E’ tempo di prepararsi alla visione di dio. Per la prima volta dal suo ingresso nel terzo regno Dante sale da un Cielo all’altro in modo cosciente: s’accorge di Beatrice che lo spinge lungo lo scalone dorato di Saturno, e, in meno del tempo che impiega un cristiano a tirar via il dito dal fuoco per non bruciarsi, comprende di essere approdato nell’Ottavo Cielo, quello delle Stelle Fisse.
Il resoconto prelude ad un ulteriore innalzamento della materia e del grado di crescita spirituale del poeta, il quale, uscendo dalle forme-pensiero legate ai paradigmi conosciuti del Tempo e dello Spazio, si appresta ad entrare nella dimensione della pura Luce.
Com’è noto l’essere umano è composto da cinque corpi (fisico, mentale, emotivo, spirituale, Sé superiore) e il passaggio da un livello energetico all’altro implica la ricerca di sempre nuovi equilibri, un’investigazione che nel caso di Dante può contare sulla collaborazione di aiutanti «speciali». A partire dal suo segno zodiacale, i Gemelli, a cui il poeta dedica un inno di ringraziamento che è tra i più toccanti dell’intero poema. “O gloriose stelle, o lume pregno / di gran virtù, dal quale io riconosco / tutto, qual che si sia, il mio ingegno, / con voi nasceva e s’ascondeva vosco / quelli ch’è padre d’ogne mortal vita, / quand’io senti’ di prima l’aere tosco” (Pd XXII 112-117).
Dante ripensa al cammino compiuto, certo ne ha fatta di strada. Guarda giù e osserva il meraviglioso scenario delle sette sfere sottostanti (Pd XXII 134), cioè i sette pianeti attraverso i quali è passato, tutti incredibilmente grandi e veloci (Pd XXII 148). In fondo scorge un puntino insignificante, “l’aiuola che ci fa tanto feroci” (Pd XXII 151), cioè la Terra con tutti i suoi dolori, e solo adesso capisce ciò che Beatrice aveva tentato di spiegargli fin dalla Luna.
Il Divino ama tutti ma è legato in modo diverso alla materia, dunque la “virtù informante” risulta distribuita in modo diseguale persino agli astri, ognuno dei quali ha la sua particolare storia evolutiva e perciò appare diverso dall’altro per qualità e dimensione. Per esempio l’Ottavo Cielo è talmente pregno di virtù che su di esso non c’è posto per i beati, motivo per cui il prossimo candidato da esaminare sarà proprio lui: san Pietro testerà il suo grado di fede, san Giacomo lo metterà alla prova sulla speranza, san Giovanni valuterà il livello di carità dopo avergli tolto la facoltà visiva.
“Di’, buon Cristiano, fatti manifesto: / fede che è?» (Pd XXIV 52-53), chiede Pietro. Premesso che l’appellativo “buon cristiano” era usato a quell’epoca dai Catari per indicare chi aveva ricevuto il consolament, Dante risponde: la fede dà sostanza alle cose sperate e rende possibile argomentare su ciò che non si vede, mi sembra che sia questa la sua essenza.
Pietro non s’accontenta, e rilancia: come mai Paolo ha posto la fede tra le “sustanze” e poi tra gli “argomenti”? All’esaminando non sembra vero di poter superare il passo paolino e offrire la sua personale visione: la realtà celeste per i terrestri è talmente complessa, dice, che essi possono solo credere alla loro esistenza e affidarsi all’alta speranza, che dunque prende il nome di sostanza. Chiaramente non tutti ottengono in vita l’“altra vista” e raggiungono certi traguardi, ma chi (come me) ha tanto «visto e sentito» possiede fede e certezza, oltre a credenza e speranza (Pd XXIV 69-78).
Qui è necessario fare una digressione poiché troppo spesso le parole «credenza» e «fede» vengono scambiate per sinonimi, non essendolo affatto. Ciò di cui parla Dante è la fede-shraddhā del Vedismo, cioè l’intima convinzione che rende superfluo persino il sostegno degli dèi. La mia fede è “sì lucida e sì tonda”, dice il poeta a Pietro, che nulla e nessuno può indurmi a dubitare (Pd XXIV 86-87). Ergo: faccio da solo, grazie.
