10 Ottobre 2024
Poesia

Metro, Metodo, Modello – Vittorio Varano

Non tutto è poesia e non tutti sono poeti. Poesia è scrittura secondo una regola. Perciò, poesia è solo quella classica; quella contemporanea è pseudopoesia. Come non si può considerare monaco o frate chi non vive seguendo una regola di vita, così non si può considerare poeta chi non compone seguendo una regola di composizione. L’accostamento tra poesia e monachesimo non è un accostamento casuale, perché come il monachesimo è vita consacrata, così la poesia è un’attività consacrata, ma soltanto quella vera, a condizione, cioè, che operi in essa un autentico mezzo di santificazione, autentico, ossia oggettivo.

A consacrare la poesia non è l’ispirazione (che può essere, e di solito è, un’illusione dell’interiorità) ma esclusivamente l’obbedienza ad una regola. Infatti, soltanto l’applicazione di un criterio esterno, e l’adeguamento ad un sistema che non tenga conto delle nostre esigenze egoiche, garantisce dagl’inganni a cui inevitabilmente va incontro ogni giudizio di gusto a proposito dei parti del proprio intelletto, sempre o troppo integerrimi o troppo indulgenti, mai equi.

Come la regola monastica, anche la regola poetica consta di questi elementi: metro, metodo, modello. Come la vita del monaco è vita scandita dalla liturgia delle ore (la ripetizione delle preghiere quotidiane nelle ore canoniche: lodi mattutine, ufficio delle letture, vespri, compieta, e ore medie), così la scrittura del poeta è scrittura scandita dal ritmo fisso di versi, strofe, stanze, canti, eccetera. Come ogni ordine monastico ha elaborato un insieme di strategie e di sostegni per portare a termine il percorso di perfezionamento dello spirito, così ogni scuola letteraria ha sviluppato un suo stile specifico che rende riconoscibili, ad esempio, i petrarchisti, anche a grande distanza di tempo e di spazio l’uno dall’altro.

Come ogni ordine monastico ha un fondatore che fa da modello a tutti i suoi successori e seguaci, così ogni scuola letteraria ha il suo fondatore che fa da modello a tutti i suoi imitatori, che la mentalità moderna (che pur con tutto il suo piatto conformismo, si crogiola nel mito dell’originalità) liquida superficialmente appioppando loro l’epiteto spregiativo di epigoni, come se la grandezza dei maestri sminuisse il valore degli allievi, come se l’aver appreso dai maggiori fosse motivo di vergogna, e non invece, di vanto.

Ma perché sono così indispensabili metro metodo e modello per la definizione di poesia? Perché la poesia è metà di una di quelle stelle binarie del cosmo concettuale, quelle coppie di concetti correlati in cui ciascuno dei due elementi dipende costitutivamente da quello che gli è contrapposto.

La poesia è poesia perché non è prosa. La totalità è la somma di infinita prosa più pochissima poesia. La regola serve a mantenere separate la poesia e la prosa, a strappare la poesia all’abbraccio mortale della prosa. La prosa è quasi tutto, la poesia è la parte minore che resta dopo effettuata la divisione. Il venir meno, nella modernità, di ogni linea divisoria, ha determinato il mescolamento tra la poesia e la prosa, e in conseguenza di ciò, la sparizione della poesia dal mondo; analogamente a quello che è accaduto nel corso della protestantizzazione non solo del cristianesimo ma di tutte le antiche tradizioni religiose, incluse le sopravvivenze pagane: invece di realizzare l’intenzione di estendere  il campo del sacro all’intera esistenza, si è verificato il contrario, cioè la sovrapposizione del profano al sacro, che ne è rimasto completamente ricoperto, fino a divenire del tutto invisibile; infatti si può stabilire una proporzione, per cui il rapporto che c’è tra la poesia e la prosa è, se non proprio lo stesso, perlomeno paragonabile a quello che c’è tra il sacro e il profano, ed anche in questo caso s’incrociano il crescere e il decrescere: affinché aumenti il valore, è necessario che diminuisca il volume. La regola è il filtro attraverso il quale devono passare le parole per uscirne ridotte, perché la poesia non può essere prolissa, perché prolissità è pressoché sinonimo di prosaicità.

Il ruolo delle Muse è mettere la museruola a chi apre la bocca troppo spesso e volentieri, di chi spalancandola per chiacchierare a vanvera, la fa spalancare a chi l’ascolta, per sbadigliare dalla noia. Le Muse non istigano ad eloquere, sono fustigatrici di chi eccede in oratoria difettando in orazione, di chi intende la poesia, secondo la concezione corrente, come espressione-di-sé, cioè come surrogato secolare del sacramento della confessione, in cui al posto dell’assoluzione c’è l’applauso, fesseria nient’affatto innocua, in quanto contiene un inconveniente incontrovertibile: mentre il sacerdote non pronuncia la formula assolutoria a nome proprio (e perciò non è necessario andarsi a confessare in tutte le chiese del mondo per ricevere l’assoluzione da tutti i sacerdoti del mondo) il lettore non è portavoce di nessuna realtà sovrapersonale, perciò il suo applauso non è sufficiente a soddisfare il desiderio di approvazione del poeta contemporaneo, perennemente inappagato, e bisognoso di altri lettori e altri applausi, in un’ovazione sempre da rinnovare, che non riempie mai la sala del teatro, perché lo scroscio di mani presente sostituisce lo scroscio di mani passato che intanto svanisce, senza mai potersi sommare, senza mai arrivare al livello del palco su cui il narcisista si esibisce, resta nella parte bassa dove il pubblico è seduto, inutilmente.

