Tolstoj, accompagnato dal suo carrettiere, vide un giorno dei contadini intenti a scannare un maiale. L’animale ferito cercò di sfuggire ai suoi carnefici. «Vidi un corpo roseo, come quello di un uomo, e udii urla disperate. Il maiale fu ripreso, rovesciato, finito. Quando le sue grida cessarono, il carrettiere sospirò profondamente e disse: “ma non c’è un Dio?”».
Lo scrittore visitò anche il moderno mattatoio di Tula, rinomato per accelerare i processi di macellazione minimizzando le sofferenze degli animali. Così Tolstoj vede un bue frettolosamente stordito a colpi di mazza e scuoiato mentre ancora respira, geme e si agita. «Infine l’animale fu trascinato verso la carrucola e appeso. Allora solamente la bestia non diede più segno di vita». Ma a sconvolgerlo è anche la noncuranza degli assassini. «Il giovane macellaio, continuando a parlare, afferrò con la sinistra la testa dell’agnello e gli tagliò la gola. L’agnello si contorse, la piccola coda divenne rigida e cessò di muoversi. Il ragazzo, mentre il sangue colava, si riaccese una sigaretta, l’agnello sussultava ancora».
Dice Ovidio che la crudeltà sugli animali è tirocinio a quella sugli esseri umani. Tale concetto può esser rovesciato: il riguardo per gli animali è propedeutico al rispetto degli uomini. Ad esempio, sospendere la tradizionale strage di agnelli pasquali, cuccioli innocenti cui nessuno promette una resurrezione, sarebbe un gesto magnanimo e preliminare a quella virtù negletta che è il rispetto in senso lato della vita. Tuttavia, insuperabili ragioni sembrano impedirlo.
In primis, una banale frustrazione alimentare. I più non vedono motivo di privarsi dell’abbacchio per fisime idealistiche e delicatezza d’animo. La pietà per gli animali è per loro come la musica per i sordi. Altri possono essere teoricamente d’accordo, ma rinunciare per motivi etici a mangiare ciò che piace è per loro una scelta prossima all’eroismo e al martirio. E poiché la natura non li inclina a tali virtù, se ne sentono esentati. Vanno poi messi nel conto i profitti dei macellai e del settore ovino. Vi sono infine ragioni astratte, e per questo più potenti: l’offesa alla tradizione, il danno simbolico, il tradimento di un’identità culturale.
La pratica di sgozzare agnellini ci appartiene infatti fin da tempi remoti, quando i fumi dei teneri corpi salivano alle nari di un Essere irascibile che, disdegnando le offerte di vegetali, pareva gradire effluvi di carne bruciata, e che era d’uopo ingraziarsi. «Questo è il sacrificio consumato dal fuoco che offrirete al Signore; agnelli dell’anno, senza difetti, due al giorno, come olocausto perenne». È probabile che in tempi arcaici le vittime fossero umane, e che l’offerta propiziatoria di agnelli, tori o altri animali rappresenti l’adeguarsi del rito a una società fattasi eticamente più problematica.
L’uccisione d’un animale era infatti moralmente insignificante. Come dice san Tommaso “la divina provvidenza li ha dati (gli animali) a uso dell’uomo nell’ordine naturale, onde l’uomo se ne serve senza colpa, uccidendoli o adoperandoli in altra maniera. … Le piante son fatte per gli animali e gli animali son fatti per l’uomo”. Ragionamento chiaramente apodittico, che non serve dimostrare. La dieta carnivora non è vincolata alla necessità alimentare ma al superiore status metafisico dell’uomo, cui Dio ha concesso sovranità su ogni altra creatura. Tesi in parte smentita dal fatto che alcuni animali, forse per non aver letto la Summa Theologiae, non si sentono affatto sottomessi all’uomo e avendone l’occasione non esitano a mangiarlo.
Potremmo vedere, nella supremazia dell’uomo sugli animali, un’allegoria dell’intelletto che domina gli istinti e le passioni. Ma lo spirito pratico, digiuno di simbologia, non rinuncerebbe a una bistecca letterale per una metaforica. Inoltre, non possiamo metter in discussione l’idea di un “ordine naturale” in cui il superiore può, a suo piacere e senza colpa, disporre dell’inferiore, senza sconvolgere gli assetti e le geometrie della nostra civiltà. E sorprende che il principio che ci dà potestà sulle specie di più basso livello ontologico non ci abbia da tempo condotti al cannibalismo.
