Dopo lo splendido libro sulla teurgia e magia antiche di Giuseppe Muscolino, le Edizioni Ester mettono a segno un altro bel colpo con la traduzione italiana di un classico della letteratura storico-religiosa, il Mithra di Maarten Jozef Vermaseren, una grande opera di sintesi dedicata al più famoso dio indo-iranico, la cui fama misterica spopolò nel tardo ellenismo. Nell’esodo persiano seguito alla dissoluzione dell’impero achemenide a causa dell’impresa di Alessandro Magno, il culto dell’iranico Mithra, trapiantato in Asia Minore, assunse i lineamenti di una religione misterica, una religione di salvezza che prometteva un destino migliore nell’altra vita, dando all’uomo la speranza di poter ascendere, dopo la morte, attraverso le sfere celesti. Una devozione misterica, che tra il I ed il III sec. d.C. si diffuse capillarmente nell’impero romano. Quale propaggine occidentale di un arcaico culto indo-iranico, il mithraismo subì una trasformazione formale, smarrendo l’originaria fisionomia per assumere i modi e gli stili tipici dell’ellenismo. Il libro è arricchito da un lungo e prezioso saggio introduttivo del prof. Giancarlo Mantovani – che dello stesso Vermaseren fu discepolo – nel quale l’opera del maestro è aggiornata con approfondimenti riguardanti le origini e gli sviluppi del culto di Mithra. La fisionomia misterica del dio è infatti definita in relazione ai culti e dottrine che contribuirono alla sua diffusione (orfismo, ermetismo, gnosticismo, teurgia) da Oriente a Occidente.
Le origini del culto mithraico si ritrovano nei Veda induisti (Mitra) e nei testi dell’antica religione iranica, lo zoroastrismo (Mithra), in particolare nel decimo Yašt dell’Avesta cosiddetto recenziore (seconda metà del V sec. a.C.). Nella religiosità iranica Mithra è il dio dei contratti, e in quanto tale, si accerta che i contratti vengano rispettati, mappando il territorio e punendo chi non li rispetta. Tali caratteri sono affini a quelli del dio Varuṇa, col quale in India Mithra fa coppia (Mitravaruna). Questi tratti di Mithra appartengono alla tradizione vedica più antica. Di conseguenza Mithra, aggirandosi attorno alla terra per sorvegliare gli impegni contrattuali, si trasforma in un dio celeste e quindi in un dio solare. Inoltre, la missione di punire gli inadempienti lo muta in un dio giustiziere e guerriero; mentre la funzione condivisa con Varuṇa di apportatore di pioggia, lo trasforma in un dio creatore di vita, e quindi in un demiurgo. I tratti fondamentali che lo renderanno famoso come dio misterico. In Iran, nei rilievi sasanidi di Tāq-i Bustān (IV d.C.) Mithra è nimbato da un’aureola di raggi solari, col berretto frigio ricoperto di stelle, e i suoi piedi poggiano su di un fiore di loto, simbolo del Sole e della vita. E benché questo motivo iconografico sia caratteristico più dell’arte egizia e di quella indiana che di quella iranica, il suo significato legato al rinnovamento e alla cosmogonia sembra abbastanza chiaro.
Il Mithra che conosciamo dai Misteri è un dio che sgozza un toro, la cosiddetta tauroctonia, un atto molto violento spiegabile secondo il mito vedico del sacrificio della vacca primordiale. Mitra lega la vacca per i piedi, poi, anche se riluttante, la uccide insieme agli altri dèi. La stessa riluttanza fa sì che nell’iconografia dei Misteri il dio distolga lo sguardo mentre il suo pugnale fende la gola del toro. Qualcosa di simile si poteva vedere nella rappresentazione del sacrificio di Ifigenia attribuita a Timante, dove Agamennone, per non assistere all’uccisione della figlia, di cui era cosciente, si copriva il capo. Il soma in India – l’haoma in Iran – è, insieme, il latte della vacca primordiale e il liquido seminale del toro primordiale, in quanto entrambi lo hanno assimilato mangiando la pianta. Così il sacrificio si conferma come un atto cosmogonico, tanto più che il toro è assimilabile alla Luna, astro fecondante.
