10 Ottobre 2024
Filosofia Libreria Tradizione

Massimo Donà ed Julius Evola: apologia dell’immediato – Giovanni Sessa

Julius Evola, considerato autore irredimibile e, per questo, relegato nel ghetto dei reprobi, da qualche tempo ha suscitato l’interesse di un drappello sparuto di coraggiosi accademici. Tra essi, si è distinto il filosofo Massimo Donà, che ha attraversato, sine ira et studio, l’esperienza speculativa del pensatore romano. Per avere contezza dei risultati cui è giunto in tema, il lettore dovrà confrontarsi con il volume, Apologia dell’immediato. Itinerari evoliani, nelle librerie per   InSchibboleth (per ordini: info@inschibbolethedizioni.com, pp. 187, euro 18,00). Fin dal titolo si evince come Evola vada letto in sequela agli assunti della sinistra hegeliana. Con una differenza, egli ha fatto: «della categoria dell’immediatezza […] un compito, più che un semplice e astratto punto di partenza» (p. 13).

La filosofia evoliana è ultrattualista, sorse quale tentativo di superamento del limite meramente gnoseologico incontrato dall’attualismo. L’atto puro del pensatore di Castelvetrano per Evola non è mai compiutamente realizzato, è entità di conoscenza, ma non potenza attiva. Attraverso il recupero di Fichte, nota Donà, nella contrapposizione di Io e non-io, l’idealista magico avverte qualcosa che non ci: «limita affatto definitivamente» (p. 17), oltre la quale è possibile riconoscere un’ulteriorità cui tendere. Siamo chiamati da questo oltre e ciò rende evidente: «il suo far già parte della mia (nostra) esperienza» (p.18). Tutto quel che è, esiste in quanto posto dall’Io: l’incontro con il mondo innesca lo sforzo. Il limite agisce da motore dell’Io, permettendogli di essere, a tutti gli effetti, atto sempre all’opera. L’Io gentiliano tale situazione l’aveva conosciuta, mentre Evola vuole renderla reale, fattiva. Va mostrato, nelle cose, che l’oggetto non è altro da noi! Allo scopo esso va trasfigurato ma, si badi, la sua trasfigurazione è possibile a condizione che l’Io stesso si metamorfizzi. Se l’azione trasmutante si fosse manifestata solo nei confronti del mondo, Evola sarebbe rimasto all’interno della prospettiva della Sinistra hegeliana, al prassismo di Marx. Il filosofo romano è ben più radicale, sa che l’Io: «in quanto incondizionato, non può venire identificato con alcuna forma» (p. 21), deve negare ogni norma inconfutabile, sottrarsi ad ogni imperativo, anche quando a vincolarlo: «dovesse essere la stessa incondizionata libertà» (p. 22).

L’individuo assoluto incapace di trovar pace in un positum, pur non essendo limitato, non manca del non-io, non esclude il limite. Tale situazione lo induce a ri-fare, ri-fondare, alla luce della infondatezza del principio, la libertà, sé stesso ed il mondo. Ciò rende il pensiero evoliano alieno dal dualismo discendente dalla logica identitaria e, come ben spiega Donà, nonostante l’influenza che sul romano esercitò Carlo Michelstaedter, l’individuo assoluto non conosce l’aut-aut, analogo a quello eleatico, che connota la Via del Persuaso. La Via dell’individuo evoliano, non esclude la «rettorica», la Via dell’altro. Per Evola: «in ogni singolo momento del suo processuale esistere, l’Io deve poter non essere mai stato ciò che è stato», senza che il già-stato risulti invalicabile. In ciò, il Nostro, chiosa Donà, è davvero nietzschiano: vuole all’indietro. L’impossibile è: «volontà capace di volere il passato; allo stesso modo in cui tutti noi, di norma, ci sentiamo autorizzati a volere il futuro» (p. 59). Tale contesto esegetico-esperienziale fa si che il già-stato assuma i tratti di ciò che ancora non è stato. Parliamo di esperienza perché Evola fa, in più luoghi del proprio percorso, esplicito riferimento alla tradizione ermetica, al magismo, quali forme di pensiero-azione atte a realizzare la possibilità dell’impossibile. La stessa che attualizza nel suo fare ogni poietes, ogni artista. Da ciò la straordinaria interpretazione della musica jazz fornita da Evola, fin dagli anni Trenta. Il filosofo, nota Donà, comprese, meglio del «progressista» Adorno, che tale tipologia musicale, evocante forze di pura azione e di puro ritmo, poneva gli uomini nuovamente al centro di evocazioni menadiche e, tanto negli strumentisti, quanto nei fruitori, era in grado di indurre un potente incipit vita nova. Così Donà: «proprio nel jazz questa capacità di affermare e negare in uno – senza che il negare si ritrovasse costretto […] a risolversi […] nella semplice indicazione di “altro” positivo – stava ridando voce alla vera Tradizione» (p. 144).

