La produzione attinente alla Fantascienza, sia al cinema sia in forma scritta, presentataci in questi primi due decenni e più del Terzo Millennio, non ha spiccato, a nostro avviso, per qualità e ispirazione. Un esempio eclatante di tale situazione è l’insistere pertinacemente nello sfruttamento delle due Saghe fondamentali del genere (Star Trek e Star Wars), le quali, per quanto incontestabili pietre angolari della cosiddetta Sci-Fi, hanno concluso il loro ciclo creativo, non avendo oramai nulla di nuovo da offrire al pubblico. In aggiunta, cineasti assai scaltri – va detto non certo privi di mestiere, benché assolutamente sprovvisti di una personale poetica, tra tutti l’americano J. J. Abrams – sguazzano nel proporre pellicole che sono una accozzaglia di tematiche e narrazioni, mancando, in sintesi, di una filologica purezza.
Allora, ben venga un romanzo quale Star Riders – I Cavalieri delle Stelle (2019) di Luigi Cozzi, in cui troviamo un cristallino omaggio alla Space Opera, la quale è un filone narrativo archetipico della FS. Un volume che ci porta a scoprire che l’universo è in pericolo, e che l’unico modo per salvarlo sarà chiamando in soccorso le poderose armate robotiche dei Cavalieri delle Stelle: i titanici e invincibili soldati meccanici addormentati da migliaia di anni sotto i ghiacci delle remote Lune del Silenzio. Solo un membro appartenente alla Famiglia Imperiale ha il potere di far questo, ecco perché il terribile e spietato Conte Barone Waalk, che prende il Potere tramite un fulmineo colpo di Stato, la stermina quasi completamente, con l’eccezione della giovane e bella Morgana, che, difatti, egli intende sposare appena lei raggiungerà la maggiore età, così da ascendere finalmente al trono. Tuttavia, quello che l’Usurpatore non sa è che il fratellino della Principessa, nonché legittimo erede, si è salvato! Ecco, e in ottima sintonia con questa tipologia di racconti, da tale premessa si intuisce che il cattivo di turno, e Waalk ne è una epitome, non trionferà. Ragion per cui, trattasi di una trama scontata? Per nulla, visto che sta nel potere della narrazione e della caratterizzazione di luoghi e personaggi la precipua forza della Space Opera, pensiamo, tanto per dire, alle succitate saghe di George Lucas e Gene Roddenberry.
In questo romanzo Cozzi ci catapulta con la sua fantasia in un futuro enormemente lontano. Invero, è proprio il concetto di remoto la cifra di questo libro e del filone a cui appartiene: “Tanto tempo fa in una galassia lontana, lontana” dovrebbe ricordare qualcosa. Laddove da alcuni decenni dilaga su carta e al cinema lo scetticismo della Near (Future) Science Fiction – specie nella sua disperante versione distopica – il noto autore e regista italiano si ricollega con questo suo romanzo a una idea “mitologica” della Fantascienza, non incline al concettismo, bensì a solleticare il Sense of Wonder tramite quella “Sospensione dell’incredulità” di cui parlò il poeta inglese Samuel Taylor Coleridge (1772 – 1834). Pertanto, il romanzo in questione si pone a suo modo in antitesi allo scetticismo della Fantascienza degli ultimi tempi, declinata in modo quasi ossessivo in chiave negativa, per la quale all’avventura si preferisce sistematicamente l’affresco inquietante e, diciamocelo, deprimente di un futuro dannato per l’essere umano.
Pagina dopo pagina, la trama sembra per certi versi riecheggiare lo stile e le atmosfere del canadese Alfred Elton van Vogt (1912 – 2000): uno dei principali autori della “Golden Age” della Sci-Fi anglosassone. Ciò avviene altresì per mezzo dei titoli dei vari capitoli (L’astronave fantasma, La Principessa Morgana, La luna impazzita, ecc.), cosa che riguarda anche il vocabolario utilizzato (“arma neuronica” o “imbarcazione cosmica”).
