E’ di pochi mesi l’uscita di “Il canto dei lupi”, opera prima dei “Mercury’s Child”. Il gruppo musicale, anch’esso di recenti formazione e nascita, richiama già nel nome la fluidità mercuriale di un’ operazione alchemica, offrendosi il modo di giocare musicalmente con suoni della tradizione che oscillano tra le sottili suggestioni celticheggianti e i territori del “progressive”, l’aspetto forse più sofisticato e misterioso di tutta la musica rock. Se qualche purista della tradizione, sentendo parlare di musica rock, dovesse storcere il naso, qui si tratterebbe di un atteggiamento abbastanza superficiale: non solo l’aspetto “progressive” identificò stilemi musicali oramai già abbastanza lontani e di ben più ampio respiro rispetto alla matrice originaria del rock, ma nel caso specifico esso, a prescindere dall’evocare l’ elemento “metallico” proprio all’epoca in cui siamo, ne acquisisce il linguaggio espressivo nella sua forma più attuale, più popolare e più diretta, divenendo il veicolo in tal senso più efficace per traslare il messaggio di cui si fa portatore: dal musicista all’orecchio di chi ascolta.
Mercury’s Child batte il sentiero della canzone, la forma di musica più diretta e popolare, come già detto. Volendo giocare a far le “persone colte” si direbbe che in tal modo la musica aggira le barriere razionali per operare direttamente sull’elemento astrale: per un messaggio dalle forti peculiarità culturali non c’è veicolo migliore e chi ascolta, trasportato
La creatività è il principale segno distintivo di Mercury’s Child il cui nome, coniugato nella “barbara” lingua tanto invisa a D’Annunzio, serve qui a dare una dimensione di internazionalità a qualcosa che internazionale di certo ancora non è, ma che coniuga quella fluidità di cui sopra e tende ad espandersi, a non restare chiuso in quegli spazi, davvero troppo angusti, in cui una cultura cosiddetta “tradizionale” ha forse involontariamente relegato uno degli aspetti più magici di tutto il sapere umano. Fatti salvi alcuni(peraltro encomiabili) tentativi di gruppi come “La compagnia dell’anello” e “Gli amici del vento”, che a tratti produssero canzoni anche molto evocative, il cantautorato tradizionale, se lo si vuol chiamare così, di fatto non ha lasciato un così cospicuo segno; probabilmente per aver troppo poco battuto i sentieri di un suono più congeniale alla sua cultura d’origine. Anche quando si trattò di esprimere sentimenti di ribellione e di lotta, il voler mostrare l’evidente appartenenza ad un contesto storico oramai pregresso e il voler fare riferimento ad un “sociale” malato, che era già “territorio di caccia” del cantautorato di sinistra, probabilmente penalizzò quei tentativi, trasportandoli in una congiuntura ad essi non troppo affine, quantunque lo sforzo fosse assolutamente ammirevole.
Del resto, bisogna ammettere anche che la cifra artistica dei musicisti che in quell’epoca andarono per la maggiore era oltremodo importante, e forte di un sostegno politico che probabilmente i gruppi “della tradizione” in realtà non ebbero mai, e in ogni caso non in forma così cospicua. Cosicché bisogna riconoscere la bravura artistica dei vari Dalla, De Gregori, del primo Venditti, egemoni pressoché incontrastati della cultura musicale del paese. Dall’ “altro lato” un campione assoluto come Battisti offriva senza dubbio l’alternativa della sua arte e della sua originalità costrette anch’esse, però, a mantenersi in qualche modo entro i confini del sociale e del sentimento, quantunque universalizzato grazie anche all’ inarrivabile maestria di Mogol. Battisti era “sul mercato” discografico, e per quanto mantenesse una posizione abbastanza distante e “sottoesposta” rispetto ai media, oggettivamente non avrebbe potuto dar seguito, con le sue canzoni, ad istanze magiche o sapienziali: il mercato, nel quale egli aveva comunque scelto di stare, non gli avrebbe permesso di spingersi di così tanto oltre l’ usuale, anzi potremmo dire che la sua bravura consistè proprio nel lasciare comunque un messaggio, utilizzando mezzi usuali. Tra l’altro i suddetti cantautori, in voga già sul finire degli anni ’70, erano un po’ in procinto di subentrare allo stesso Battisti che li aveva preceduti, ma che stava man mano esaurendo l’ispirazione dei suoi primi anni.