I dubbi che spesso lo assalgono riguardano non tanto la «fede», che è pura luce, quanto più la «credenza» che porta con sé fuorvianti fissazioni. “Io credo in uno Dio / solo ed etterno, che tutto ’l ciel move, / non moto, con amore e con disio; […] e credo in tre persone etterne, e queste / credo una essenza sì una e sì trina, / che soffera congiunto ‘sono’ ed ‘este’” (Pd XXIV 130 e ss.).
Alla luce di Pietro si unisce quella di Giacomo, iconica rappresentazione della speranza, che domanda a Dante: la grazia divina ti ha concesso di visitare il Paradiso da vivo affinché una volta tornato sulla Terra tu riferisca agli uomini la speranza che hai veduto quassù; ma quanto conosci questa virtù? Abbastanza, è la risposta; essa è l’attesa fiduciosa della futura beatitudine, ovvero della felicità eterna in Paradiso cui si aggiungerà il recupero del corpo dopo il Giudizio Universale, come del resto ha confermato Giovanni ponendo nell’Apocalisse i beati vestiti di bianco davanti al trono di dio. Va da sé l’apprezzamento dell’autore alla missione dei combattenti-crociati.
Sentendosi chiamato in causa Giovanni appare avvolto in una luce accecante, è curioso di sapere per quale motivo il poeta ritenga il suo Vangelo più illuminante di ogni altro. La replica di Dante non si fa attendere: questa scrittura mi ha indotto ad ardere di carità, distogliendo la mia attenzione dai beni terreni per dirigerla verso temi fondamentali quali ad esempio la reale esistenza del mondo e di me stesso, la morte sofferta da Cristo per la salvezza dell’umanità, la speranza della vita eterna, la compassione per ogni creatura amata da dio.
Da vero eroe solare (spirituale) Dante supera le tre prove dimostrando il possesso delle virtù teologali. In premio riceve l’incontro con Adamo che si trova in Paradiso senza Eva, accusata di avere ceduto alle lusinghe del Serpente Antico, nonostante dai libri sacri degli iranici emerga un’altra verità. Ma qui la carne al fuoco è fin troppa, non è il caso di aggiungerne ancora, e comunque Dante si era già sbilanciato sull’argomento accennando al Serpente che “forse” diede ad Eva il cibo amaro (Pg VIII 98-99).
Estasiato il pellegrino osserva le quattro luci (Pietro, Giacomo, Giovanni, Adamo) che risplendono davanti ai suoi occhi in modo indicibile. Improvvisamente la fiamma di Pietro prende forza e parte l’invettiva più dura e violenta di tutto il poema contro il Vaticano trasformato in una sordida cloaca.
Pietro freme di sdegno al pensiero che la sua effigie sia stampata sui documenti con cui vengono venduti i privilegi e i benefici ecclesiastici. “Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, / il luogo mio, il luogo mio, che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio, / fatt’ha del cimitero mio cloaca / del sangue e de la puzza; onde ’l perverso / che cadde di qua sù, là giù si placa” (Pd XXVII 22-27).
L’ira di colui che fu il primo papa è tale da contagiare tutto il cielo, che s’accende di rosso mentre Beatrice “trasmutò sembianza”. Alla fine Pietro assicura: la punizione della Provvidenza divina sarà tremenda! Quanto a te, dice poi rivolgendosi a Dante, bada bene di non nascondere ciò che hai veduto quassù una volta tornato sulla Terra: “e tu, figliuol, che per lo mortal pondo / ancor giù tornerai, apri la bocca, / e non asconder quel ch’io non ascondo” (Pd XXVII 64-66).
Sembra di assistere al terzo ed ultimo atto dell’Opera Alchemica, l’Opera al Rosso. Gli ingredienti ci sono tutti: duplice ascesa (al divino e con il divino di cui parlano anche i testi indiani riportati in auge da Aurobindo) e conseguente discesa, spiritualizzazione e ri-materializzazione, solve et coagula. In coda la consueta esortazione: il regno dei cieli va costruito sulla Terra attraverso la vita spirituale, fondamento di questo e dell’altro mondo.
