Qualcuno ha voluto ironizzare parlando di un primo caso di “Coranovirus”, ma in realtà l’arrivo in Italia di Silvia Romano non è stata solo una festa. Sono bastate le prime dichiarazioni della cooperante liberata e i pochi metri percorsi, dall’aereo di Stato all’ingresso dell’aeroporto di Ciampino, per suscitare un nugolo di roventi polemiche.
Infatti, il suo jilbab, abito lungo a largo indossato dalle donne musulmane per rispettare il precetto coranico della modestia femminile, di colore verde, che simboleggia l’Islam, non è passato inosservato. Tanto più che, secondo le notizie che hanno preceduto il suo arrivo, la giovane aveva rifiutato di cambiare quel vestito e la nostra diplomazia e la nostra intelligence non erano riuscite a evitare che atterrasse indossando il velo. Questo perché Silvia, come ha espressamente dichiarato all’arrivo, si era volontariamente convertita all’Islam, senza costrizioni ma per sua libera scelta.
In queste condizioni, il suo rientro in Italia, dopo mesi di trattative e coinvolgimenti internazionali, accompagnato dal risalto mediatico, con la presenza di uomini dei servizi italiani mimetizzati e l’accoglienza ufficiale del premier Conte e del ministro degli Esteri Di Maio, non poteva essere archiviato come un normale fatto di cronaca e anche la sua figura e ogni suo gesto sono stati immediatamente spiati, analizzati e commentati.
La parte di Paese che si riconosce nel conformismo buonista della sinistra ne ha fatto subito la nuova eroina italiana, altri ne hanno contestato con virulenza le scelte.
Lasciamo da parte le idiozie comunistoidi alla Vauro che, nel corso di una trasmissione televisiva, in uno stato di esaltazione stizzosa, pretendeva che il Paese fosse orgoglioso (perché?) e ringraziasse (di cosa?) Silvia Romano e quelli come lei. Certi miserabili pagliacci non meritano neppure la minima attenzione.
Ma poiché anche a destra le manifestazioni di solidarietà verso la Romano sono state molteplici, occorre verificare almeno le ragioni addotte per sostenere la sua condotta.
Due argomenti, in particolare, hanno tenuto banco: la conversione è un fatto privato e la libertà di culto è garantita dalla nostra Costituzione; è ridicola la pretesa di un dress code per le rapite, che vengono criticate se rientrano vestite come arabe.
In sostanza, chi attaccava Silvia per la sua adesione all’Islam e per il suo abbigliamento era un risibile cretino o, peggio, un bieco odiatore (da tastiera).
Su questa linea si sono schierati giornalisti e politici, mentre sui social singoli commentatori, un autorevole esponente di FdI, e persino vecchi camerati, reduci da un passato denso di milizia scontata a caro prezzo, hanno espresso pareri sconcertanti.
Appare strano come sia sfuggita proprio a costoro la rilevanza politica di una conversione così manifestamente ostentata che, sebbene maturata in una situazione di cattività e di coercizione, avrebbe dovuto indurre alla cautela.
S’è parlato di sindrome di Stoccolma, di privazioni fisiche e psicologiche, di uno spirito labile e di un’assenza di certezze, di una scorciatoia tattica e di un’ancora di salvezza alla quale aggrapparsi per evitare peggiori condizioni di trattamento.
Se così fosse, ne saremmo lieti.
Perché, altrimenti, se quella conversione così ostentata fosse realmente volontaria, cioè se l’adesione a quel particolare Islam conosciuto in quella particolare situazione fosse una scelta consapevole, non ci troveremmo affatto al cospetto di un fatto privato da considerare alla stregua di una libertà di culto costituzionalmente garantita.