Siamo lontani, quindi, dalle cervellotiche, per quanto acute, dissertazioni di Arthur C. Clarke e J. G. Ballard, col loro rifiuto, segnatamente per il secondo, dello “spazio esterno”, con i suoi ineludibili assunti della astronave e del viaggio spaziale. Infatti, il romanzo di Cozzi, nel pieno rispetto di quella “classicità” alla quale si è poc’anzi riferito, si apre con un inizio pieno di azione; addirittura un “golpe galattico”, senza mai abbandonare tale tensione narrativa per tutta la storia, precipuamente per quanto concerne la suspense sulla effettiva natura dei Cavalieri delle Stelle, con la loro identità che rimane un mistero per buona parte della trama.
Altri spunti interessanti si ritrovano nella figura del summenzionato perfido Waalk, la cui malvagità è davvero quella tipica del cattivo d’antan – ennesima riprova del positivo valore nostalgico di questo romanzo – il quale ci viene mostrato come un “futuristico Erode: “Tutti i maschi tra i quattordici e i diciotto anni di età, i cui genitori siano sconosciuti o che non siano in possesso di una carta di identità computerizzata, saranno giustiziati sul posto” (51), decretando spietatamente che sul pianeta Aquaterra tutti i ragazzi che potrebbero anche lontanamente essere quell’Erede al Trono Galattico sfuggitogli anni fa quando era ancora in fasce per merito di una ancella di Corte saranno: “[…] subito presi e decapitati! Tutti, chiaro?” (40-41). Proprio per quanto riguarda Aquaterra, la concezione di questo pianeta è altamente fantasiosa e originale, persino allegorica si potrebbe azzardare ad affermare, essendo questo un mondo d’acqua fatto di rottami di astronavi che punteggiano enormi distese di mare; quasi una Venezia riproposta però nello spazio profondo: “La ‘stanza dei comandi’ era ciò che rimaneva della parte dove si trovavano i computer dell’astronave, ormai completamente distrutta, che formava la loro abitazione” (58).
I lettori più informati non potranno poi fare a meno di notare il persistere nella storia, specialmente attraverso i nomi di luoghi, velivoli e personaggi, di un costante omaggio alla FS più classica, con riferimenti, tanto per citare alcuni casi evidenti, allo scrittore americano Edmond Hamilton (1904 – 1977), tra i maggiori autori nella fulgida storia della Space Opera, o allo scienziato Quatermass, icona della celeberrima casa di produzione britannica Hammer, che dà vita a una ragazza robot (74), la quale è a sua volta una cristallina citazione dell’automa del Metropolis (1927) di Fritz Lang: pellicola manifesto dell’Espressionismo Tedesco. Come del resto non poteva mancare un tributo (86) a un’altra pietra miliare del genere quale Il pianeta proibito (“Forbidden Planet”, 1956) di Fred McLeod Wilcox (trasposizione cinematografica de La tempesta [1610 – 1611] di William Shakespeare), quando Morgana chiede al suo “fabbricatore” di confezionarle la più bella delle tute spaziali, alla stessa stregua del potentissimo robot Robby nella appena citata opera di Wilcox.
Prima di passare alla intervista a Luigi Cozzi (col quale abbiamo avuto il piacere di firmare assieme un libro: Godzilla 2014, sempre per i tipi di Profondo Rosso), vogliamo concludere la analisi di Star Riders, dicendo semplicemente che questo lavoro è soprattutto una testimonianza della importanza della maraviglia – per dirla col noto critico letterario e politico Francesco De Sanctis (1817 – 1883). Insomma, il “video scintillante” del quale ci parla Cozzi non è soltanto un monitor, bensì quello schermo immaginario che per molte generazioni ha rappresentato un percorso di formazione e, nel contempo, una autentica Weltanschauung.
Intervista a Cozzi
Ciao Luigi, potresti dirci qual è la storia editoriale di questo tuo romanzo?