Nella parte finale del Bundahišn iranico (cap. 34 [Anklesaria, p. 226, 3-6]) assistiamo a un episodio simile, il sacrificio del toro Hatāyōš da parte del Sōšyans, il Nama Sebesio dei Misteri. L’haoma (> medio-persiano hōm) – il cui corrispondente indico è il soma, materia del sacrificio vedico – non è solo una pianta misteriosa dalle virtù palingenetiche, ma anche una divinità, uno yazata celeste al quale è dedicato l’omonimo Yašt. Nel tempo molti studiosi o semplici appassionati hanno identificato la mitica pianta con svariati tipi di piante psicoattive e non, tra cui l’Amanita muscaria e il Peganum harmala, oggetto di due famosi e discussi libri. L’haoma nel quadro cosmologico zoroastriano è il cibo escatologico preparato dall’ultimo «Redentore futuro», l’ultimo Saošyant- (> medio-persiano Sōšyans), la libagione perenne che fa risorgere i morti e rende immortali i viventi. Sempre da un’area di influenza iranica, l’Armenia, deriva un racconto epico su di un personaggio, anche linguisticamente, affine a Mithra, cioè Mher, un eroe gigantesco che, dopo aver combattuto tutti i nemici si trova a combattere anche contro il proprio padre. Maledetto dai genitori, si reca sulla loro tomba per implorare perdono e consiglio. Essi lo invitano a dirigersi verso una roccia nella pianura di Van. Lì giunto a cavallo, colpisce con la freccia un corvo, costringendolo a rivelargli l’entrata. La roccia si apre, e all’interno vi trova due fiaccole eternamente accese (i dadofori dei Misteri). Il racconto prosegue dicendo che l’eroe esce dalla grotta solo una volta l’anno, la notte dell’Ascensione, per cibarsi della manna che cade dal cielo, che nutrirà lui e il suo cavallo per l’intero anno. La missione di Mehr è quella di sorvegliare ininterrottamente la sfera del destino, roteante all’interno della grotta. Quando essa cesserà di girare, Mher uscirà dalla roccia per distruggere il mondo. Parecchi elementi – difficile da confutare – appartengono alla mitologia del Mithra dei Misteri.
È credo diffuso che Mithra giunse a Roma assieme ai pirati cilici fatti prigionieri. Alcuni di essi, a quanto pare, diventarono coloni, integrandosi perfettamente col resto della popolazione romana e ciò dovette contribuire notevolmente alla diffusione del nuovo culto. D’altra parte la nuova religione non poteva essere accettata a Roma prima di subire nuove trasformazioni e integrazioni. Dal momento che Plutarco (Pompeo, 24) parla esplicitamente di teletai = «misteri» a proposito delle cerimonie mithriache dei pirati cilici, si può dedurre che il mithraismo arrivò a Roma già sotto questa forma. Ma non si può escludere che Plutarco reinterpreti e retrodati il mithraismo dei pirati.
Esiste infine l’enigma dei legami tra il mithraismo e gli Oracoli caldaici, sorta di Bibbia magica dei neoplatonici di cui ha parlato il Muscolino nel citato libro sulla teurgia. Secondo Giorgio Gemisto Pletone, cui si deve l’unica testimonianza in questo senso, gli autori degli Oracoli avrebbero adottato Mithra collocandolo al posto del secondo intelletto. Giorgio Gemisto (1355 ca.-1452) cultore di Platone al punto di voler assumere il nome di Pletone, che ricorda quello dell’antico filosofo, è una figura ancora oggi persa nelle nebbie del mito; egli ascriveva agli Oracoli una grande autorità, attribuendone la composizione al profeta della più antica religione iranica, Zoroastro (Zarathuštra), e interpretandoli come fondamento di una filosofia e di una religione future, universali, che sostituiranno ogni altra fede nell’ecumene.
Ezio Albrile
Maarten J. Vermaseren, Mithra. Il dio dei misteri, prefazione di Giancarlo Mantovani, traduzione dal francese di Barbara de Munari, Edizioni Ester, Bussoleno (Torino) 2017, pagine 343, 22.00 Euro.