Piuttosto, quella conversione implicherebbe l’adesione alla visione del mondo e alle finalità che ispirano le azioni delittuose dei fanatici di Al Shabaab, come degli altri gruppi terroristici islamisti; quella conversione implicherebbe l’accettazione della dottrina assassina dei tagliagole, che si esprime in atti terroristici e devastazioni, nel massacro di cristiani, nella distruzione di chiese, nell’infibulazione delle donne, l’indottrinamento dei fanciulli e, appunto, il rapimento di ostaggi; quella conversione avrebbe perciò un’enorme rilevanza pubblica e politica.
Allo stesso modo, un abito islamico ostinatamente indossato ed esibito non va contro un ideale “dress code” da passerella di rapita liberata, come ironizzava un’ormai confusa giornalista ex missina, ma va esattamente contro il sacrificio e l’impegno di tutti quelli che per quella liberazione si sono adoperati, hanno rischiato personalmente e hanno speso le loro energie.
Quel vestito e quella conversione, perciò, possono apparire come un schiaffo a quei soccorritori e anche a tutti gli italiani.
Fare certe precisazioni e certi distinguo sarebbe spettato alle due evanescenti figure istituzionali, quel premier e a quel ministro degli Esteri, che accogliendo la Romano, invece, non hanno pronunciato una parola sulle cause della vicenda né si sono espresse contro l’orrore del radicalismo islamico.
Per questo, senza scadere in attacchi volgari, appare più che normale che qualcuno si sia indignato e abbia avanzato critiche alla Romano, al governo, alla gestione dell’intera faccenda e, soprattutto, a certa ideologia umanitaria e ipocrita che sostiene questi viaggi e dipinge il soccorso in certe aree a rischio come il seguito infantile di un Erasmus globale, in stile Peace&Love.
E’ l’ideologia delle ONG che traghettano clandestini dall’Africa in Europa; è l’ideologia che sorregge le avventure di ragazze totalmente incapaci, senza una qualifica professionale né attitudini che le rendano utili e necessarie nel Terzo Mondo a svolgere qualsiasi ruolo, di medici, infermiere, chirurghi, ostetriche, veterinari o genericamente tecnici; è l’ideologia di una Silvia Romano, improvvida e impreparata, ma testardamente decisa a seguire le proprie infatuazioni e la visione risibile di aiutare i bisognosi, che però non sono mai il prossimo più vicino ma sempre quello più lontano ed esotico; è l’ideologia di chi pensa che anche soccorrere sia una strategia politica, come accadde con le volontarie catapultate in Siria e Iraq – Greta e Vanessa e le due Simone – le volontarie anti Assad, che costituiscono altrettanti precedenti di questa vergognosa sceneggiata; è l’ideologia che diventa spregevole quando applica un altro metro di giudizio a figure, davvero eroiche, come quella di Quattrocchi o ai nostri due marò del San Marco sequestrati a suo tempo in India.
Abbiamo tutto il diritto di dichiararci contrari a questo andazzo e di indignarci di fronte alla passerella della Romano e alla gestione demenziale di queste vicende.
Pretendiamo che questa sia l’ultima volta che l’Italia paghi un riscatto milionario per salvare l’incosciente di turno, un riscatto che finanzierà il terrorismo assassino e procurerà solo nuovi lutti e nuove sofferenze a popolazioni già martoriate.
E rispondiamo, alle obiezioni dei vari cretinetti, che per “Aiutiamoli a casa loro” s’intende l’operare nell’ambito di una cooperazione internazionale, progettando interventi mirati e piani di sviluppo, ma non significa sguinzagliare a caso frotte di “vispe Teresa” all’inseguimento della strampalata vocazione di salvare il mondo.
Perciò, dal momento che è corsa voce che Silvia Romano vorrebbe tornare in Africa, così come volevano tornare in Siria e Iraq le altre volontarie liberate, pretendiamo che si scordi ogni ulteriore intervento economico da parte nostra e che prima di partire si rivolga alla mamma aggiornando la richiesta del bimbo, di una vecchia canzone del Quartetto Cetra, che voleva andare in America: “Mamma mia, dammi 4 milioni che in Somalia voglio tornar …”.
Ecco se l’accollino mamma e papà.
Enrico Marino