Nel 1956 ero troppo piccolo. Avevo dodici anni e, credo, facessi la seconda media alla scuola statale Daniele Manin, al di là della piazza dell’Esquilino. Le mie prime trasgressioni erano le sigarette senza filtro e portare la cartella di Lucia – con le trecce bionde il montgomery e i calzini bianchi – fin sotto casa sua, poco prima di Largo Leopardi. Schiavo fin da subito del fumo (me ne sarei liberato solo a fine agosto 1992) e del profumo di donna (che ancora mi fa dilatare le narici). Niente televisione (tardivo acquisto nel ’69), la radio (musica classica), il quotidiano di cui mi interessavo, forse, dei film in economici pidocchietti parrocchiali. Di quanto accadeva nel mondo solo vaghi ricordi, spezzoni di chiacchiere di mio padre a tavola. Ricordo le mie sorelle più grandi che avevano scioperato al ginnasio-liceo Pilo Albertelli (anch’esso oltre la piazza); gli idranti dal getto d’acqua colorata contro gli studenti sulle scalinate di Santa Maria Maggiore, le camionette, le grida, curioso spettatore dalla finestra della mia abitazione.
La rivolta d’Ungheria ebbe inizio il giorno 6 ottobre, al cimitero Kerepes, dove trecentomila persone vollero assistere alla tumulazione di Làszlò Rajk, con solenni funerali, riabilitato nel mese di marzo, insieme ai suoi ‘complici’ e fucilato sette anni prima dopo un processo-farsa con l’accusa di complottare con il maresciallo Tito, da poco scomunicato da Stalin, intenzionato di dare il via ad ulteriori purghe in tutta l’Europa centro-orientale. Ora, però, Stalin era morto e il ‘rapporto segreto’, il discorso tenuto dal Segretario del Pcus Nikita Chruscev al XX congresso del partito comunista (dal 14 al 24 febbraio ’56), ne svelava i crimini, il culto della personalità, le deviazioni, lo stesso ammonimento di Lenin sul letto di morte ove invitava il Comitato Centrale a deporlo in quanto, Segretario generale, per carattere e ambizione, poteva solo danneggiare la causa del partito e del socialismo. E, diffuso in forma latomica nei paesi socialisti, era arrivato in Occidente e pubblicato sul New York Times il 4 giugno tramite i comunisti polacchi, intenzionati a far conoscere quel documento già posto all’attenzione di dirigenti e attivisti tra speranze incredulità crisi di sconforto.
Si apriva allora, timida ed ambigua, l’epoca che ebbe nome di ‘disgelo’ (titolo di un romanzo di Ilja Erenburg edito nel 1954). La liberazione di diverse migliaia di internati nei gulag e la possibilità di raccontare i tanti orrori a cui erano stati sottoposti; una certa libertà di espressione degli intellettuali, coscienza critica del passato, pur nel divieto di coinvolgere il sistema in sé; la dialettica interna al partito dove giovani e capacità si imponevano sovente sulla sclerosi e i vecchi dinosauri dominatori delle strutture burocratiche… Qualcuno si spinse troppo avanti, interpretando l’apertura di Chruscev quale premessa per una sostanziale riforma del sistema sovietico. Fu un errore, pagato a duro prezzo. Più probabilmente egli intendeva limitarsi ad una modesta modifica dall’alto, delle supreme autorità del partito, per garantirsi maggiore capacità di manovra e mettere alle corde eventuali concorrenti. Denunciare i crimini di Stalin voleva dire che ormai le gerarchie di quel passato erano finite e che egli era ‘il nuovo che avanza’ (!) ossia il nuovo potere…
A Budapest furono gli studenti a mettere in moto la rivolta (questi piccoli borghesi che si nutrivano di libri sogni ideali e volevano vederli nascere in un’alba nuova rosso sangue) che seppe trasformarsi di popolo con il supporto degli operai e non soltanto come era nella logica dei sovietici e del partito comunista ungherese un passaggio interno di consegne, una resa dei conti, tra dirigenti caduti in disgrazia (Mathias Ràkosi, truce esecutore degli ordini provenienti da Mosca fu costretto a fare autocritica, evitare l’ira popolare e rifugiarsi in Unione Sovietica). Dopo essersi riuniti in assemblea il giorno 22 ottobre al Politecnico, presenti numerose delegazioni operaie e dai rappresentanti del Circolo Petòfi (l’associazione degli scrittori costituitasi in marzo con l’intento di dare libertà e ruolo alla cultura), approvata una piattaforma in quattordici punti, gli studenti indirono un corteo per il giorno successivo. Fu nella giornata del 23, verso le nove della sera, in via Sandor Bròdy, davanti all’edificio di Radio Budapest che, dai tetti, gli agenti della polizia politica, l’odiatissima AVH, spararono sulla folla. Ogni idea che conta chiede un tributo di sangue…
(‘Ricordo tu avevi un moschetto, su portalo in piazza ti aspetto/ nascosta fra i libri di scuola, anch’io porterò una pistola…’Essere piccoli borghesi non equivale necessariamente avere una coscienza borghese. In caso contrario saremmo figli proni al materialismo storico; a quella idea di coscienza, così sterile e vile e servile subordinata all’appartenenza di classe. Lasciamo a Marx, che non ha mai conosciuto il sudore della fronte e il lavoro manuale -, lasciamo a lui e ai suoi sodali l’idiozia di queste categorie mentali. Noi, nutriti dal mito dell’arditismo del legionario fiumano dallo squadrismo, noi anticonformisti antiborghesi e irriverenti, noi, al contempo, e anarchici e fascisti, folli e disperati, dipendiamo solo dalla mente e dal cuore. E ne abbiamo in avanzo…).
