8 Ottobre 2024
Livio Cadè Società

Luoghi incomuni – Livio Cadè

Un luogo comune tanto stupido quanto condiviso, vuole oggi che per rendere più efficace un messaggio lo si debba esprimere in inglese. Questo pare liberarlo dal provincialismo, conferirgli un carattere internazionale, intonarlo all’immaginario di una società cresciuta con gli scarti del sogno americano. Il risultato di tale sottomissione servile è che i giornali, i discorsi, le strade, tutto vien ricoperto di slogan e locuzioni nel gergo dei padroni. Al punto che la lingua di Dante finisce col sembrare un vecchio monumento imbrattato da escrementi d’uccello.

Ma cos’è un luogo comune? Essenzialmente, un’economia del pensiero. Una generalizzazione, una semplificazione di concetti, che risparmia la fatica del riflettere. Ne esistono diverse specie. Ora sintesi di verità sedimentate e trasmesse nel tempo, ora verità contingenti. Ibridi di verità e pregiudizi o complete falsità. Non sempre è facile distinguerli. Di fatto però, è raro che oggi i luoghi comuni coincidano con un’obiettiva visione del mondo. Alla ricerca onesta del vero si preferiscono in genere i surrogati retorici.

Seppure verità e retorica hanno scopi diversi – l’una vuol chiarire e dimostrare, all’altra basta convincere – ciò non significa che tra loro vi sia una reale antitesi. La retorica è un’arte che vuol condurre gli animi in una direzione, più che illuminarli, ma non è detto che per farlo debba necessariamente ingannarli. Ad esempio, la musica, tessitrice di affetti e non di argomenti, è il linguaggio retorico per eccellenza, ma ha una sua verità. “Quando ascolto Bach, io credo”, diceva l’ateo Cioran.

Essendo la verità sostanza dello spirito, non stupisce che nella nostra società, eminentemente anti-spirituale, la retorica abbia come scopo di indurre un’adesione morale e intellettuale al falso. Viviamo così avvolti nella caligine di una mediasfera  satura di informazioni e messaggi dal carattere fallace, negazione dell’aletheia, dello svelamento che è alla radice di ogni conoscenza.

La verità è una, dogmatica e assoluta, non potendo logicamente esservi due verità diverse. La retorica moderna sembra invece suggerire che tutto è relativo, legato a una molteplicità di prospettive. In realtà, con la sua apparente elasticità, questa retorica intende imporre nuovi rigidi dogmatismi e assolutismi, offrendosi lei stessa come verità legittima. Possiamo riconoscere queste due verità – naturale una, artificiale l’altra – dal fatto che la prima è stabile mentre la seconda è caduca, una ha il suo fine in sé stessa, l’altra si pone al servizio di uno Stato, di una Chiesa, di un Potere dalle forme mutevoli, di cui rispecchia e insieme asseconda le mutazioni. Chi oggi si accalora più per “Dio, patria e famiglia”?

Dio è stato emarginato da una cultura materialista e sensuale. Le prove razionali della Sua esistenza sono accettate ormai solo da qualche irriducibile tomista. E l’acribia applicata ai testi sacri, lo studio comparato delle varie religioni, l’esegesi critica, son tutti fattori ostili a una retorica religiosa che han portato una crisi profonda della fede. I temi centrali dell’esistenza sono oggi l’economia e la politica, la sessualità e la tecnologia, non certo l’anima o Dio. La Chiesa stessa sembra ispirarsi più ai valori laici, occuparsi di temi sociali e non metafisici, umani e non divini.

La patria sopravvive solo in forme larvali, in alcune esternazioni istituzionali imbalsamate e teoriche, scalzata nella realtà dalla retorica del cosmopolitismo, dell’europeismo, del globalismo. “La bandiera nazionale fa battere il cuore” poteva essere un luogo comune ai tempi di Flaubert, ma oggi nessuno lo pensa più, tranne forse durante i mondiali di calcio. L’affezione alla Patria è anzi sospetta di gretto sciovinismo.

La retorica tradizionale sulla famiglia resiste nelle pubblicità natalizie o del mercato alimentare, ma suona quasi buffa al di fuori di spazi commerciali, in un’epoca che vede i vecchi stereotipi coniugali, affettivi e domestici cedere il passo a famiglie allargate, coppie omosessuali o trans, figli in provetta, uteri in affitto. Indissolubilità o sacralità del vincolo matrimoniale, amore eterno, sono concetti anacronistici e disusati.

