponte che unisce due continenti dello spirito, quali Asia ed Europa, che dovrebbe ripartire un progetto di rinascita, in grado di scalzare definitivamente l’alienante gabbia globalista.
UMBERTO BIANCHI