La perfezione musicale nel jazz non è pensata come l’al di là dell’imperfezione, ma è continuo farsi, re-invenzione. Le riscritture sono altro dalla staticizzante partitura che, a livello musicale, svolge il ruolo attribuito, in logica, al concetto:  sospendere nella datità escludente la metamorficità della vita. Per questo, le riscritture jazzistiche risorgeranno a vita «assoluta»: «proprio in quanto rigorosamente nuova (e). E proprio per questo davvero “originante(i)» (p. 146). Non solo il jazz, ma le produzioni Dada, movimento artistico nel quale Evola svolse un ruolo teorico-pratico di primo piano, testimoniano la medesima tendenza a sintonizzarsi sulla vita nova, l’eterna primavera dionisiaca. La negazione Dada per Evola è sintonica a quella dell’idealismo magico, è l’Io stesso: «che si realizza in un “potere di arbitrio assoluto”» (p. 84), in pura indifferenza. Diversamente dal precedente hegeliano, in Evola la potenza negatrice non si trasforma in strumento di un’affermazione superiore, in un nuovo universale positivo, ma indica la «pura libertà». Essa ci dice che tanto il fare in un certo modo, quanto il non fare, sono la medesima cosa. La Gioconda o un biglietto di tram, hanno la stessa valenza artistica, perché Dada attribuisce allo spettatore tratto demiurgico.  Ricorda Donà, nel capitolo dedicato al confronto Evola-Jünger, che il filosofo-mago agisce-senza-agire, consapevole della presenza in lui di una forza che pur presentandosi come volontà, non lo è. Essa si dà nella «prova» dell’amore, nella quale l’individuo assoluto si mostra capace di amare: «ognuna delle alterità istituite dalla sua stessa volontà» (p. 35).

   Tali tematiche si evincono anche nella dottrina della razza di Evola. Questi non ebbe, in tale ambito, nulla in comune con la visione biologica, naturalista, «zootecnica» del nazismo, la sua concezione, sostiene Donà, rinvia, sia pure con una certa ambiguità, al «possesso della personalità», allo spirito, a valori aristocratici. Anzi, ci dice l’autore, Evola dice qualcosa di straordinario: «che a fare una razza […] non è altro che la forza in grado di farla procedere al di là di se stessa. Aprendola alle più inusitate contaminazioni» (p. 171), una «razza assoluta», proprio come l’individuo, che diviene tale oltre se stessa, oltre ciò che la «de-finisce». Questo secondo Donà, sarebbe il cuore antifascista del fascismo, o il fascismo utopico di Evola, tradito da quello storicamente realizzatosi. La Via dell’Individuo assoluto avrebbe potuto essere davvero il cuore antitotalitario e tradizionale del regime, ma così non fu…

   Il libro di Donà ripropone all’attenzione critica, con forza speculativa e persuasività di accenti, la Via evoliana, attuale nella sua inattualità.

Giovanni Sessa

 

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