La retorica non è più un abito da indossare o spogliare secondo le occasioni, né una donna avvenente, ornata e agghindata, come nelle sue classiche allegorie. Oggi è un sacco amniotico, innervato da un reticolo di automatismi inflessibili come riflessi neurologici. La sua fisiologia, la sua meccanica, ci vengono insegnate dalla quotidiana pedagogia affidata alla scuola, ai media, alla Rete. Diventa per noi un’abitudine, inconsapevole e dimentica di sé stessa, utile non tanto per convincere gli altri quanto noi stessi. Ma sempre l’accompagna quel residuo di teatralità,  quel tono, quel gesto che tradiscono i ragionamenti artefatti.

I naturali avversari della retorica dovrebbero essere il pensiero scientifico e lo scetticismo filosofico. Ma la scienza stessa è diventata una branca della retorica. Predica più che dimostrare, preoccupata di sostituire le vecchie credenze con le nuove. La filosofia da parte sua non si interessa più di temi alti, ma delle beghe di parrocchia o di bottega. Così, anche scienza e filosofia divengono fonti di luoghi comuni, soggette anch’esse a quella corruzione, quel prostituirsi alla retorica del Potere, che è una delle tragedie della nostra epoca.

Qual è la genesi dei nostri luoghi comuni? È difficile riconoscerne l’apparato radicale, capire chi o cosa ce li imponga. Il loro humus è una mescolanza di sviluppo tecnologico (imprescindibile), metodo scientifico (l’unico sicuro), leggi di mercato (indiscutibili), crescita-progresso (l’alternativa è il medioevo). Decisiva è pure la recita regolare di anatemi e giaculatorie su fascismo e antifascismo, nazismo e olocausto, valori della resistenza e della democrazia. Canoniche litanie che l’incessante ripetizione rende verità incontrovertibili.

Il tronco della retorica contemporanea è quell’insieme di idiozie inutili – con cui educare utili idioti – che si dice il “politicamente corretto”. Religione di una borghesia perbenista e baciapile, che fa dei luoghi comuni i propri sacramenti. Nuova Chiesa da cui comprare le indulgenze per salvare l’anima e venir ammessi tra i ‘giusti’. Dalla sua linfa si sviluppa un intrico di rami, rametti e foglie, una catechesi frondosa che dà asilo a stormi di uccelli. L’uccello retorico infatti non è mai solitario, ma si muove e cinguetta in gruppi compatti, formando un coro unanime.

Non è l’arte degli antichi oratori o tribuni, la dialettica forte e persuasiva di chi predicava da un pulpito o da un balcone. Di solito non è una retorica magniloquente, ma miniloquente, sciatta e insinuante. È quella comunicazione di massa, brodaglia di banalità e menzogne, che il cervello digerisce quotidianamente, enfasi sottesa a certi fatti o a certe idee che non solo cambia la nostra percezione della realtà, ma interiorizza un farraginoso e coercitivo codice di comportamenti, un coagulo di regole.

Vedendo quelli che uscendo di casa indossano la mascherina, mi ricordo di quando, bambino, vedevo le donne mettersi il velo sul capo prima d’entrare in chiesa. Se considero l’utilità pratica di tali azioni, non trovo alcuna differenza. Entrambi sono gesti rituali, si inseriscono in un ordine simbolico al quale obbediscono. Entrambi esprimono la sacralità di un’ingiunzione – laica o religiosa – che diventa vincolante, a prescindere dalla sua reale necessità.

Allo stesso modo, dobbiamo preoccuparci della ‘sostenibilità’ e sentirci  profondamente allarmati per il cambiamento climatico e la CO2; provare un doloroso senso di colpa per la responsabilità ‘antropica’ nel surriscaldamento del pianeta e disporci a penose privazioni, anche se tutto ciò non ha alcun nesso con la realtà.

Dobbiamo aver fiducia in statistiche e sondaggi, in ciò che è accettato dalla ‘comunità scientifica’. Dobbiamo credere a una mitologia sanitaria, in virus letali e vaccini miracolosi, senso di responsabilità e rispetto degli altri, condividere questa incontenibile diarrea retorica, dare il nostro consenso a questo stupro demagogico.

