Non abbiamo troppa simpatia per Sergio Mattarella, presidente protempore (un tempo lunghissimo) della Repubblica Italiana. Divergenze politiche, ma soprattutto distanza caratteriale. Ci appare come un siciliano sbagliato, ombroso per quanto la sua isola è piena di luce, chiuso, triste, estraneo alla vitalità debordante della sua gente. Forse per l’educazione gesuita, lo abbiamo sempre paragonato a certi preti siciliani della letteratura, don Pirrone del Gattopardo o padre Landolina di Pensaci, Giacomino di Pirandello. Sin dall’aspetto, dal linguaggio e dalla postura, esprime un atteggiamento notabilare, fatto di incontri riservati, toni felpati, distanza dal popolo. Sensazioni, niente di più.
Non riusciamo a non associarlo alla figura paterna, quel Bernardo Mattarella protagonista di una lunga – non sempre limpida – stagione politica iniziata con lo sbarco alleato in Sicilia del 1943. Sergio fu ministro della Difesa nel governo di centrosinistra presieduto da Massimo D’Alema che nel 1999 bombardò la Serbia al di fuori – non siamo gli unici a pensarlo – della lettera dell’articolo 11 della costituzione. Era il tempo dell’America gendarme del mondo e delle “operazioni di polizia internazionale”. È evidente l’antipatia tra il presidente e il governo in carica, nonché il ruolo – improprio, se si può ancora dire – di garante di alcuni poteri internazionali, ereditato dal suo predecessore, Giorgio Napolitano il comunista più amato dagli americani.
Infine, al di là delle persone fisiche dei presidenti, ci dà fastidio l’impossibilità di criticare atti e dichiarazioni del Quirinale, passibili di denuncia penale per la persistenza del vilipendio, “figura di reato prevista dal Codice penale, consistente nell’offendere con parole, scritti o atti di grave e offensivo disprezzo valori ritenuti particolarmente degni di rispetto.” (Treccani) La critica motivata, espressa con toni civili e linguaggio equilibrato, dovrebbe essere sempre ammessa. Lo afferma l’articolo 21 della Carta.
Stavolta, al contrario, ci troviamo d’accordo con le parole pronunciate dal presidente in occasione del 2 giugno, festa della repubblica di cui è il massimo rappresentante. Dopo il pistolotto istituzionale – un dovere d’ufficio assolto con la consueta morbida maestria – Mattarella ha invitato gli italiani a partecipare al voto dell’8 e 9 giugno perché “con l’elezione del Parlamento europeo consacreremo la sovranità dell’UE”. Nessun errore, nessuna voce dal sen fuggita: il presidente, dall’alto di mezzo secolo di politica e di una cattedra di diritto costituzionale, non è uso a infortuni o gaffe. Voleva proprio affermare quel che ha detto. Perciò siamo dalla sua parte: chi dice la verità, per quanto indigesta, va ringraziato. Il docente di diritto non sbaglia: la sovranità non appartiene al popolo – italiano, serve ribadirlo – ma ad altri.
L’elenco è lungo e l’Unione Europea è solo una delle istituzioni che ci comandano. Potremmo ricordare, tra le altre, la NATO (le armi hanno sempre l’ultima parola e Mattarella lo sa almeno dai tempi di Belgrado), la Banca Centrale Europea (anche il potere del denaro conta, come sanno gli italiani con le tasche svuotate dall’euro e dal debito pubblico) i vincoli imposti dai trattati internazionali e da entità come l’Organizzazione Mondiale del Commercio, l’OMS per quanto riguarda la sanità, dai protocolli riservati imposti dopo la guerra perduta.
