Cos’è davvero Megalopolis? Semplicemente un film, o qualcosa di più? O di meno?
Scrivere delle classiche recensioni non ci ha mai interessato, ma per il film di Francis Ford Coppola, in modo particolare, sentiamo che sia assolutamente inutile. E non amiamo nemmeno scrivere delle stroncature, ma ci preme partire da un’opera per volgere poi lo sguardo alla società in cui viviamo, a noi stessi. Perché l’arte, anche quando non è eccelsa ci racconta sempre qualcosa di noi. E poiché quando quel qualcosa non ci fa molto piacere, ci crea resistenza e cerchiamo di allontanarlo dalla coscienza, ecco che allora deve essere qualcun altro a parlarne, a puntare la luce dove noi vorremmo che restasse l’oscurità.
Strabordante, disorganico, sfilacciato, stordente, didascalico, falsamente poetico, fintamente epico, troppo americano anche quando sembra non esserlo, troppo avanguardistico, senza riuscire a staccarsi da certi stilemi “classici” del cinema. Potrebbero essere queste le espressioni per definire l’ultimo film di Coppola.
Con un magma narrativo che non trova la quadratura del cerchio, ma anzi si disperde in troppi rivoli, sarebbe servita perlomeno una regia energica ma composta, capace di risultare introspettiva. Fatta più di quadri, larghi e stretti, di misurati movimenti di macchina. Così da provare a creare un universo, tanto esteriore che interiore. Invece si è ceduto all’utilizzo spropositato di una macchina a mano, senza punti di riferimento, di un montaggio frenetico che non lascia modo allo spettatore di entrare veramente nelle scene e nei personaggi.
I cromatismi danno molto risalto ai gialli che da un lato sottolineano il senso di decadenza, di annoiata lussuria, dall’altro esprimono calore, armonia, senso di una speranza per il futuro. Questi ultimi rappresentano gli ideali che muovono il protagonista, Cesar Catilina, interpretato da Adam Driver. A questi si alternano e si combinano anche colori più decisi come i rossi o freddi come i blu. Quasi a voler creare una dissonanza, un contrasto e un’ambiguità. Immediati tornano alla mente vecchi lavori di Coppola come Apocalypse now o anche il più “commerciale” Un sogno lungo un giorno, entrambi con la fotografia di Vittorio Storaro. Lì l’uso della luce e dei colori aveva un significato voluto e preciso, diremmo psicologico più che simbolico – perché i simboli hanno carattere metafisico e non banalmente psicologico – ma in ogni caso il risultato era convincente e non “sbandierato”. In Megalopolis si percepisce la medesima volontà, ma manca l’arte.
Sorvolando sulla trama, proponiamo allora qualche spunto di riflessione capace di chiamarci in causa, di provocarci benevolmente.
Nelle citazioni forbite declamate di tanto in tanto dai personaggi, nelle targhe esplicative di cui il film fa uso, nei discorsi che lasciano poco spazio all’immaginazione si evidenzia il tratto didascalico di quest’opera. Nel voler superare i “limiti” del cinema e dell’arte così come siamo abituati a pensarli, nel voler guardare a temi “alti”, filosofici, dentro una cornice di “fiaba” – così viene definita l’opera nel quadro che apre i titoli di testa – notiamo come però la materia incandescente sia caduta dalle mani. La grandezza infatti non sta semplicemente nel pensare qualcosa, ma nell’essere riusciti ad assimilarlo, nell’averlo fatto nostro, al punto da riuscire a dargli vita, a “partorirlo”. Se così non è si finisce per costruire un saggio con le forme dell’opera artistica. Un ibrido, una mostruosità.
Ma allora torniamo al tono didascalico e facciamo un po’ i conti con noi stessi, con questa società. Cos’è una scena se non l’unità di base con cui si compone un film, nella quale osserviamo delle azioni e ascoltiamo i dialoghi dei personaggi all’interno di uno specifico luogo/ambiente? Certo, ci possono essere talvolta scene senza dialoghi o prive di azioni, diciamo “significative”, ma il senso generale resta immutato. E tali azioni e dialoghi sono i piedi e le gambe con cui avanza e si costruisce la storia. Concorderebbero tutti su questo. E ci teniamo a confermare che è anche quello che si insegna in ogni scuola di cinema. Almeno qui da noi in Occidente. Ma proprio qui sta uno dei problemi.
Noi con estrema fatica accettiamo la possibilità – perché ovviamente è solo un che di potenziale e nella storia del cinema gli esempi sono assai pochi – che una scena sia molto più della somma dei suoi elementi: azione, dialoghi, sonoro, immagine. Che essa possa, o debba, avere un significato soprarazionale e non esplicabile a parole, ma solo intuibile con i sensi superiori. Che essa possa divenire capace di mostrare il non mostrabile, evocare il non immediatamente sperimentabile. Vale a dire che essa riesca a far cadere, seppur per un momento il velo fra il visibile e l’invisibile, fra il detto e l’impronunciabile. Che essa sappia evocare la dimensione immateriale di questa vita, che sia in un certo senso poetica. Perché la poesia prima ancora di essere una specifica forma d’arte, è la modalità con cui l’anima guarda il mondo. Già, l’anima.