Della rivolta ungherese, mi sembra, ebbi a scriverne qui, su Ereticamente. Come in Strade d’Europa del mio pernottamento nella capitale magiara, estate del ’69, con Riccardo. E, mentre il generale Giap piccolo muso giallo umiliava i palestrati marines nelle risaie vietnamite e lungo il delta del Mekong, il sottoscritto al grido di ‘viva Ho Chi Minh!’ irrompeva nella stanza dell’ostello e veniva accolto fra le braccia e le cosce di una studentessa nordvietnamita, in verità bruttina e buzzicona, in nome della solidarietà anti-imperialista… No, non riproporrò quei giorni di ottobre del ’56 quando il sogno ungherese s’infranse sotto le ruote dei carri armati russi e l’Occidente si preoccupava del proprio benessere messo in discussione con l’intervento degli inglesi e francesi nel canale di Suez, finalmente nazionalizzato e ostruito dalle navi affondate per ordine del colonnello Nasser. Le vie del commercio il petrolio in primo luogo altro che quel piccolo popolo incastrato all’interno del potere sovietico! Sono pagine lontane, pagine vergognose. Chi in fondo ne porta il ricordo? Passeranno anni – la primavera di Praga; il crollo del muro di Berlino – prima che altri scenari si paleseranno come l’Ucraina e Putin e il Medio Oriente terreno di scontro tra Israele Siria terrorismo dell’ISIS e l’onnivoro stupido democratico modello USA… Pagine vergognose allora; pagine vergognose oggi.
La crisi di Suez. Il timore inglese di perdere anche in Medio Oriente un ulteriore brandello dell’impero ormai defunto; la Francia, umiliata nella conca di Dien Bien Phu (13 marzo-7 maggio 1954 l’ultima battaglia in Indocina combattuta dall’esercito francese) , timorosa di un contagio verso l’Algeria; Israele e il suo eterno cannibalismo… E l’Egitto, ‘rialza la testa, fratello, i giorni dell’umiliazione sono passati’, che scopre se stesso, la propria identità (il nazionalismo arabo), come ricorda lo scrittore Sélim Nassib ‘Nasser lasciò parlare la folla e rilanciò. Stava facendo una maratona. Parlò per due ore… in quel momento, davanti a tutti, diede la notizia, incredibile eppure così semplice. La intuii poco prima che pronunciasse le parole sulle quali non si poteva tornare indietro: il canale di Suez era nazionalizzato’. Anni dopo Maurice Bardèche, in Che cos’è il Fascismo, dedica un capitolo al regime instaurato da Nasser per trovarvi tracce del Fascismo ‘immenso e rosso’.
Non ho ricordato il 1956 per la percezione che si ebbe di un anno di rottura e di svolta, che – come sovente accade – porta in sé più di una verità ma anche qualche enfatizzazione e menzogna di troppo. Certamente il ‘rapporto segreto’ sui crimini di Stalin segnò una tappa nel processo, ancora lungo e complesso, di crisi del comunismo, un macchia di come una idea, considerata palingenesi della società, potesse essere deformata e ridotta a cieco terrore (o vi era insito con o senza Stalin?). La rivolta di Budapest confermò come la teoria dei due blocchi, delle sfere d’influenza ancora inalienabili (la logica di Yalta), era in vigore a tutto danno dei popoli (in Italia si sarebbe manifestata anni dopo con il terrorismo). Insomma: guai a chi tocca… E a Suez, se la vittoria delle armi fu degli anglo-francesi, quella politica spettò a Nasser, anche se il nazionalismo arabo subì negli anni a venire crisi profonde e cocenti sconfitte (un caso tutto a sé l’Algeria). Nessuna intenzione di una modesta succinta lezione di storia moderna (ho riconsegnato ormai dal 2009 il registro e tutti gli annessi tanto che mi sono rifiutato di mettere nuovamente piede a scuola). No. Più banalmente perché i due avvenimenti, quell’anno, mi hanno portato alla memoria una riflessione con cui si chiudeva un libro, ormai vecchio di quasi dieci anni, proprio sul 1956: ‘… l’immagine di svolta che quell’anno lasciò dietro di sé fu tuttavia importante: perché rese più consapevoli della complessità e delle interazioni della politica internazionale e perché mostrò come nessun accordo tra i grandi potesse impedire che i popoli cercassero di prendere in mano il proprio destino’.
Chiusura un po’ retorica e banale, forse. Perché il destino non si lascia, per sua natura, addomesticare. E’, però, nella storia e nella esistenza di ciascuno di noi l’arduo conflitto tra essere dominati e dominare gli eventi le scelte il futuro… E ciò, se vi sono momenti cruciali, vale in ogni luogo e in ogni tempo. Uomini in cammino e uomini acconciati. Gli uni, illusi forse, contro in nome del sogno e degli ideali; gli altri, di certo più numerosi e pigramente realisti, sudditi ignavi.