Ci si ritrovava, a sera, all’interno della sezione, ricavata tra i ruderi delle Terme di Traiano, al parco del Colle Oppio. A fumare delle sigarette aspre e comprate sciolte, tre o quattro, le più economiche, a bere gazzosa o vino di pessima qualità, che lasciava la bocca impastata e stringeva lo stomaco. Intitolata alle terre redente e perdute d’Istria e Dalmazia, ma da tutti noi chiamata ‘Il Covo’, a memoria di quello storico in via Paolo da Cannobio 35, dove c’era la redazione de Il Popolo d’Italia e la stanzetta del futuro Duce con la bandiera degli arditi alla parete e sulla scrivania revolver e bomba a mano. ‘… fra le grigie facciate tutte botteghe e finestre aperte nella greve atmosfera di quelle strade popolane che attraversa un rione angusto e senza respiro di piazze’, come Giorgio Pini lo descriveva nel 1984, egli che l’aveva condiviso. Ceduto negli anni Trenta alla Scuola di Mistica Fascista. Da dove tutto era cominciato e a cui noi si guardava con partecipe nostalgia. Aveva, in quei giorni d’ardenti passioni e storiche decisioni, ammonito Mussolini ‘I vinti avranno una storia, gli assenti no. … Chi tiene troppo alla sua pelle non andrà nelle trincee, ma non lo troverete certo nemmeno il giorno della battaglia nelle strade’. E così fu. E allora noi, ondate ormonali appagate da bastoni e barricate (a cui, nonostante tutto, rimango, anacronistico e patetico, fedele pur con gli occhi stanchi e il passo incerto), a confondere le nostre bravate davanti alle scuole e in piazza con lo squadrismo, i suoi BL 18 ‘bombe a mano e carezze col pugnal…’, a rendere la cronaca sciatta dei primi anni Sessanta simile alla storia di furore epico ed esaltante del nascente Fascismo.
La sezione appariva un sacrario, chiesa catacombale di una religione in armi. Due busti in bronzo del Duce che in quattro di noi si faticava a sollevare dal piedistallo ove erano collocati. Si raccontava che, il più pesante, l’avesse portato in spalla Zambo e con una mano in tasca stringendo la bomba a mano a difesa. Grande grosso i capelli ricci il volto di carnagione scura e i tratti robusti. Era stato bersagliere sul fronte russo, da cui era ritornato con i piedi congelati. Lento, di conseguenza, nei movimenti, ma di una forza prodigiosa. E di Fede, umile e intransigente. Quando il corpo di Mussolini venne restituito alla famiglia, a Predappio, un giornale svedese pubblicò due foto di Zambo (non ho mai conosciuto il suo vero nome) in ginocchio e il volto rigato di lacrime. Sotto, a didascalia, qualcosa del genere ‘il gigante buono piange il suo Duce’… Vestiva di stracci dormiva sulle panchine – solo nelle notti di particolare freddo stendeva le coperte sul biliardo della sezione – si lavava alle fontanelle. Ed era pronto a battersi. Una notte lo vidi togliersi il sangue, che gli colava da uno squarcio in testa, probabilmente da una bastonata, con l’acqua fredda della fontana. E, in altra occasione, prese me e un giovane profugo istriano a colpi di giubbotto arrotolato perché leggevamo a voce alta versi del poeta russo Vladimir Majakovskij ove s’inneggiava a Lenin. ‘Partigiani! Merde!’, lo sentimmo inveirci contro, mentre lesti ci si teneva alla larga in attesa che l’’ira funesta’ si calmasse.