Dobbiamo spingere i giovani a fare esperienze scolastiche e lavorative all’estero, ed esser lieti di poter veder figli e nipoti solo a distanza, nello schermo di un computer, perché se un tempo era un dramma venir sradicati dalla propria terra e divisi dalla propria famiglia, oggi è invece segno di emancipazione.

Dobbiamo avere una connessione ultra-veloce, sperare che un’intelligenza artificiale risponderà a ogni nostra domanda, anche quando non sapremo più cosa domandare.

Dobbiamo accettare le ‘diversità’, essere inclusivi, combattere l’intolleranza, la discriminazione, il razzismo, il sessismo, l’omofobia – forse in futuro anche la pedofobia e chi sarà contrario al cannibalismo – e saper trovare anche nella frase più innocente un incitamento all’odio.

Dobbiamo difendere la sessualità polimorfa, i migranti, i diritti civili, le pari opportunità, essere smart green, ecologisti e pacifisti, vedere in ogni cosa un pericolo, mettere tutto “in sicurezza”, aggiornarci, riqualificarci, digitalizzarci, coniugare “innovazione e tradizione”…

Attraverso una filastrocca di luoghi comuni, virtualmente infinita, ci viene in realtà trasmessa una rigorosa precettistica, una dottrina dell’azione, del pensiero e della stessa affettività, cui occorre attenersi. E dire che tale retorica contiene ideali apprezzabili – come la  solidarietà o l’altruismo – è un’obiezione illusoria. Scopo del moderno moralismo non è infatti la pratica di virtù morali ma dei loro surrogati teorici. Il parlarne esime dal porle in atto, ne nasconde l’assenza. E nella pratica tali valori vengono non solo disattesi ma rovesciati. Così, il pretesto di semplificare la vita ne esaspera la complessità, rendendo più difficile la vita ai cittadini, la retorica sulla pace induce effetti paradossali e violenti. E tanto ci preme il linguaggio civile e rispettoso, che siam pronti, come pudibondi Braghettoni, a  castigare, purgare, rettificare capolavori della letteratura, per tema che offendano la suscettibilità di qualcuno.

V’è però un aspetto più sottile e sostanziale, una sorta di machiavellismo al contrario in cui il mezzo giustifica i fini. Ad esempio, il progresso tecnologico, l’informatizzazione, la scienza, il mercato, la ricerca medica, la prevenzione ecc., sono tutti evidentemente dei mezzi e non dei fini, ma implicano in modo apodittico un carattere di utilità, di positività, che rende superflua ogni analisi degli scopi. Se il mezzo stesso diventa in sé un valore indiscutibile, appare incongruo aver dubbi sulle sue finalità.

In altri tempi la gente possedeva ancora un istinto critico, un distacco o disinganno che in certa misura la proteggeva, le concedeva di riconoscere il carattere posticcio, enfiato e millantatore delle prediche calate dall’alto, e di limitarne le pretese. Di fronte alle enunciazioni ampollose o melliflue, si poteva scrollare le spalle e infischiarsene. Per altro, la retorica s’immischiava solo in temi generali, lasciando l’amministrazione dei casi spiccioli e ordinari al buon senso e alla saggezza dell’esperienza.

Oggi una vischiosa pappa retorica cola invece su ogni aspetto della vita. Tale gelatina è diventata per tanti una sorta di balsamo contro il dubbio e l’assurdità dell’esistere. Non devono affaticarsi  a ricordare chi sono, a cercare un senso in sé stessi. L’essere, la verità, è sempre in qualcosa che altri hanno detto. Perciò non mettono alcuna distanza tra loro e la retorica del Sistema, non le oppongono alcuna ironia, anzi ne partecipano con seriosità devota e bigotta. Si bagnano nella sua melma subliminale come nel Lete, quasi fossero anime in procinto di reincarnarsi, vi “bevono sicure acque e lunghe dimenticanze”.

In quali corpi dovranno trasmigrare? Forse in apparati bio-digitali connessi a un Grande Algoritmo Centrale. In effetti, già sembrano incapsulati in un’intelligenza oltre-umana, assorbiti nel meta-pensiero che li controlla. Non è la loro anima a valutare opzioni e significati ma un’impersonale Mente-Alveare. Simile forse a quella noosfera di cui parlava Teilhard de Chardin, ma ristagnante d’una retorica fumosa, gremita dagli archetipi del mainstream. E col respirarne l’aria viziata le masse sviluppano quell’infezione di credulità infantile che è requisito essenziale per esser dominate.