Lunga e intricatissima. Ne ho scritto una prima versione di circa 50 pagine in forma di trattamento cinematografico poco prima della prima metà del 1977, su richiesta di un produttore che lo voleva sottoporre al distributore dell’IIF Fulvio Lucisano, il quale lo apprezzò e lo inviò al suo collega americano Sam Arkoff dell’AIP, proponendoglielo come una “risposta” a Star Wars. Ad Arkoff la storia piacque molto, ma stava già finanziando il mio film Starcrash che era dello stesso genere e quindi, sia pure a malincuore (me lo disse lui stesso quando venne a trovarmi sul set di Starcrash), l’aveva respinto. Lucisano allora passò la mia storia a Mario Bava, al quale piacque e insieme i due cercarono di portarlo in porto come film. Non ci riuscirono per il costo eccessivo e allora la stessa cosa cercarono di fare, sempre invano, Golan e Globus con la loro Cannon, Luigi Borghese (allora sposato con Barbara Bouchet) e la United Artists italiana, poi di nuovo Lucisano con me quale regista, ecc., ecc. In breve, quella storia piaceva a tutti ma costava troppo portarla sullo schermo. Alla fine, perché non andasse sprecata, l’ho riscritta io in forma di romanzo, allungandola e sviluppandola nella misura attuale. È uscita nelle edicole italiane in una collana di Fantascienza negli anni Novanta e alcuni anni fa l’ho ristampata io nella mia serie di libri per la Profondo Rosso. Fondamentalmente, è comunque sempre la stessa storia che stesi nel 1977, quando mi fu chiesto di inventare qualcosa nello stile di Guerre Stellari.
Leggendo il libro, si percepisce che si tratta di una grande avventura spaziale, con persino dei tratti salgariani. Sei d’accordo con tale interpretazione, e quanto peso hanno proprio l’avventura e l’azione in questo e altri tuoi romanzi?
Per Star Riders, come detto, volevano qualcosa in stile Star Wars e io gliel’ho fatto, però esprimendo la mia piena libertà creativa, perché è così che di solito scrivo per il cinema. Quando scrivo invece narrativa, cosa che faccio di rado perché anche se te la pubblicano la resa economica è minima, scelgo stili e argomenti che sarebbero estremamente difficili da rendere su uno schermo. Ho in preparazione due volumi di questa mia narrativa molto intima e personale, in uscita per l’anno prossimo, intitolati rispettivamente: Via delle Streghe e Favole al femminile, ovvero un romanzo e una raccolta con strane storie su alcune giovani donne singolari.
Alcuni appassionati del cinema fantastico, quando pensano a te, hanno spesso in mente il tuo importante contributo all’Horror, dimenticandosi talora di quanto tu abbia parimenti fatto per la Fantascienza. Vorremmo sapere cosa ne pensi a proposito.
L’Horror mi piace perché, come il Giallo e il Thrilling, è contiguo alla Fantascienza, che è però la mia vera e assoluta passione e per la quale opero da più di cinquant’anni. La gente invece mi associa soprattutto all’Horror per via della mia nota amicizia e lunghissima collaborazione con Dario Argento, che è il Re di quel genere. Tuttavia io preferisco di gran lunga la Fantascienza. Anche come regista non ho mai fatto un autentico film dell’orrore, ma solo un paio di film che sono in realtà di Fantascienza (Paganini Horror e De Profundis), anche se mascherati da film Horror poiché quello era il genere che volevano da me i produttori.
Espandendo un po’ la questione, qual è il tuo rapporto, come autore/regista e cultore, con questi due generi “non mimetici”?
L’ho già detto, amo visceralmente la Fantascienza poiché io sono fondamentalmente un ottimista e la Fantascienza è la letteratura della speranza. Dell’Horror mi piace abbastanza quello classico mentre detesto lo Splatter. L’Horror è comunque un genere che trovo anche molto limitato e ripetitivo in quanto a tematiche, mentre quelle della Fantascienza sono praticamente inesauribili.
Infine, e ringraziandoti per il tempo che ci hai dedicato, vorresti dare un consiglio a chi si occupa o anche solo semplicemente ama la FS oggi, e magari dirci pure a quali progetti stai lavorando al momento?
Ci tengo a precisare che molta, troppa, della Fantascienza degli ultimi trent’anni è cupa, ossessiva e pessimista: a me non piace proprio. Preferisco quella vecchia, quella classica, che nella stragrande maggioranza dei testi era invece innovativa e decisamente ottimista sul futuro. Ma forse la penso così perché ormai sono vecchio e rimpiango i bei tempi della mia gioventù, anche se forse poi tanto belli in realtà non lo erano affatto, visto che anche allora succedevano cose atroci, esattamente come quelle che ci sgomentano oggi…
Riccardo Rosati