Erano questo tipo di camerati che non ti arricchivano nelle conoscenze non ti davano indicazioni su come schierarsi di fronte alle dinamiche sociali e politiche non si distinguevano negli annosi e sovente sterili dibattiti a favore di Evola contro Gentile o tra nuovi pagani e cattolici osservanti e neppure, le più pragmatiche, scelte se restare fedele espressione ed eredi della Repubblica Sociale o aprirsi ad una Destra con monarchici e frange liberali. Erano però il cuore, forse la pancia, di un popolo che s’era illuso di poter essere grande – le bonifiche la conquista dell’Impero i milioni di baionette -, di poter essere pari agli Stati, l’Inghilterra in primis, che la facevano da padroni in Europa e nel mondo, e non si riconoscevano nel tradimento del 25 luglio e nella vergogna dell’8 settembre. Non c’era ragione storica o qualsiasi altra motivazione che potesse sradicarne il senso di appartenere ancora e sempre ad una comunità ideale, quella che s’era stretta a raccolta sotto il balcone di Piazza Venezia. E con il tempo comprendi come siano sempre quelle emozioni ad antecedere ogni tuo ragionamento. Ho appreso, rendendolo valore in sé, come la carne sia forte (tutto il contrario della debolezza di cui i cristiani fanno lezione) ed è la mente, arrogante e presuntuosa, ad essere fragile o capace di edificare alibi a se stessa. Forse un paradosso per chi e per quaranta anni ha incespicato, in cattedra e fra i banchi, nel mondo delle idee… Alle pareti, tinteggiate in modo grossolano e di colore rosso mattone, riquadri di vernice bianca con frasi dell’ultimo Mussolini. ‘Non dovete essere i testimoni della disfatta, ma artefici della rivincita’, cito con incerta memoria. Appunto, lesti e furbetti, via la camicia nera i saluti romani i ‘Viva il Duce!’… Quando s’è sbaraccato tutto l’armamentario di un ingombrante passato non so dirlo. Forse anni Ottanta. I nuovi – ed ultimi – gestori della sezione hanno, previdenti e preveggenti, compreso come, prima o poi, sarebbe disceso – non da qualche nuvoletta, ma prosaico dalla sua villa di Arcore – il traghettatore verso i salotti bene nella rispettabilità borghese offrire posti in qualche consiglio d’amministrazione e, sommo gaudio, scranni da ministri e sottosegretari. E avrebbe imposto loro giacca e cravatta, ripuliti fuori e mondi nella mente e nel cuore. Proni sempre e comunque. Senza traumi freudiani e rimpianti e rancori e, ancor meno, quelle idee storte di radicali alternative. Oggi, parabola discendente, una sindaca in cerca di teatrino, essendo priva di competenze e di capacità (i cassonetti trasudano sul marciapiede sacchetti d’immondizia, gli autobus sono presenza evanescente, zingari e migranti si predispongono a spadroneggiare), di soppiatto, come ladri nella notte, ha mandato vigili armati di catene e lucchetti…
Era l’autunno dell’anno 1969. Dopo la breve stagione gioiosa e di rivolta generazionale del ’68, simile a meteora all’università di Roma – e ne sanno qualcosa i dirigenti del MSI del PCI e del Ministero degli Interni – , si profilava la stagione di bande l’una contro l’altra armate, di improbabili strategie quando non si traducevano in ammiccamenti servili – entusiasmo voglia di cambiamento resa dei conti finirono ad essere simili a ‘ruggito del topo’ (facile oggi trarne le inevitabili conseguenze. Allora fu sangue generoso versato da entrambi i fronti e sbarre chiavistelli latitanza) -. Ultimo ricordo, qui, del Covo dove ero approdato nel ’62 e da cui me n’ero andato nell’estate del ’65, subito dopo il Congresso di Pescara. Aria di rivoluzione, per dirla con il titolo di una canzone di Franco Battiato, ma questa è altra storia. Si risale per il Colle Oppio, non ricordo da quale manifestazione venivamo. Siamo un gruppetto di anarchici, compreso quel ‘compagno’ Andrea proveniente da Genova, identificato poi quale agente di polizia. Si arriva all’altezza della sezione. A qualcuno viene l’idea – nulla in sé di originale in quei tempi di ordinario disordine (un Chaos, in verità, incapacitante di partorire ‘stelle danzanti’) – di lanciarvi dentro una molotov. Una bottiglia di vetro e della benzina del motorino e del terriccio da fare spessore. Rudimentale prodotto di ragazzotti estrosi ed esaltati. Andrea si propone chè vuole sperimentare l’emozione e ‘l’effetto che fa’. Una misera macchia di bruciato sul pavimento del salone, il risultato. Nessuno se n’accorse e nessuno sarebbe venuto a saperlo se… durante le indagini su Piazza Fontana – io già a misurare tre metri per sei – Andrea (credo) se ne uscì attribuendomi ideazione preparazione esecuzione. Come se non bastasse il mandato di cattura per strage con il suo carico di morti e carni lacerate. Conclusione: mi trovai un secondo capo d’accusa con l’aggravante. Oggi vi posso sorridere (e riflettere su giustizia e strategie di Stato, ma anche queste sono altra storia) e preservare memoria, la sola che conta, di Zambo delle pareti scrostate e muffe del busto del Duce di quell’atmosfera cospiratoria di giovinezza ardente e amara. Senza metafore e metanoie…
Mario Michele Merlino