Dopo la sfuriata la virtù che brilla negli occhi dell’Angelo/Beatrice spinge Dante nel Nono Cielo, definito il “real manto di tutti i volumi / del mondo” (Pd XXIII, 112-113), cioè l’involucro trasparente che avvolge tutti i Cieli sottostanti e l’intera materia dell’Universo. Attorno ad esso vi è solo “luce e amor”, precisa Beatrice, poiché il Primo Mobile, o Cristallino, “non ha altro dove / che la mente divina” (Pd XXVII 109-110).
Circondato dall’Empireo questo cerchio costituisce il riflesso immateriale e ardente di dio, è cioè il “miro e angelico templo / che solo amore e luce ha per confine” (Pd XXVIII 54). Riaffiora dalla sua luce un altro fiume sotterraneo che percorre tutta l’opera dantesca, quello della simbologia numerale. D’altra parte questo è il suo habitat giacché il Cristallino è l’essenza della forza che stabilisce gli intervalli celesti, definisce gli orari e la durata degli eventi, forma i cicli novenari espressi dai numerosi ritorni delle triadi, più o meno moltiplicate.
«Sette» sono i cieli planetari, più il cielo delle Stelle fisse e il Primo Mobile fa «nove». Il «sette» e il «nove» sono per l’appunto l’espressione del protagonismo numerico e dell’interpretazione matematica del cosmo che l’Occidente medievale prese a prestito da strutture arcaiche riconducibili a tradizioni eurasiatiche ben più remote.
Il Sole ha compiuto «nove» rivoluzioni dal giorno della nascita di Dante, quando a «nove» anni incontra per la prima volta Beatrice. «Nove» anni dopo lei gli appare per la seconda volta, e l’ora dell’apparizione è esattamente la «nona» del giorno. Il nome di Beatrice viene collocato al nono posto nella lista delle più belle donne di Firenze, e via dicendo.
Il «nove», insomma, si addice a Beatrice. Il poeta dice chiaramente che “questa donna fue acompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere ch’ella era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade” (VN 19 6; XXIX, 3).
Beatrice è un «miracolo» in un luogo, il Paradiso, dove i cosiddetti «miracoli» non esistono. O, almeno, così ha detto san Pietro nel cielo delle Stelle Fisse. Accrescendo la sua luminosità di cielo in cielo questa figura angelica è dunque un miracolo nel miracolo e perciò era prevedibile che il suo numero identificativo corrispondesse all’Enneade, il «Grande Splendore» della tradizione egizia, emanazione della radiante vitalità di Atum-Ra, radioso simbolo di Unità nella Molteplicità.
Tutti i Cieli sono mossi dal Nono perché qui il tempo “ha le sue radici”. Quale tempo? Il «tempo astrologico», come dimostra l’immagine astro-vegetale dell’Albero rovesciato (aśvattha) che lo raffigura. Un simbolo che viene dalla Siberia e dall’India, scende in Melanesia e risale fino a Platone, prima di giungere a Dante che fa dire a Beatrice: “(…) e come il tempo tegna in cotal testo le sue radici e ne li altri le fronde, omai a te può esser manifesto” (Pd XXVII 118-120).
Guidata dall’intelligenza dei Cherubini, che fungono da cinghia di trasmissione, la vita dell’intero Universo contenuta nel Primo Mobile viene distribuita in misura variabile alle sfere celesti, paragonate da Dante alla corona di un albero le cui radici sono volte in alto: “… in questa quinta soglia / dell’albero che vive della cima, / e frutta sempre, e mai non perde foglia” (Pd XVIII 28-30).
In sintesi la figura dell’Albero rovesciato domina le ultime pagine del Paradiso: le radici di questo enorme axis-mundi sono infisse nella deità del Primo Mobile (il motore del cosmo) mentre i rami ricadono a cascata nel manifestato (le sfere dei pianeti sottostanti), dai quali l’influenza (virtù informante) viene comunicata agli esseri del mondo sub-lunare.