Una volta ratificata l’appartenenza di negri e indios a “razze sub-umane”, perché i coloni bianchi non ne fecero salsicce o spezzatini? Fu incoerenza filosofica, paura del paradosso, o forse la rimozione di un impulso inconscio. In fondo, dell’uomo s’è sempre fatta carne da macello. La Chiesa stessa, nel nobile sforzo di diffondere i principi evangelici e l’amore del prossimo, non ha mai trovato paradossale l’uso della violenza. Così, i cristiani hanno ammazzato ebrei e musulmani, i cattolici han potuto torturare e bruciare i protestanti, i protestanti hanno scannato i cattolici ecc., gareggiando in atrocità. Questo dimostra che, ad maiorem Dei gloriam, gli uomini possono, e talvolta devono, divorarsi fraternamente tra loro.
Ma a giustificare l’indifferenza verso le sofferenze degli animali v’è anche il crederli semplici automi biologici, dotati al più di un’anima volgare, destinata a scomparire con la morte del corpo. Ciò li segna con un degradante handicap metafisico, privandoli di quella dignità che compete solo alle anime immortali e che riteniamo privilegio esclusivo dell’uomo. Secondo l’Aquinate la prova evidente della loro caducità è che gli animali non desiderano una vita eterna. Tommaso non dice come può sapere cosa desideri un cane o un cavallo, forse reputando ovvio che l’anima di una bestia brami solo beni materiali. Tuttavia, non è ovvio che per essere qualcosa si debba desiderarlo. D’altro canto, l’aspirazione a essere immortali non equivale a esserlo realmente, come il desiderio di volare non fa di noi degli uccelli. E io conosco persone cui non importa affatto dell’eternità.
A favore della dieta carnea si citano anche incontestabili dogmi scientifici, secondo cui le proteine animali sarebbero necessarie all’accrescimento della massa muscolare. È vero che gli esseri più grandi e possenti sulla terra sono vegetariani, ma ciò dipende forse dalla loro ignoranza della scienza alimentare. Gli stessi gladiatori si nutrivano di cereali, ma oggi a che pro aver bicipiti e pettorali come quelli di un gorilla? Non dobbiamo più sopraffare il nemico in un rude corpo a corpo. Basta premere un pulsante per ammazzare milioni di persone.
Si può quindi dubitare degli argomenti su cui l’uomo poggia il diritto naturale o metafisico di maltrattare gli animali, e tale dubbio può avere certo implicazioni sentimentali, ma non per questo è irrazionale. “Bisogna riconoscere che è barbaro farli soffrire; è certamente solo l’abitudine che può diminuire in noi l’orrore naturale che nasce dallo sgozzare un animale che abbiamo nutrito con le nostre mani” scriveva Voltaire. Da Zoroastro a Schweitzer, molti hanno insegnato quel rispetto della vita che trascende le discriminazioni di specie. Non è però dalle dottrine moralizzanti o dai ragionamenti astratti che impariamo l’orrore e la pietà, ma solo dall’esperienza, da sussulti biografici, rovesci della coscienza.
A diciott’anni non mi peritavo di mangiar carne, né avevo mai pensato alle sofferenze racchiuse in una bistecca o in uno stinco di maiale. Avevo allora un enorme alano tedesco, Bluto. Un giorno andai al macello dov’ero solito comprar frattaglie per lui, senza immaginare cosa m’attendesse. La compassione è una Dea che ti afferra quando non l’aspetti! V’era là un tale che, con modi brutali, spingeva un vitello verso il mattatoio. Il povero animale recalcitrava, gridava in modo straziante, sembrava implorare pietà, come avesse sentito l’odore della morte e intuito il suo destino. Nel suo sguardo si confondevano la tipica tenerezza dei cuccioli e il terrore. L’uomo, spazientito, afferrò un randello e cominciò a menargli tremende legnate, ma il vitello continuava a rinculare. Arrivò un altro che, legatagli una corda al muso, si mise a strattonarlo con violenza mentre il compare lo bastonava. Finché, tra bestemmie e muggiti pietosi, lo trascinarono in quel luogo di supplizi dove, vinta ogni resistenza, poterono finalmente abbatterlo, scuoiarlo, squartarlo.