Con sincerità altrettanto ammirevole (o l’arroganza di chi rappresenta un potere inscalfibile) Mario Monti, senatore a vita, banchiere, ex capo del governo e turista non per caso a Madrid alla riunione del Bilderberg, ha pubblicato un libro che diventerà un oracolo per il giornalismo e la politica mainstream, Demagonia, cioè – se capiamo bene – agonia del popolo. Vecchia storia: i popoli sono ignoranti, disinformati, sudati e un po’ puzzolenti: molto meglio che decida per tutti il sinedrio di color che sanno. In quel senso, il richiamo alla sovranità dell’Unione Europea è un atto di onestà di cui lo schivo inquilino del Quirinale va ringraziato. Strano che l’unico esponente politico che ha osato criticarlo – Claudio Borghi – sia stato sommerso da improperi, contumelie e dal coro dei finti indignati di ogni tendenza. Perfino il capo del suo partito ha dovuto prendere le distanze. Che cosa ha detto di tanto urticante? Semplicemente ha rammentato che la sovranità – secondo Costituzione – appartiene all’ popolo e non all’UE. Se non è più così, poco senso ha la persistenza del presidente di una Repubblica senza sovranità, ossia, per parlare chiaro, senza potere.
Ma si sa, la verità è troppo nuda: non si può guardare, tanto meno descrivere. Invero è inconsueto che un presidente inviti direttamente al voto, per di più nella giornata in cui si festeggia l’istituzione che incarna, segno che i segnali di disaffezione verso la politica in genere e in particolare verso la casta europea, sono davvero pesanti. Attraverso i prefetti e i “servizi”, il presidente ha informazioni di prima mano. Prendiamo molto sul serio le sue parole, ma preferiamo quelle scritte dal più importante filosofo italiano vivente, Giorgio Agamben. Il titolo è dirompente: Europa o l’impostura. I cittadini, al momento di votare “possono credere più o meno in buona fede di star facendo qualcosa che corrisponde all’elezione dei parlamenti dei paesi di cui sono cittadini. È bene subito chiarire che le cose non stanno assolutamente così. Quando si parla oggi di Europa, il grande rimosso è innanzitutto la stessa realtà politica e giuridica dell’Unione europea. Che si tratti di una vera e propria rimozione, risulta dal fatto che si evita in tutti i modi di portare alla coscienza una verità tanto imbarazzante quanto evidente. Mi riferisco al fatto che dal punto di vista del diritto costituzionale, l’Europa non esiste: quella che chiamiamo Unione europea è tecnicamente un patto fra stati, che concerne esclusivamente il diritto internazionale.” ( www.quodlibet.it)
Il testo definito costituzione europea è solo una somma di trattati, “elaborato da commissioni di burocrati senza alcun fondamento popolare”. Il Trattato di Lisbona del 2007 è un accordo tra governi, “la cui sola consistenza riguarda il diritto internazionale e che ci si è pertanto guardati dal sottoporre all’approvazione popolare. Non sorprende, pertanto, che il cosiddetto parlamento europeo che si tratta di eleggere non sia, in verità, un parlamento, perché esso manca del potere di proporre leggi, che è interamente nelle mani della Commissione europea.” I suoi membri sono giustamente chiamati commissari, ossia soggetti cui sono affidati poteri operativi, diretti. La Commissione (per mezzo di una potentissima burocrazia lobbista) legifera attraverso “regolamenti” immediatamente esecutivi in tutti gli Stati, direttive da recepire obbligatoriamente nel diritto nazionale (pensiamo alla direttiva Bolkenstein sui servizi, che sta uccidendo l’imprenditoria balneare) , decisioni e raccomandazioni.