Dal Nono Cielo discende dunque il famoso concetto di circolarità, ovvero il succedersi delle Età che incessantemente determinano nel mondo nuove interruzioni e concedono nuovi inizi riproducendo sulla Terra gli archetipi celesti, le congiunzioni e le configurazioni, forme note all’umanità fin dai primordi e già ampiamente sfruttate come misuratrici di tempo perdurante all’infinito e infinitamente riproponentesi.
In tutto ciò l’uomo non sta a guardare ma attraverso il processo vitale della vegetazione (fioritura, foliazione, fruttificazione) partecipa al movimento promuovendo in se stesso il fenomeno ciclico della vita esteriore ed interiore. La stessa totalità psico-fisiologica dell’individualità umana può essere considerata un «microcosmo verticale», per questa ragione la Baghavad Gîtâ parla di «albero umanizzato», ovvero di un’entità con l’intelligenza contenuta nel tronco, i nervi posti nelle cavità interne, le impressioni nei rami, le buone e le cattive azioni nei frutti e nei fiori.
Detto questo il Primo Mobile si configura come il mediatore ideale tra l’uomo e dio, partecipando ad entrambe le nature: prima si rende responsabile delle scansioni cicliche che animano il percorso di vita dell’essere umano, poi le riconsegna nelle mani dell’unico vero Cronocratore che muove i lenti corsi planetari e il tempo ciclico, gli anni e le stagioni.
Concetti come «cronologia», «ciclicità» ed «eternità» occupano da sempre la mente dell’uomo, il quale strada facendo ha immaginato forze superiori capaci di «distruggere» periodicamente il mondo per poterlo «rifare» daccapo. Si pensi ad esempio al dio Shiva, il Grande Distruttore che danzando supera il passato (senza dimenticarlo) e crea un nuovo presente.
Vita, morte, rinascita. Lo stesso Dante muore e rinasce in soli sette giorni passando dall’infelicità del peccato allo stato di grazia, mortificandosi e rialzandosi continuamente, crescendo via via. Al lettore dice senza mezzi termini che per uscire dall’indistinto e rientrare nella «forma vera», quella dello Spirito, non bisogna risparmiarsi né avere paura, ma soprattutto è necessario ignorare il mondo che fa di tutto per tirare verso il basso i temerari che osano spingersi verso l’alto.
Queste semplici regole di buon senso oggi sono ignorate. L’uomo del XXI secolo odia ogni fatica e adora crogiolarsi nella sua tana (pomposamente definita comfort zone), non per niente ha delegato la sua crescita a dei replicanti fatti di nanotubi di carbonio, grafene, nanoparticelle inorganiche e polimeri conduttori. Un’operazione chiaramente velleitaria, che non funzionerà. Il mulino cosmico non macina fili elettrici e terre rare, accetta solo anime e materiale biologico.
Elementi come noi, insomma, che palpitando in sintonia con l’universo seguono il «battito» accelerato della Terra attraverso le onde alfa del cervello e gli stati theta. Chi non ha la sensazione che il Tempo stia correndo all’impazzata e le ore del giorno volino via trascinandosi dietro gli eventi della nostra vita? Ebbene, non si tratta di suggestione: le frequenze di Shumann (le risonanze elettromagnetiche globali) sono davvero raddoppiate.
Difficile dire se stiamo andando verso la resurrezione planetaria di cui parlano tutti i testi tradizionali, sappiamo tuttavia di essere vicini a una nuova inversione magnetica dei poli. Il grande Ciclo di 26mila anni che governa il processo di trasformazione è in dirittura di arrivo, nonostante l’evento si stia verificando in un clima di generale indifferenza.
Anticamente ci si preparava spiritualmente agli accadimenti che comportavano mutamenti nel corpo fisico, le variazioni di frequenza erano attese e temute, mentre oggi ci si accontenta di sciorinare in modo asettico numeri che lasciano il tempo che trovano. Ciò nonostante sembra molto probabile che il DNA verrà presto promosso a 12 filamenti, avremo un corpo più leggero, diventeremo più intuitivi, saremo spinti dal magnetismo terrestre ad entrare in una vibrazione superiore, la tecnologia perderà valore e smetterà di funzionare. La prospettiva di voltare pagina dovrebbe riempirci di gioia, ma impegnati come siamo a mettere in fila le brutte notizie trascuriamo le poche cose che contano.