9 Ottobre 2024
Tradizione

Metafisica del dato – Marco Calzoli

Tutto ciò che accade, vale a dire la realtà fenomenica presa nel suo insieme e nei suoi particolari, costituisce il mondo esterno. Il mondo esterno è tale in quanto vi è un osservatore. L’osservatore è colui che capta gli eventi del mondo esterno. Tutto quanto è dotato di organi di senso può fungere da osservatore: dal pipistrello all’anatra su uno stagno. Non è necessaria una mente razionale per osservare, basta una mente anche di un animale ma collegata agli organi di senso. Gautama (Nyāya Sūtra, 1.1.4): indriyārthasannikarsūotpannam jñānamavyapadeśyamavyabhicārivyavasāyātmakam pratyakṣam, “la percezione è prodotta dal contatto dell’oggetto con il senso; è un sapere non dominante, non erroneo, (che ha) la natura della risoluzione”. La percezione è un sapere non immediatamente verbalizzabile (non dominante), non erroneo (al contrario di un miraggio) e che determina risoluzioni (conclusioni) inequivocabili. Il semplice fenomeno diventa informazione quando una mente razionale (uomo) lo elabora inquadrandolo in categorie razionali. Una pietra che cade in una pozza d’acqua è un fenomeno, ma diventa informazione quando dico: “La pietra si muove, la pietra precipita, la pietra fa rumore a contatto con l’acqua”, e così via.

Il fenomeno è neutro e oggettivo, invece l’informazione è razionale, quindi si basa sulla soggettività di colui che non

solo osserva ma anche pensa. Un vetro rotto è un fenomeno in quanto semplice istantanea data alla mente percettiva dagli organi di senso. Invece dire che un vetro rotto è tale a causa di un movimento dal basso verso l’alto di una pietra significa inquadrare il fenomeno, quindi trasformarlo in informazione. Esistono tre tipi di informazione:

1. Informazione come realtà: è il fenomeno in quanto tale;
2. Informazione sulla realtà: è la informazione vera e propria, essa ha un valore semantico in quanto decifra il fenomeno nei suoi componenti intimi;
3. Informazione per la realtà: essa non ha valore per sé stessa ma conduce ad altro, è il caso del codice genetico che è una serie di informazioni che valgono come istruzioni per creare proteine.

Il terzo stadio è che la informazione si trasforma a sua volta in conoscenza. Non basta categorizzare un evento, bisogna anche spiegarlo. Facciamo sempre l’esempio della pietra sul vetro. La istantanea percettiva del fenomeno viene catalogata mediante schemi cognitivi (informazione). Ma ciò non basta per accrescere la conoscenza su tale fenomeno. Per conoscere la realtà devo fare una inferenza. Lo schema logico mediante il quale penso che la pietra è stata lanciata dal basso verso l’alto serve per compiere il passo ulteriore: un monello passava per strada e ha lanciato la pietra con l’intento di frantumare il vetro. La nostra vita consiste in definitiva in un continuo ottenimento di senso da tutto ciò che ci accade. Trasformiamo in continuazione i fenomeni in informazioni e poi in conoscenze. Nella conoscenza noi otteniamo lo scopo della nostra vita. Il partner ci dà uno schiaffo. Il fenomeno sta nella visione della mano sul nostro viso e nella percezione del dolore cutaneo. Il fenomeno diventa informazione quando pensiamo al movimento della mano, all’ira di chi lo ha lanciato a noi e alle conseguenze del gesto. L’informazione si trasforma in conoscenza quando inferiamo il perché. Il partner mi ha dato uno schiaffo perché lo ho tradito.

Noi diventiamo veramente esseri umani quando ci stacchiamo dalla famiglia e iniziamo a “capire” il mondo sociale, quindi ad agire attivamente in esso. Secondo la Teoria del Frame (Goffman), la realtà sociale non è unitaria ma è strutturata in più livelli. Ebbene, lo sforzo che ci permette di avere dimestichezza con la società consiste nella conoscenza di tali livelli. Li dobbiamo percepire, poi dobbiamo capire lo schema che li informa quindi dobbiamo trarre conseguenze logiche in funzione del loro utilizzo (una tipica inferenza è questa: Se il partner mi ha dato uno schiaffo, non lo devo più tradire). In ogni processo conoscitivo abbiamo tre momenti:

1. Raccolta dei dati (osservazione del fenomeno e memorizzazione);
2. Analisi (che trasforma il dato grezzo in informazione);
3. Interpretazione (che trasforma l’informazione in conoscenza).