Tutto ciò sfugge al potere degli Stati e del costoso simulacro – un’impalcatura teatrale – detto parlamento europeo. La sua funzione è legittimare la Commissione; i suoi beneficiari sono gli oltre settecento membri, i loro collaboratori e il numerosissimo, strapagato apparato di supporto. Agamben rigira il coltello nella piaga quando osserva che “la sola parvenza di unità si raggiunge quando l’Europa agisce come vassallo degli Stati Uniti, partecipando a guerre che non corrispondono in alcun modo ad interessi comuni e ancor meno alla volontà popolare. L’Unione europea agisce oggi come una succursale della NATO (la quale è a sua volta un accordo militare fra stati).” Ecco l’impostura di “chi impone ad altri di credere cose aliene dal vero e operare secondo quella credulità”. La conclusione è un atto d’amore: “un’altra idea dell’Europa sarà possibile solo quando avremo sgombrato il campo da questa impostura. (…) Se vogliamo pensare veramente un’Europa politica, la prima cosa da fare è togliere di mezzo l’Unione europea, o quanto meno, essere pronti per il momento in cui essa, come sembra ormai imminente, crollerà. “
Vedremo se Agamben sarà stato buon profeta. Intanto, dobbiamo osservare che, nonostante nell’opinione pubblica serpeggino opinioni e sentimenti anti UE, nessuno se ne fa interprete. È questa la democrazia rappresentativa? Ha dunque ragione Monti con la sua Demagonia? Nessun partito mette in discussione i fondamenti reali dell’Unione, la sua natura oligarchica, la scarsa democraticità, l’adesione acritica all’ordoliberismo (il liberismo economico e finanziario fatto legge) il potere immenso della BCE e dei suoi funzionari, sciolti a norma di trattati da responsabilità e leggi. Nessuno mette seriamente in discussione la prevalenza del diritto dell’Unione – chiamato acquis, acquisizione (definitiva, intangibile) su quello nazionale. Diventano grottesche le intemerate sulla “costituzione più bella del mondo” (copyright di un comico, Roberto Benigni) non solo inapplicata, ma assoggettata alle norme “unionali”. Tutto quel che ha saputo fare il sedicente parlamento europeo, in cui le maggiori forze politiche, popolari, socialisti, liberali e anche conservatori, votano allo stesso modo nel novanta per cento dei casi, è chiedere che l’aborto sia un diritto fondamentale, come in Francia.
Nessuna candidatura italiana ha nel programma – irrealizzabile per via parlamentare per i motivi esposti – di modificare la struttura economica (liberista) dell’Unione, di mettere in forse il potere della BCE, di restituire potere ai popoli. Di che parlano, allora, i partiti? Fanno la faccia feroce sui rispettivi temi di riferimento per radunare le residue tifoserie e portarle ai seggi. Unici motivi di interesse saranno la percentuale di votanti – che potrebbe per la prima volta essere inferiore al cinquanta per cento – e il gradimento dei partiti in chiave nazionale.
Mattarella ha colto nel segno: la sovranità non è più nazionale e popolare. Forse ce lo ha voluto dire in modo obliquo, metà curiale e metà gesuitico. Grazie per la franchezza, presidente. Forse poteva andare fino in fondo e rammentare che la tendenza al superstato oligarchico e postdemocratico, postcristiano e globalista viene da lontano, dal Manifesto di Ventotene del 1943 che prefigurava un’Europa dirigista, con popoli che dovevano essere rieducati e guidati da “esperti”, i tecnocrati alla Mario Monti. È la vittoria postuma di Ventotene, costruita, dopo la stagione di Adenauer, Schuman e De Gasperi, da mondialisti alla Jean Monnet, inviso al patriota francese De Gaulle, e poi da esponenti del pensiero elitario liberalprogressista come Jacques Delors, l’architetto dell’Unione nella sua forma odierna.
Europa dei mercanti, dei tecnocrati e dei banchieri senza patria contro l’Europa dei popoli, delle nazioni, erede di trenta secoli di civiltà. Caro Presidente, è proprio questo che volevano i “padri della Patria “da lei evocati e prudentemente non nominati? Peccato davvero che non possano rispondere. Chi scrive diserterà con dolore le urne per assenza di chi ne rappresenti le ragioni (o i torti, fa lo stesso). Triste scelta, lo sappiamo, gradita ai potenti, al di là delle parole. Ma chiunque vinca servirà interessi e principi stranieri, ovvero estranei. Non in mio nome. Magra consolazione, l’unica rimasta.
copertina: l’Espresso