Senza assolutamente volersi equiparare ad un modello così alto come quello del rietino, e nel pieno, assoluto rispetto di quei gruppi alternativi e rivoluzionari che per primi cercarono di rendere in musica sentimenti come la fedeltà, sia ai propri valori che alla parola data, lo slancio eroico e guerriero sprezzante dell’estremo sacrificio, e il magico sacrificio dello stesso antico sapiente, che rinuncia al mondo per realizzare nel massimo grado il suo spirito, Mercury’s Child batte il sentiero di un suono antico ma sempre nuovo, che si industria di superare ogni dogma proprio relativamente all’aspetto puramente musicale, al di la dei testi: per cui l’orecchio dell’ascoltatore non avrà modo di cader preda della noia, potendo fluire fra le note evocative e a tratti persino gioiosamente struggenti de “Il mare e il vento”, di “E tu”, e la potente, arcaica e selvaggia natura di “Imbolc”; tra la magica e sottilmente sciamanica atmosfera della ballad “Il canto dei lupi” e la gioiosa e popolare festa di “Ostara”, giocata sulle note e sui ritmi di un rock con tutti i “crismi”. E poi la festa continua, tra l’alternanza di danza popolare e valzer che rendono assai caratteristico l’impianto musicale di “Samhain” e l’austera, aristocratica potenza di “Principe”, che canta un condottiero dalla sapienza antica, deciso nel gesto, fertile nell’ispirazione: un brano nel quale l’ imponente, epica ed a tratti sinfonica atmosfera musicale narra il carisma di una guida regale che, se da un lato inorgoglisce la sua stirpe divina e solare, dall’altro rassicura un popolo che lo segue incondizionatamente, fiducioso nella magia di una filiazione eroica che, evolianamente parlando, evoca il mito del sangue, veicolo di forze sottili ed arcane. La conclusione, più che degna, di tutto questo, è in un brano il cui scopo è quello di affratellare quanti lottano per riportare al suo pieno fulgore quella luce antica che il testo de Il canto dei lupi dice “mai spenta”.
Nel brano “Terra dei Padri”, conclusivo, un impianto musicale ed un arrangiamento ancor più decisamente “progressive”, forte di una sofisticatissima partitura di flauto, sorreggono l’invito rivolto a popoli fratelli, ed inteso a far si che riconoscano la loro Madre comune in quella “Terra dei Padri” il cui suolo, sacro, ha generato Re, guerrieri ed Eroi, superando ogni contingente divergenza. Dalla Terra Saturnia all’Irlanda e le Fiandre, in nome di un’ Europa mai abbastanza unita ed oggi preda di attacchi vili, invasioni, globalizzazione, speculazioni finanziarie, il suono di Mercury’s Child intende porsi come un ponte ideale tra passato e futuro, per proiettare con un linguaggio moderno le istanze di un’antica sapienza e risvegliare, attraverso la fascinazione del suono, quell’ esaltazione fluidica che dalle anime antiche di Samhain, quinto brano del CD, riporti sentimenti di orgoglio per le proprie radici culturali, e la voglia di lottare perché esse non abbiano a scomparire, piantando piuttosto il seme che possa germogliare in una nuova fioritura, culturale ma anche sociale, per le generazioni a venire.