«Non c’è nessuna forma d’arte come il cinema per colpire la coscienza, scuotere le emozioni e raggiungere le stanze segrete dell’anima» diceva Ingmar Bergman. Ma appunto noi cosa sappiamo dell’anima? Qualcuno può dire senza mentire prima di tutto a se stesso di sperimentarsi come anima e di relazionarsi col mondo tramite essa, con il “suo” sguardo? La risposta è ahimè scontata, ma proprio per questo l’urgenza della domanda resta. Se volessimo trovare un’altra espressione per definire la società nella quale siamo nati e cresciuti, potremmo dire che è una società che violenta l’anima dall’inizio alla fine.
Regna, non a caso, l’informazione. Il suo linguaggio è lineare, orizzontale, immediatamente comprensibile, masticabile, replicabile e fatto per essere diffuso ovunque. Il linguaggio della vera arte invece non può essere immediatamente decifrabile, contenibile dentro schemi razionali, perché la vera arte è per sua natura “più che umana”. Ma noi a questo linguaggio ci siamo sempre più disabituati: artisti e pubblico. Vogliamo solo qualcosa che facilmente comprendiamo, che non ci elevi, che non ci provochi rompendo i nostri schemi di pensiero. Allora, quando tentiamo di salire in “più alte sfere”, oltre il piano della mera esistenzialità, cadiamo facilmente nel didascalico. Perché il linguaggio che lassù si parla, che è il linguaggio dell’anima, non lo conosciamo più, non lo mastichiamo più.
Del resto, dei film ci interessa quasi esclusivamente il contenuto. Ma questo può al massimo, ma resta comunque riduttivo, andar bene per un articolo di cronaca, non certo per un’opera d’arte. Ci interessa se veicola disvalori, ideologie o se al contrario è “pulito” e per le famiglie, se svela complotti o verità nascoste. Quest’ultimo genere di opere poi si presta benissimo a dibattiti tenuti da “esperti buoni” o giornalisti che riflettono sul tema. Ecco, così l’arte è già morta perché non si comprende più la sua natura e quindi la sua vera utilità.
Megalopolis è poi sfrenato, ridondante. Ma non siamo oramai assuefatti ad una comunicazione che deve essere attraente, esuberante, con i ritmi giusti? Se un film è “lento”, così come il parlare di una persona in un video, noi ci annoiamo: lo consideriamo spento, poco brillante. Le cose ci devono “colpire”. Le immagini ci devono “colpire”. Senza rendercene conto noi filtriamo tutto secondo i nostri sensi più corticali che sono ormai allenati, si fa per dire, solo per accogliere il “tanto”, la quantità. I sensi interiori, al contrario, sfuggono come veleni tali prodotti e opere. Ma questi sensi nella società attuale che utilità hanno nei nostri lavori, nello studio, nelle dinamiche sociali che ogni giorno seguiamo? Domandiamocelo.
Megalopolis è, malgrado tutto, un utile specchio dove queste nostre storture – che vengono da lontano, bisogna dirlo – sono portate all’eccesso, al limite della tollerabilità. Infatti non a caso il film sta riscuotendo poco gradimento da pubblico e critica. Ma l’inganno sta nel pensare che i suoi difetti siano solo suoi e non invece quelli di un’intera società, ormai marcescente, solamente portati all’estremo.
Un ultimo punto. Nel film si parla del tempo, di poter controllare il tempo. Ma anche di non cedere ad una grande tentazione: «Non lasciate che l’oggi distrugga il per sempre» sentenzia Cesar Catilina. Ciò che è eterno, che supera le barriere e la corruzione del tempo è ciò che veramente conta. Eppure proprio la voracità filmica di Megalopolis, il suo immanentismo anche se vorrebbe aspirare all’immateriale, contraddice quella sentenza. L’oggi vince e chiude le porte all’eterno.
Anche noi viviamo schiacciati dall’oggi. Siamo ossessionati dall’inseguire le notizie più recenti, dall’essere sempre al passo coi tempi. Idolatriamo i risultati concreti, i successi, le vittorie raggiunte sul mercato. Ma ciò che ha davvero valore, che non si può svilire con i numeri – come, solo per fare un esempio, la vera arte – non può essere confinato e giudicato dall’oggi. Perché esso, proprio per il suo valore, sopravanza il giudizio immediato, del mercato, anche quello, seppur ristretto, di un gruppo. Ciò che ha valore sta sempre oltre noi, oltre il nostro oggi. In fondo ciò che ha veramente valore è spesso rifiutato, non solo dai tanti, ma anche dai pochi: perché è per sua natura, profetico.
Ecco, noi abbiamo certo in particolare disprezzo le voci profetiche, più di ogni altra generazione che ha abitato questa terra. Siamo figli dell’oggi.
Megalopolis è tutto questo e anche più. È un grande specchio che deforma, fino a renderla insopportabile, l’immagine di questa società, di questa umanità. Sostiamo e meditiamo, allora, davanti a questa immagine, lasciamoci nuovamente provocare, noi che oramai amiamo solo criticare gli altri, “una parte”, ma abbiamo perduto la disponibilità a metterci in discussione, a guardarci dentro.
Megalopolis siamo noi.
Ringraziamo Massimo Salis e phausaniafilm.it