Credo che nessuna peste abbia mietuto tante vittime quanto questa epidemia di luoghi comuni. Tessere di un mosaico retorico che annichilisce la libertà dell’uomo, lo priva della sua verità interiore per proiettarlo in un nulla di parole vuote. Solo alcuni fortunati ne sembrano misteriosamente immuni. Forse han contratto il morbo in gioventù, e dopo amari disincanti ne sono guariti. Spiriti scettici, anarchici o ribelli, forse riparati in luoghi incomuni come tra i vecchi muri di un castello. Son quelli che un giorno, come monatti, passeranno coi loro carretti tra le macerie dei luoghi comuni, a raccogliere i cadaveri della civiltà occidentale.

11 Comments

  • Livio Cadè 12 Marzo 2023

    Solo un’informazione. L’immagine sopra l’articolo è presa da una “Allegoria della retorica” di Artemisia Gentileschi, 1650.

  • José Ignacio 12 Marzo 2023

    Muy bueno. Un cordial saludo.

  • Gianni 12 Marzo 2023

    Articolo bello,interessante e disincantato.

  • Claudio Antonelli 12 Marzo 2023

    Un mio commento sull’uso dell’inglese…

    La lingua nazionale capta ed esprime lo spirito, l’anima del Paese e dei suoi abitanti. Ma la presenza di una caterva di parole come killer, badge, jackpot, tilt, pressing, stalking, question time, standing ovation, moral suasion, rider, writer, ecc. negli scritti italiani odierni, inclusi gli articoli che appaiono nei migliori quotidiani nazionali, pone l’insegnante d’italiano, soprattutto all’estero, di fronte a una situazione imbarazzante. A questi suoi allievi che vogliono imparare l’italiano anche perché attratti dall’idea, così lusinghiera per noi, di un’italianità ricca sia di forme che di suoni armoniosi, egli dovrà spiegare il perché di questo stridente, cacofonico, ridicolo fenomeno di scimmiottamento nei confronti di una lingua straniera.
    Gli italiani, sempre pronti al “copia e incolla”, potrebbero cercare di imitare lo spirito anglosassone, portato più del nostro al rispetto delle regole, alla chiarezza del linguaggio e al rispetto del cittadino cui è diretta la comunicazione. In Italia, persino il linguaggio di un semplice contratto di utenza è poco comprensibile per il comune dei mortali. Occorrerebbe semplificare la lingua del Potere, espungendo i termini spesso assurdi di cui è costellata. Ma la funzione del burocratese è proprio quella di tenere a distanza il cittadino, il quale, poverino, è oggi vittima anche di un burocratese a stelle e strisce che di certo non migliora il suo “welfare”.
    La nostra lingua, afflitta da un “borderline personality disorder” che non cessa di aggravarsi, rischia di andare “in tilt” – per usare quest’altra balorda espressione presunta inglese. Tale volontaria autoinondazione, lungi dall’essere prova di apertura di spirito e di adattabilità, di elasticità, di disponibilità verso ciò che di buono ci viene dal mitico “Estero”, è invece la triste cartina di tornasole dello straordinario sviluppo che ha conosciuto nella penisola il vizio antico dell’esterofilia.

  • Livio Cadè 13 Marzo 2023

    Signor Antonelli, il mio esempio sull’inquinamento linguistico era solo un pretesto per introdurre un problema più ampio. Ma Lei ha sicuramente ragione e l’elenco di termini anglosassoni che ci offre potrebbe allungarsi assai. Potremmo arrivare alla triste conclusione che tra quelle 500 parole che oggi formano il vocabolario dell’italiano medio un centinaio sono a stelle e strisce. È un parassitismo che rischia di rovinare quel poco che resta della nostra lingua.
    Alcune espressioni ce le inventiamo di sana pianta, come smart working, footing, lifting ecc. Poi vi sono anglicismi inutili (perché “home restaurant” e non “ristorante domestico”?) che entrano persino nel nostro sistema di legge (stepchild adoption, jobs act, deregulation ecc. fino al criminale green pass). Non è un normale fenomeno di prestito linguistico ma un processo di identificazione col Padrone e di squallida piaggeria culturale.E probabilmente fa parte di un progetto che tende alla distruzione della nostra identità nazionale.