 

La piega spoetizzante presa dalla letteratura moderna ha un principio preciso: la cosiddetta lettera del veggente di Rimbaud, in cui Arthur afferma che “il poeta si fa veggente attraverso un ragionato sregolamento di tutti i sensi”; questo è il punto di svolta della storia della poesia, e Arthur Rimbaud si trova esattamente sullo spartiacque, come un Giano bifronte che col suo volto anteriore guarda avanti e intravede da lontano la marea montante del futuro (di cui lui stesso si propone come portabandiera nell’altra sua celebre dichiarazione d’intenti: “Il faut être absolument moderne”) ma contemporaneamente, col suo volto posteriore, non perde mai di vista la concezione classica ; infatti la sua formula è un ossimoro, perché non basta la sregolamento sensoriale, ma è necessario che sia ragionato, e perciò padroneggiato, tenuto sotto controllo in uno stile da mago, o meglio, da alchimista verbale (Alchimia del Verbo è infatti il titolo di uno dei suoi scritti); il vero e proprio crollo comincia subito dopo, con quelli che per primi si considerano e si presentano esplicitamente, consapevolmente e volontariamente, come suoi seguaci e scolari: i surrealisti. I surrealisti commettono un crimine, anzi, di più e peggio, compiono un sacrilegio, dello stesso genere di quello degli scienziati con la scissione dell’atomo: i surrealisti scindono l’ossimoro, dimenticano il ragionato, e del ragionato sregolamento rimane soltanto lo sregolamento – CONSUMMATUM EST – ma l’atto conclusivo del dramma è in questo il contrario di quello cristiano: invece che morte-della-carne/poi-discesa-agli-inferi-dell’anima/poi-resurrezione-dello-spirito, si ha resurrezione-della-carne/poi-discesa-agli-inferi-dell’anima/poi-morte-dello-spirito (detto in altri termini: la dannazione eterna) ; la famosa profezia di Hegel sulla morte dell’arte si è “finalmente” realizzata ; finalmente dal punto di vista di tutti gli uomini ottusi (materialisti e atei d’ogni famiglia, forma, genere e specie: illuministi, positivisti, marxisti, etc.) che esultano mentre si spengono e si fanno pian piano più oscuri. La scrittura automatica, marchio di fabbrica del surrealismo, è ben più di una semplice tecnica letteraria: è un atto di abdicazione della volontà, una pratica di autoipnosi che induce uno stato di sonnambulismo, di trance medianica, con effetti collaterali talmente gravi che può risultare letale per l’utilizzatore, trasformandolo in un golem, uno zombi (quello che nel linguaggio di Gurdjieff è “cibo-per-la-luna”) pronto per essere gettato nelle tenebre esteriori, la discarica di rifiuti collocata agli estremi confini del cosmo dove finiscono i residui psichici non riciclabili, il cimitero in cui vengono sepolti i corpi astrali di tutti gli esseri ex-umani, tranne coloro la cui ex-umanità è quella a cui accenna la terna di quartine estratte dal mio libro “Variando”, con cui chiudo questo saggio:

 

creati perché in noi gli dei s’incarnino
portiamo sulla testa il nostro carico
nel sacco non c’è frutta fresca o secca
chi sa cosa non si corica mai più

creati perché in noi gli dei s’incarnino
si può tenere in gabbia un canarino
ma non sei il canarino sei la gabbia
e stai impedendo di volare al dio che t’abita

creati perché in noi gli dei s’incarnino
tu guscio all’uovo d’oro fa’ da scrigno
se le stelle in fondo all’anima ti caschino
tu eri l’anatroccolo e sei il cigno

Vittorio Varano

2 Comments

  • Annalisa 17 Marzo 2017

    Bellissimi versi. Concordo pienamente su quel che scrive. Io, scrittrice di testi teatrali, non ho affrontato ancora l’impegno esclusivamente poetico, riconoscendo di non avere la capacità tecnica e caratteriale per farlo. E chissà se la sempre più evidente mia chiusura quasi monacale al mondo della maggioranza riceverà in dono l’arte poetica. Amo leggere poesia e rabbrividisco ogni qual volta mi capitano sotto gli occhi “versi” di poeti alla moda. Una cara amica mi invia spesso frasi di Alda Merini, per esempio. Ed io non trovo il coraggio di dirle apertamente che le trovo banali, insulse, ovvie e, soprattutto, non poetiche. Ma lo farò. Di minuscoli atti di coraggio, ha bisogno la poesia. La ringrazio.

  • Annalisa 17 Marzo 2017

    Bellissimi versi. Concordo pienamente su quel che scrive. Io, scrittrice di testi teatrali, non ho affrontato ancora l’impegno esclusivamente poetico, riconoscendo di non avere la capacità tecnica e caratteriale per farlo. E chissà se la sempre più evidente mia chiusura quasi monacale al mondo della maggioranza riceverà in dono l’arte poetica. Amo leggere poesia e rabbrividisco ogni qual volta mi capitano sotto gli occhi “versi” di poeti alla moda. Una cara amica mi invia spesso frasi di Alda Merini, per esempio. Ed io non trovo il coraggio di dirle apertamente che le trovo banali, insulse, ovvie e, soprattutto, non poetiche. Ma lo farò. Di minuscoli atti di coraggio, ha bisogno la poesia. La ringrazio.

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