Arte vera la fa chi ne conosce l’origine, la scaturigine, anche scrivendo racconti dell’orrore, letteratura non alta secondo la critica borghese e illuminista. Come Arthur Machen (1863-1947) che fu ben più di un genio riconosciuto nella letteratura del fantastico, ammirato da H. P. Lovecraft e da Stephen King. Lui fece appunto vera arte, ne conosceva l’origine, sapeva che la poesia nasce da preghiera e incantesimo, il racconto dal mito e il teatro dal rito.
Nei racconti fantastici di Machen paiono evidenti i riferimenti ad esperienze del metafisico realmente vissute, il reale viene trasfigurato da potente immaginazione creatrice, con atti di magia più meno consapevoli. Quando manca la consapevolezza sono nefasti per la quotidianità dei protagonisti, per la loro vita fisica, per la salute mentale. Ne “Il grande dio Pan”, in quel decamerone vittoriano intitolato “I tre impostori”, c’è il superamento dei limiti del reale, ci sono rotture di livello, ma il prezzo da pagare per inesperienza o scarsa pietas è sempre altissimo. Il risvegliare qualcosa che non si sa domare è un tuffarsi in acque corrosive sconsigliabili ai più degli uomini.
Machen lo aveva imparato leggendo i mistici e i maghi del passato, per conto suo. Poi si era affiliato alla Golden Dawn, pur rimanendo nella cerchia più esterna ed evitando coinvolgimenti nella diatriba che vide contrapporsi Aleister Crowley e William Butler Yeats. Ma fin dall’infanzia gallese, come suggeriscono i suoi passi più autobiografici, deve aver sperimentato istanti puri e pieni, eternità di un attimo in cui si è altrove veramente, in un altro mondo, nei pressi dell’origine dei mondi. Uno stato di coscienza e veggenza astrale, che permette di esperire spiriti elementali, fate, elfi, gnomi. Le leggende celtiche son forse segnali di quegli attimi sacri donati a bimbi e a druidi. Come l’attimo pieno e puro del meriggio in cui si manifesta il tutto, il dio Pan. Non solo celtismo, infatti, in Machen, ma anche un’insistito rimando al mondo greco-romano, in particolare proprio alla civiltà dell’Urbe. Roma affiora e prorompe anche in La collina dei sogni finalmente riedito dalle edizioni Il Palindromo nella storica traduzione di Claudio De Nardi, con un suo saggio e una nota biografica su Machen e, a completare la felice pubblicazione, un’introduzione di Gianfranco de Turris.
Lucian Taylor, il giovane protagonista, fa l’esperienza capitale della sua vita, incontra l’altra dimensione, l’amore eterico che trasfigura, il dio Pan che esalta e rapisce per l’altrove, in una collina britannica, fra le rovine di un forte romano. Come gli Stilnovisti italici prima di lui ha proiettato il suo desiderio su una ragazza reale, una contadina del posto poco più grande di lui. Quel proiettarsi non ha nemmeno bisogno di un concreto contatto fisico, perché il vero amore, il più intenso, è amore eterico, nutrito dalla fantasia creatrice dell’astrale. L’amplesso meridiano, non fisico ma con effetti più che fisici, trasforma definitivamente Lucian. Da quel momento non sarà facile inserirsi nella realtà quotidiana, con sue scadenze ed esigenze. Lo respinge il borgo natio, posseduto da ambizioni e formalità di provincia. Lo respinge anche la metropoli, la Londra decadente, abbruttita, industrializzata e intimamente sabbatica in cui Lucian fugge per affermarsi come scrittore.
Qui Machen ricorda le difficoltà dei suoi esordi, il terrore della pagina bianca, le ispirazioni fulminanti e le notti insonni a scrivere capolavori poi sbiaditi con la luce dell’alba. Scrivere è difficile, è atto di magia. Rendere giustizia delle proprie esperienze e dell’Esperienza con le parole è arduo. Come vivere, in fondo. E quando si riesce nell’impresa non è detto che gli altri se ne accorgano. Perché il mercato di romanzi e racconti è intasato di narrazioni rassicuranti e banali, di realismo ingenuo. Non c’è posto per Lucian in quel mondo. Non c’è posto al mondo per lui, ormai. Perché il mondo si spalanca, la quotidianità deraglia, si dissolve e lui si ritrova in un villaggio romano, con visioni e sensazioni che echeggiano la letteratura di Apuleio e Petronio. E i bassifondi di Londra fanno da contraltare a quella serenità mediterranea, con le loro orge moderne di male indemoniati, di donne fatali solo nel distruggere.
L’anima elevata soffocata dal gregge, lo scrittore disadattato, fuori dal ciclo produttivo, disconosciuto in quanto bardo, è un uomo non pratico. Come non pratici sono i santi, secondo Léon Bloy. Pronti dunque al martirio, alla testimonianza di altro mondo esperibile. L’elevazione sarà dunque testimoniata dalla deriva alla Dostoevskij, alla Poe. Fino all’abuso di droga, al suicidio, al capolavoro sconosciuto, che mai verrà letto da alcuno se non dalla donna angelo conosciuta nel meriggio della vita.
Machen offrì con questo capolavoro (tale lo consideravano sia Henry Miller che Maurice Maeterlinck) non solo un esempio di grande letteratura ma un avvertimento più volte ribadito da tutti i saggi: i sogni desti son potentissimi, occorre molta attenzione per pilotarli bene e non farsi trascinare in luoghi e stati d’animo non voluti.
Luca Negri