Detto in altri termini, ogni cosa che accade ha in sé uno schema, vale a dire un algoritmo, cioè una procedura mediante la quale la cosa avviene. La procedura può essere anche casuale. Tutto ciò che accade presenta una modalità di esecuzione che può essere espressa matematicamente. All’inizio il fenomeno è oscuro. L’informazione ci permette di penetrare oltre l’apparenza per coglierne gli schemi razionali. Un macigno che si stacca e inizia a rotolare verso valle possiede lo schema del movimento e quello della accelerazione. A questo punto l’informazione significa cogliere lo schema che informa un evento, mentre la conoscenza è andare oltre lo schema per coglierne il senso. Per esempio, non è stato messo in sicurezza il masso e quindi esso si è staccato repentinamente creando danni a valle. La semplice informazione non dà conoscenza. Ne consegue che l’aumentare di informazioni non coincide con l’aumentare della conoscenza. È noto il Test di Wiseman. È stato intervistato due volte un noto commentatore politico inglese, ma una intervista era vera e l’altra era falsa, a questo punto è stato chiesto a un pubblico di dire quale intervista fosse quella vera. Il pubblico selezionato aveva a disposizione tre mezzi di comunicazione: quotidiano, radio, TV. Chi aveva a disposizione la TV, che permette di avere più informazioni (voce, parole, gesto, postura, occhi, eccetera), ha sbagliato di più nel riconoscere l’intervista vera, rispetto a coloro che avevano quotidiano (solo parole) ne radio (parole e voce). Quindi la conclusione del Test è che non solo chi ha più informazioni non conosce meglio, ma anzi chi ha più informazioni commette più errori.

Lo Śathapatha-brāhmaṇa (XI, 5, 6, 1-3) insegna che l’uomo nasce con un debito. Egli deve estinguere questo debito facendo cinque tipi di sacrifici:

1. Sacrificio agli esseri: quando l’uomo offre sostentamento alle creature;
2. Sacrificio agli uomini: quando l’uomo si fa disponibile verso i suoi simili, come nell’ospitalità;
3. Sacrificio agli antenati: quando l’uomo si ricorda dei cari defunti;
4. Sacrificio agli dei: quando l’uomo fa pratiche rituali religiose;
5. Sacrificio al Brahman: quando l’uomo compie lo studio sacro.

Quindi lo studio viene inteso come un atto sacrale, non solo, ma anche estinzione di un debito vero e proprio. Perché? Perché mediante lo studio l’uomo si eleva dalla condizione animale, non solo, ma acquisisce dignità divina, in quanto la conoscenza è un attributo divino. La conoscenza quindi è un atto metafisico che porta l’uomo al di là della sua condizione materiale e lo innalza a una condizione superiore. Noi conosciamo attraverso la parola. E nel Ṛg-Veda (X, 81, 3) Viśvakarman, il Signore della Parola, è descritto in maniera altissima, egli infatti “con le braccia, con le ali fonde insieme il cielo e la terra generandoli, unico dio”, sam bāhubhyām dhamati sam patatrain dyāvābhūmī janayan deva ekaḥ. Gauḍapāda nel Māṇḍūkyakārikā Upaniṣad (4.7) cita e commenta l’importante passo della Māṇḍūkya Upaniṣad (4.7): na bhavatyamṛtam martyam na martyamamṛtam tathā – prakṛteranyathābhāvo na kathañcidbhaviṣyati, “L’immortale non può divenire mortale, né, altrimenti, il mortale (divenire) immortale. Un cambiamento di natura non potrà avvenire in alcun modo”.

Ma l’uomo è il Brahman stesso, l’uomo è in sé stesso l’Assoluto, in quanto l’ātman, la sua anima, il suo Sé, coincide con il Brahman, e ogni differenza tra queste due entità è pura illusione (māyā). Ṛg-Veda (I, 115, 1) : āpā dyavāpṛthivī antarikṣam sūrya ātmā jagatas tasthuṣaṣ ca, “questo sole, che ha riempito di Sé il cielo e la terra, è l’anima di tutto ciò che è mobile e immobile”. Ogni inno del Ṛg-Veda è giocato su innumerevoli richiami sonori. Suoni identici o vicini, forme di casi che si ripetono uguali, costruzioni sintattiche bilanciate. De Saussure ha osservato che ogni inno è basato su una parola chiave: il nome del dio cantato in quella composizione. Il procedimento è complesso. Il poeta può giocare ripetendo più volte i casi del nome del dio facendolo così presente in altre parole sena nominarlo, assieme alla sua scomposizione in fonemi o sillabe distinti ma ripetuti in altre parole. Perché? Probabilmente perché il poeta vedico vuole approfondire la conoscenza del dio: se il nome del dio è così collegato ad un’altra parola, tale parola getta luce nuova sul dio stesso. Come a dire che tutto parla della divinità. Mondo esterno, ātman e dio sono la stessa cosa?