Mi chiesi quale necessità, quale ragione potesse giustificare un simile orrore. Quel vitellino era dunque venuto al mondo solo per essere strappato alla madre, immobilizzato in una gabbia grande quanto una bara e infine fatto a pezzi, trasformato in fettine di carne morbida e anemica sul banco di una macelleria? Forse me ne avrebbero venduto i visceri. Sepolto nel ventre di qualcuno, la sua anima si sarebbe persa nel nulla senza ritorno. Era questa la ragione per cui un vitello nasce, per cui Dio lo crea? In realtà, questo lo pensai dopo, a freddo. È difficile dire cosa mi passò allora per la testa. Anch’io, come il carrettiere di Tolstoj, fui scosso da una domanda cui non trovavo risposta. Il calvario di quel cucciolo mi aveva disarcionato sulla via di Damasco, destato rudemente dalla mia apatia. Fu allora che vidi per la prima volta il valore sacro d’ogni vita, anche di quella che ci sembra insignificante o spregevole.
Una sera, avendo messo un ciocco nella stufa, vidi un tarlo uscire da una fenditura del legno di cui, evidentemente, aveva fatto la sua casa. Si guardò intorno, colonne di fuoco lo circondavano. Si mise a correre, si fermò davanti a un muro bruciante, arretrò, cercò un’altra strada. Le fiamme gli bloccavano ogni via di fuga. Fu questione di secondi, ma quanto durano pochi istanti di terrore nella vita di un tarlo? Mentre calzavo il guanto refrattario per togliere il ciocco vidi l’insetto raggiunto e inghiottito dalle fiamme, e me ne sentii tristemente colpevole. Da allora, prima di buttar legna nella stufa, mi accerto che non vi abiti nessuno, con uno scrupolo che i più troveranno ridicolo.
Poi, invecchiando ho capito che l’orrore è uno dei volti di Dio. Il nostro cuore è un campo crematorio, dove si bruciano i sogni e le illusioni. Ma è proprio da questa terra riarsa che miracolosamente nasce il fiore della compassione. Ogni essere vivente porta il marchio della fame e della paura, del dolore e della morte. Tutti veniamo dall’Invisibile, dall’abisso originario, creature di un fiat misterioso. L’intuizione di questa fratellanza, che unisce l’uomo all’animale, genera la pietà come un’eco profonda e spontanea. In ogni vivente vediamo un effimero universo di emozioni, affetti, pensieri. Un verme non può scrivere poesie o esser teologo, ma non esiste essere, per quanto piccolo e umile, che non soffra e non desideri vivere. E ogni vita, ogni sofferenza, merita la nostra devozione.
Alcuni, il cui modello di vita son forse i grandi predatori, giudicano effeminato, sintomo d’una debolezza d’animo, concedere quest’attenzione alle pene degli animali. Chiudere il cuore dentro una fredda corazza è per loro segno di virilità. Questi apprendisti stoici, che sanno accettare coraggiosamente il dolore e la morte degli altri, diranno che compatire un vitello o un insetto è ubbia buona per giainisti come Gandhi, sognatori e idealisti. Il loro spirito realista insegna che a regolare il corso delle cose è la competizione, la legge del più forte. È questa la lex communis della nostra aggressiva, inclemente società. Perciò adoriamo l’Onnipotente Dio degli eserciti, il Baal dei sacrifici orrendi.
La misericordia divina attende, per manifestarsi, la nostra tenerezza. Scoto Eriugena dice che nell’uomo si compendiano tutte le creature. Rispettandole, l’uomo rispetta sé stesso. E la sua crudeltà su di loro colpisce la sua stessa anima, perché siamo “unità sostanziale”. Non si tratta di farne un estremismo ideologico, incuranti del reale e delle sue necessità, ma di sentire che è indegno dell’uomo togliere ad altri la possibilità di godere della vita e della libertà, anche quando gli altri sono maiali, vitelli o tarli.
Si dirà che con quel che succede nel mondo è assurdo preoccuparsi di agnelli sgozzati. Come se questo mondo, con la sua empietà, non fosse specchio fedele dei nostri atti, dei nostri pensieri. Siamo così assuefatti alla violenza da crederla naturale e necessaria. Troviamo umano ciò che è disumano. Quel giorno vidi l’ordinaria ferocia dei macellai, ma quella crudeltà veniva da lontano, dalla sorda indifferenza della gente, dal cinismo, da una ragione senza cuore. Quel vitello torturato non mi fece dubitare di Dio ma dell’uomo e di me stesso. Perché non è l’esser sapienti, potenti o immortali che ci rende umani, ma l’aver compassione. Per questo, quando quelle grida cessarono, pensai: “non c’è dunque un uomo?”.
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