CENNI BIOGRAFICI
Mercury’s Child nasce da un’idea di Giuseppe Gaglione già nel 2013, in occasione di una festa di “amici della tradizione”, nella natia Napoli. Precedentemente, in simili occasioni, si era notato come in questi incontri l’elemento musicale che gradevolmente li rifiniva dovesse rifarsi a qualcosa di pregresso, fermo alle pur bellissime canzoni di Lucio Battisti ed al folklore napoletano evocativo, quest’ultimo, a tratti anche di prerogative magiche e sapienziali soprattutto nei testi di Raffaele Viviani . O alle eroiche istanze di lotta del brigantaggio meridionale, toccasana per gli animi guerrieri che in genere non disertano questo tipo di pur conviviali riunioni. Balzava alle orecchie tuttavia come quel suono fosse in qualche modo “fermo”, legato ad un’epoca che, per quanto a suo modo “eroica”, non è più la nostra. Si percepiva come se mancasse, fondamentalmente, lo slancio per proseguire la creazione di nuove forme, capaci nuovamente di esaltare ogni animo desideroso, quantomeno, di “mantenersi in piedi in un mondo di rovine”.
Così Giuseppe Gaglione, in quel non troppo lontano 2013, decise di riportare in vita il vecchio gruppo che si era costituito anni prima con il medesimo anelito, capace di musiche completamente originali e creative, ed al quale era stato dato, all’epoca, il nome tolkieniano di “Silmarillion”. Di quel gruppo, fondato dal percussionista Franco Sansone, egli fu voce sia “a supporto” che solista, e compositore di alcuni brani, oltre quelli del suddetto Sansone e di alcuni amici di Torre del Greco e di Napoli, come Massimo Marra e Pino Campobasso. Nel 2013 venne dunque innanzitutto cambiato il nome della band, alla quale venne dato il nome suggestivo di “Mercury’s Child”. Del vecchio gruppo Giuseppe Gaglione(classe 1959) riuscì a recuperare il flautista Raffaele Sansone(1962), fratello del fondatore, il chitarrista Romolo Selvaggio(1963), di ispirazione beatlesiana ed attento cultore delle suggestive sonorità celtiche e, recentemente, il bassista Michele Mennella(1963), anche lui musicalmente “figlio” dei quattro di Liverpool ma dotato di sensibilità musicale tale da consentirgli di spaziare agevolmente tra le sonorità più segnatamente “progressive”. Al nucleo suddetto si aggiunse il giovane e talentuosissimo chitarrista classico Fausto Somma(1992), diplomato allo storico conservatorio Napoletano di San Pietro a Macella, fucina di grandi maestri, ed il fisarmonicista, cantante, percussionista, chitarrista, in una parola polistrumentista Decio Osvaldo delle Chiaie(1956), l’elemento di maggior prestigio stante la sua lunga militanza ne “Li Ciaravoli”, gruppo di musica popolare la cui fama, all’epoca della maggior fioritura di questo genere, fu probabilmente seconda in Campania solo a quella della mitica Nuova Compagnia di Canto Popolare. A supporto di questo, che è il nucleo-base, si avvicendano il giovanissimo batterista-percussionista Ennio Gaglione(1997), ed i più “navigati” Maurizio Carbone(flauto) e Nunzio Moscarella(batteria).
A fare infine da significativo supporto alla fase canora ma anche all’aspetto estetico di tutto il gruppo, con la loro avvenente bellezza, si susseguono volta per volta le cantanti Arca Colamarino, talento istintivo, la giovanissima Anna Piergallino, soprano classico, e la fantasiosa, bellissima e talentuosa Argia Di Donato, attuale cantante, “voce” del CD ed autrice di molti testi dello stesso. Mercury’s Child è dunque il nuovo nome del gruppo, ad indicare anche l’anelito a volersi librare, sulle ali dell’elemento mercuriale, oltre la filiazione tolkieniana dei precedenti Silmarillion per volare sempre più in alto alla ricerca di quella già citata “luce mai spenta”.
Riferimenti telematici:
– alcuni video del gruppo (video 1) – (video 2) – (video 3);
– una recensione all’album (CLICCA QUI).
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