Nell’India antica è rilevante la dottrina del saṃskāra, un termine sanscrito immenso che va dalle tracce mnemoniche delle vite precedenti ai perfezionamenti che una persona consegue tramite i riti di passaggio e alla maturazione che il soggetto acquisisce in una vita. Un essere umano durante le sue trasmigrazioni può reincarnarsi anche in un dio oppure in un animale. Pertanto c’è una profonda solidarietà, addirittura omogeneità, della persona, di tutte le persone e di tutti gli esseri, tra di loro e con il cosmo intero. Per Gautama (Nyāya Sūtra, 1.1.9) la conoscenza è questa: ātmaśarīraendriyārthabuddhimanaḥpravṛttidoṣapretyabhāvaphaladuḥkhāpavargāstu prameyam, “l’anima, il corpo, gli organi di senso, la capacità intellettuale discriminante, la mente, l’attività, il demerito, lo stato dopo la morte, il frutto, il dolore, la liberazione – (tutto ciò costituisce) in effetti l’oggetto della conoscenza”.

Il Ṛg-Veda (X, 9, 1) parla della “felicità della perfetta conoscenza”, mahe raṇaya cakṣase. Īśvarakṛṣṇa nel Sāmkhyakārikā (23) sostiene: adhyavasāyo buddhir dharmo jñānam virāga aiśvaryam, “l’intelletto è determinazione. La sua natura è costituita di virtù, conoscenza, distacco e potere”. È in ciò che poggia la felicità suprema dell’uomo. Ma vi è una differenza tra io individuale e ātman. La conoscenza operata dall’io individuale deve alla fine cedere. Essa è una preparazione alla conoscenza operata dall’ātman. La vera conoscenza è preparata dalla prima, che poi deve cedere a favore della visione assoluta del Brahman. Per questo Gauḍapāda nell’Āgamaśāstra (III, 38) sostiene: graho na tatra notsargaś cintā yatra na vidyate/ātmasaṃsthaṃ tadā jñānam ajāti samatāṃ gatam, “laddove pensiero non è, ivi non c’è afferramento (apprendimento), né abbandono (per alcun oggetto). Allora (in quel momento) la mente riposa su sé stessa, è non generata ed è pervenuta allo stato di medesimezza”.Śaṃkara nella sua famosa opera Aparokṣānubhūti (130) osserva: yo hi vṛttim jahaty enam brahmākhyam pāvinī parām – tathaiva te tu jīvanti paśubhiś ca samā narāḥ, “coloro che non portano la mente sul Brahman supremamente purificante, vivono inutilmente e possono considerarsi allo stesso livello degli animali”.

La falsa conoscenza dell’io individuale deve essere controllata con uno sforzo incessante affinché la mente si liberi da ogni desiderio e da ogni pensiero e pertanto possa essere libera di contemplare il Brahman. Si tratta di una verità così espressa dalla Māṇḍūkya Upaniṣad: (3. 41) utseka udadheryadvatkuśāgreṇaikabinduṇ manaso nigrahastadvadbhavedaparikhedataḥ, “Il controllo mentale (si ottiene) con uno sforzo incessante come (quello) per prosciugare l’oceano goccia a goccia con (l’utilizzo di un filo d’erba) kuśa”.

Bibliografia:

• L. V. Arena, Il Nyāya Sūtra di Gautama, Introduzione, Testo, Traduzione, Commento, Lessico, Edizioni Āśram Vidyā, Roma 1994;
• T. J. Elizarenkova, Il Rigveda. L’inizio della letteratura e della cultura in India, Aracne Editrice, Roma 2011;
• Gauḍapāda, Āgamaśāstra, a cura di I. Vecchiotti, Ubaldini Editore, Roma 1989;
• Gauḍapāda, Māṇḍūkyakārikā Upaniṣad, Introduzione, traduzione e note di Raphael, Bompiani, Milano 2016;
• E. Goffman, Frame Analysis: An Essay on the Organization of Experience, Northeastern University Press, Boston 1986;
• Īśvarakṛṣṇa, Sāmkhyakārikā, traduzione di C. Pensa, Edizioni Āśram Vidyā, Roma 2014;
• C. Malamoud, Femminilità della parola. Miti e simboli dell’India antica, La parola, Roma 2008;
• L. Ricolfi, Manuale di analisi dei dati, Laterza, Bari 2002;
• Śaṃkara, Aparokṣānubhūti, a cura di Raphael, Edizioni Āśram Vidyā, Roma 1995;
• Upaniṣad, a cura di Raphael, Bompiani, Milano 2010.

Marco Calzoli si è diplomato presso  il Liceo Classico “Jacopone da Todi” in Todi (Pg) e successivamente ha conseguito la Laurea di primo livello in Lettere, indirizzo Filologia e Letteratura Classica e Glottologia, presso l’Università degli Studi di Perugia, con una votazione di 110/110 e lode.

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