  • Claudio Antonelli 17 Marzo 2023

    A proposito di “smart working”.
    “Smart working” per gli italiani equivale a telelavoro, lavoro da casa, lavoro a distanza; oggi resi possibile grazie alla telecomunicazione. “Lo smart working deve diventare la regola…”. “Smart working obbligatorio per tutti ma a 11 milioni di italiani manca la connessione” leggiamo sui giornali. Io non vedo come uno spazzino potrà da casa sua, servendosi del computer, spazzare strade e piazze. Il magico inglese maccheronico degli italiani sembra però rendere tutto possibile.
    La produttività in Italia non ha fatto che declinare in questi ultimi lustri? In Italia si pensa che adottando lo “smart working” il lavoratore riuscirà a recuperare, rimanendo a casa, il tempo fin qui da lui perduto sul posto di lavoro dove spesso guardava sul computer i siti porno o leggeva i giornali online.
    In lingua inglese “smart working” indica il semplice lavorare razionalmente, intelligentemente, in maniera da aumentare i risultati ma risparmiare gli sforzi. Un esempio di “smart working” è il lavoro flessibile, il cui orario elastico agevola gli impegni familiari del lavoratore. Quindi, “smart working” vuol dire “lavorare in maniera intelligente”, e non unicamente lavorare da casa usando la tecnologia, come intendono gli italiani.
    Al posto di “smart working” la Crusca propone “lavoro agile”. Ma l’espressione “lavoro agile” a me sembra più adatta a descrivere il lavoro circense, o quello dei borseggiatori, che non il lavoro fatto da casa col computer. Ma cosa volete: “lavoro agile” è la traduzione italiana sbagliata di un’espressione inglese, “smart working”, intesa anch’essa in senso sbagliato. Perché gli italiani non usano allora telelavoro oppure lavoro da casa, lavoro a distanza invece di smart working? Per la stessa ragione per cui chiamano “rider” il galoppino, corriere, fattorino in bicicletta, e “writer” il graffitaro o imbrattamuri: usano un inglese mal masticato e mal inteso che dà però loro un gran godimento.

    • Livio Cadè 17 Marzo 2023

      Personalmente trovo molto fastidioso il comunissimo “realizzare che” invece di “capire che”.
      L’uso di un termine straniero (to realize) è in questo caso totalmente ingiustificato, visto che abbiamo già una parola italiana che esprime lo stesso concetto.
      Inoltre, è improprio, dato che “realizzare” significa per noi un’altra cosa.
      Ma distorcere la nostra lingua è ormai un’abitudine, dà un certo tono.
      A me sembra invece una forma di masochismo linguistico.

  • Rosanna 18 Marzo 2023

    “Per andare sull’acqua nulla di meglio di una barca; per andare su terra, nulla di meglio di una carrozza. Pretendere di applicare i principi dell’antichità in un’epoca corrotta, non equivale a pretendere di viaggiare in barca su terra ferma?” Chuang Tzu

    • Livio Cadè 18 Marzo 2023

      Considerazione pessimistica ma condivisibile, che sembra rendere inutili i richiami ad antichi principi, come se potessero servire a qualcosa.
      In un’epoca demente, corrotta e incurabile come la nostra, forse la cosa più saggia da fare è ritirarsi in silenzio.
      O ritrovarsi con quei pochi che ancora parlano la nostra stessa lingua.

  • Michele 29 Marzo 2023

    Riguardo all’utilizzo delle parole inglesi, ho sentito recentemente un’opinione che mi ha fatto riflettere:
    quando si utilizza una parola inglese al posto di una italiana è perché esiste un significato oscuro in questa parola e non è opportuno approfondire l’argomento.
    Faccio un esempio: la parola hobby identifica un’attività non professionale per la quale non viene riconosciuta la cosiddetta serietà professionale ma solo un significato di svago.
    Il termine smart working o part-time working rappresentano forme di sfruttamento del lavoro o lavoro atipico per le quali non esiste un’adeguata legislazione o non esiste una forma di tutela al pari del lavoro ordinario.
    Insomma, quando nel nostro vocabolario troviamo una parola inglese, facciamo attenzione perché i significati nascosti potrebbero penalizzarne l’utilizzo.

    • Livio Cadè 29 Marzo 2023

      È una considerazione interessante, che andrebbe estesa e approfondita.
      Mi pare comunque indubbio che se traducessimo in italiano le varie espressioni inglesi che ci infestano ne percepiremmo il senso in modo diverso.

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